cropped-les-miserables-aaron-tveit.jpegdi Clotilde Bertoni

1. «Cammino dal male al bene […] dall’inferno al cielo, dal nulla a Dio»: per i suoi Miserabili – che, già spremuti all’infinito dal teatro e dal cinema, tornano ora per l’ennesima volta sullo schermo – Hugo ha cura di coniare una definizione chiarissima. Eppure l’opera, classificata nei modi più vari – epos in prosa, romanzo popolare, romanzo filosofico, antiromanzo – di fatto sfugge a ogni definizione definitiva. E risulta caso dei più paradossali: intreccio insieme trascinante e indigesto, zeppo di classici ingredienti romanzeschi e intervallato da sfibranti digressioni saggistiche; testo che segue le voghe del momento (dall’ossessione del mito napoleonico all’interesse per il mondo dei bassifondi) ma azzarda una sfida inconsueta, il protagonismo di un uomo maturo; libro monumentale di un autore vate, deriso subito da Baudelaire e Flaubert, che però non rientra in nessun filone tradizionale.

Piuttosto, amalgama le suggestioni di generi diversi. L’intera vicenda, traboccante di passioni, antagonismi e colpi di scena, è segnata dalla dimestichezza di Hugo con il teatro melodrammatico. La storia dell’ex galeotto Jean Valjean, costellata di sacrifici e reincarnazioni, ha una vistosa impostazione agiografica. L’ampia sezione dedicata alle barricate parigine del 1832 (che riuniscono le nuove generazioni, il Marius innamorato della Cosette figlia adottiva di Valjean, i ragazzi del sottoproletariato, il gruppo rivoluzionario dell’ABC) è imbastita di topoi epico-cavallereschi rivisitati dall’ironia romantica: Eponine, la vierge souillée, si trasforma in vergine guerriera, sacrificando la sua vita per Marius; i soldati in procinto di fucilare Enjolras esitano davanti alla sua bellezza, come Zerbino davanti a quella di Medoro nell’Orlando Furioso; è il desiderio di morire al fianco di Enjolras, suo unico oggetto di venerazione, a ridestare l’antieroe Grantaire, che dorme ubriaco durante la battaglia; il monello Gavroche compie una spedizione in campo nemico canticchiando ancora mentre viene ucciso.

L’eterogeneità delle forme riprese sembra poi confluire in un messaggio limpido e consolatorio, in un senso incontrovertibile: la morte prematura dei ribelli dell’ABC, i martiri giovani, e la morte dimessa di Valjean, il martire anziano, sono controbilanciate dalla fervida speranza in un futuro che ne assorba e ne onori i sacrifici; l’antinomia fra tenebre e luce, così tipica di Hugo, appare senz’altro risolta a favore del secondo polo.

Ma le cose non sono così semplici. Il messaggio confortante risulta minato da un realismo sotterraneo, a suo modo pungente e sottile quanto quello degli autori che liquideranno Hugo come maestro sorpassato; l’opera pedagogica dove tutto torna, ideale oggetto da immolare all’ora degli anticristi, si rivela piena di chiaroscuri e contrasti, e forse perciò impossibile da accantonare.

Lo dimostra innanzitutto la storia dei giovani. L’eroismo dei ribelli è intrepido e struggente, ma anche fortuito e avventato, la loro sete di idealità precipita in un’azione grandiosa ma breve – della cui inutilità essi stessi sono consapevoli – perché non sa distendersi in un’azione duratura: il loro protagonismo epico-romantico indica la loro incapacità di dare vita a un nuovo, vero protagonismo romanzesco; e il Bildungsroman dell’unico sopravvissuto, Marius – aggrappato a sorpassati codici d’onore, che gli impediscono di affrontare gli eventi o glieli fanno travisare – rimane allo stadio di abbozzo, e minaccia di spegnersi nella mediocrità borghese.

Lo dimostra ancor più la storia di Valjean. Divenuto, con il nome di Madeleine, imprenditore filantropo e sindaco adorato, il personaggio decide di rinunciare alla nuova identità, e di riprendere quella infamante del galeotto, costituendosi per salvare il suo sosia Champmathieu: è il suo gesto più sublime. Ma è un gesto di cui il capitolo dedicato alla tremenda notte di incertezza che lo precede (la «tempesta in un cranio») mette subito in dubbio la validità: nel suo concitato monologo interiore Valjean, rendendosi conto che la sua autodenunzia sancirà la fine dell’opera benefica che ha intrapreso nelle vesti di Madeleine (mettendo in pericolo Montreuil-sur-mer, il paese che dipende da lui), la definisce «roba da melodramma», che salverà un innocente, ma ne rovinerà parecchi altri. E di fatto è quello che avviene; il testo, se esalta il beau geste melodrammatico, ne mette al tempo stesso in luce i danni: proprio l’assolutezza della santità di Valjean gli impedisce di incidere sulla realtà a lungo.

C’è anche dell’altro. Valjean è un martire schivo, riservato, laconico: resta così da una metamorfosi dall’altra; anche dopo essere maturato intellettualmente, non spiega, non argomenta, non ammaestra; non regge affatto il parallelo (avanzato spessissimo dai critici) con una figura faconda per eccellenza come Gesù Cristo. Parla pochissimo anche nei momenti culminanti, il processo in cui si costituisce, il combattimento sulle barricate, la salvezza offerta all’ispettore Javert, suo persecutore di sempre; e se nel finale, morendo fra le braccia di Cosette e Marius, si lascia andare a un discorso di addio finalmente torrenziale, si tratta, è subito evidente, di un discorso anomalo, che, malgrado qualche accenno all’importanza della bontà e del perdono, non trasmette una vera eredità spirituale, e si arresta una volta di più sulla reticenza («Avevo ancora qualche cosa da dire ma fa lo stesso»); come a sottolineare che l’esperienza è ormai troppo varia e frantumata per essere guardata alla luce di univoche, incrollabili linee di condotta.

Certo, a parlare al posto di Valjean c’è sempre il narratore, proiezione lineare di Hugo: che parla per tutti quanti, in misura esuberante, intrusiva, esasperante persino. Però i suoi interventi sono discontinui, disuguali, non di rado disorientanti. A volte per i contenuti: la digressione sulla battaglia di Waterloo riconduce la disfatta di Napoleone a un progetto divino, ma non cessa di insistere sul peso in essa giocato dalle contingenze, dunque sul ruolo ricoperto nella grande storia dalle piccole casualità. A volte perché sembrano tendere non a guidare il lettore ma a spiazzarlo: un’altra digressione, sulle fogne parigine, storna l’attenzione dal tormento di Valjean, che attraverso quelle fogne sta trascinando verso la salvezza Marius svenuto, guardandolo però con un odio da cui trapela il suo amore incestuoso per Cosette; l’aspetto più scabroso della vicenda viene così suggerito senza essere scandagliato a fondo.

Inoltre, questo narratore così ciarliero non si ostina ad avere l’ultima parola (diversamente da quello di un altro classico che con I miserabili ha molti punti di contatto e molti di divergenza, I promessi sposi); dopo tanta presenza alla ribalta si ritira tra le quinte proprio nel momento più importante, il finale: atipico quanto il discorso d’addio di Valjean, e forse di più ancora. Nessuna fragorosa caduta del sipario, nessun messaggio definitivo, nessun compianto solenne del protagonista, solo una descrizione del suo sepolcro disadorno, disadorna a sua volta: se «l’erba nasconde e la pioggia cancella» la lapide e il ricordo, il potere della parola, tanto usato e abusato, svapora anch’esso, senza controbilanciare le contraddizioni messe in scena, gli interrogativi suscitati dalla storia. L’antinomia fra luce e tenebre risulta dunque non solo contrasto esplicito tra bene e male, ma anche contrasto implicito, e destabilizzante, tra la fede in un disegno provvidenziale e la percezione dell’irrazionalità che caratterizza gli eventi, delle contorsioni che segnano le personalità e i rapporti; il romanzo così proteso ad armonizzare la realtà mostra fino all’ultimo che non esiste armonizzazione definitiva, e che non c’è risarcimento totale al dolore.

2. Se l’intreccio mantiene ancora un potere di scatenare le emozioni (e pure le lacrime) così unico – sfruttato spudoratamente dagli adattamenti, trascinato nel kitsch più abominevole, eppure persistente – è proprio per questo: non solo perché, come i Misteri di Parigi e tanti altri feuilleton e polpettoni, descrive miserie, angherie e ingiustizie (a volte peraltro con durezza straordinaria – il secco «vendiamo il resto» con cui Fantine, la madre di Cosette, dopo che la povertà l’ha portata a vendersi i capelli e gli incisivi, decide di prostituirsi); ma perché è sempre la consapevolezza del dolore a dominarlo, al punto da soppiantare quello che è di solito il motore per eccellenza delle grandi trame ottocentesche, l’energia desiderante. Se, come si diceva, le aspirazioni di Marius, l’unico personaggio dal destino aperto, rimangono indeterminate, tutti gli altri personaggi (maschili sempre; restano subalterni quelli femminili, ma sarebbe un altro discorso) sono privi di aspirazioni in partenza: perché segnati da una sofferenza estrema, che li spinge a reazioni diversissime – l’abnegazione di Valjean, la cupa fedeltà di Javert alle istituzioni, la rivolta dei giovani – ma li sottrae comunque a ogni ambizione e persino a ogni appetito (non a caso tutti quanti, dai maturi Valjean e Javert, che non hanno mai conosciuto l’amore, al fulgido Enjolras, che si limita a due baci asessuati – attirandosi un sardonico «povero ragazzo!» di Flaubert – sono rigorosamente casti).

Questa sofferenza ha un contrappeso, più che nella fede in una futura palingenesi, nel richiamo alla fraternità: un altro precetto evangelico, sempre a rischio di tradursi in melenso luogo comune, ma che qui scansa la melensaggine, prendendo forme differenti. L’incontro tra Valjean e il vescovo Myriel, la pietà di Valjean per Fantine, l’amicizia che lega i componenti dell’ABC rientrano in schemi abbastanza convenzionali (non del tutto, comunque: la trasformazione iniziale di Valjean non è topica conversione di un malvagio ma nascita di una personalità in chi non ne aveva); non sono invece convenzionali affatto altre due interazioni significative: l’unico confronto, evocato nell’antefatto, fra due sconosciuti, il vescovo Myriel e un membro della Convenzione rivoluzionaria (messo al bando dalla restaurazione), e l’ultimo confronto, decisivo per il finale, fra due antiche conoscenze, Valjean e Javert.

L’incontro tra il vescovo e il rivoluzionario, colloquio tra due vecchi entrambi consacrati a due vocazioni opposte, culmina nel tipo di avvicinamento più imprevisto, in una scena madre splendidamente eversiva: è il primo a gettarsi ai piedi del secondo, e a chiedergli la benedizione; l’inversione dei ruoli, per l’epoca molto ardita, afferma con forza estrema il potere dell’ideale, marca l’auspicio di un futuro in cui la fede cristiana proceda insieme all’ardore politico (senza darne per scontata la confluenza). Lo scambio conclusivo tra Valjean e Javert evita invece ogni scena madre: dopo aver sottratto Javert alla giustizia sommaria dei ribelli, Valjean, anziché vendicarsi, gli rende la libertà, ma, con il suo consueto ritegno, non si cura di spiegare il proprio gesto; e a questo gesto Javert replica con un brusco moto di disagio («Voi mi seccate. Uccidetemi piuttosto»), in cui il suo mutato giudizio sull’interlocutore trapela solo dall’inavvertito cambiamento del pronome, dall’abbandono del «tu» sprezzante per il «voi» del rispetto; l’infelicità a cui entrambi sono condannati non si scioglie in nessuna riconciliazione; il turbamento del secondo avrà come solo approdo possibile il suicidio. Se nel primo caso la speranza passa per una sintonia inattesa e scandalosa, nel secondo l’impossibilità di ogni sintonia conferma una radicale disperazione: il romanzo ritorna su valori morali arcinoti, ma problematizzandoli, rifiutando di assestarli nell’ottimismo edificante; la tensione etica, per la letteratura sempre più difficile da sostenere, è al tempo stesso rimessa nuovamente in campo e totalmente messa in discussione.

Con le contraddizioni, con l’instabilità che lo connotano, il libro sembra quasi predisporre la ricezione instabile e contraddittoria che lo aspetta. Accende sia lo slancio libertario (Enjolras diventa lo pseudonimo di Louise Michel, la scrittrice – molto legata a Hugo in giovinezza – che combatte intensamente nella Comune), sia lo stucchevole pedagogismo (sono visibilmente modellati su Gavroche, e purtroppo privi della sua scanzonata leggerezza, i tremendi piccoli patrioti padovani e piccole vedette lombarde di De Amicis); figura in Via col vento come lettura prediletta dei soldati confederati, ma prima pungola la fantasia di Dostoevskij (che lo cita come spunto dell’Idiota); denso di energia visionaria, attira prevedibilmente il cinema, che finisce però sempre per impoverirne o almeno semplificarne la struttura composita; proprio nel suo rifiuto di farsi catturare del tutto sta la sua incredibile capacità di presa.

[Immagine: Aaron Tveit (Enjolras) in  Les Misérables (2012) di Tom Hooper (gm)].

 

8 thoughts on “Classico popolare, classico spiazzante: l’onda lunga dei “Miserabili”

  1. Io so solo che non credevo poter restare inchiodata alla poltrona per quasi tre ore, trascinata dalla forza del film, dai suoi testi, dalla musica travolgente, dalla forza della Rivoluzione descritta come una Bohème, come nel Resto di niente, i giovani di Sarpi, i giovani abbandonati dal popolo traditore e codino, un après mai di fine Ottocento, nello squallore dei retroscena della rivluzione industriale con la donna sempre ai margini, disperazzata e reietta se persino una sophisticated young lady come la Hathaway viene ridotta a un manichino da distruggere…Gran film, gran trucchi, attori come Hugh Jakman, Gavroche adorabile, ma soprattutto quella musica che ti resta impressa nella memoria…sempre!

  2. Ma come “deriso” da Baudelaire? Baudelaire amava molto Victor Hugo e amava molto “I Miserabili”!

    “Contiene delle pagine che possono inorgoglire per sempre non soltanto la letteratura francese, ma anche la letteratura dell’Umanità pensante”.

    Questo, appunto, Baudelaire sui “Miserabili”.

    Mi sento a disagio perché fino a questo momento ho preso per oro colato non le opinioni (ovvio) ma i riferimenti de “Le Parole e le Cose”, che sembra blog letterario molto serio. C’è qualcosa che non torna?

    grazie.

  3. Ringrazio Clotilde Bertoni per questo saggio bellissimo sui “Miserabili” di Hugo. Leggendo il saggio, ho continuato però a pensare anche al musical cinematografico – che non riesco a considerare solo come un episodio della storia degli effetti del romanzo; non posso non pensare al materiale di cui è fatto.

    So che ci vorrebbe un altro saggio per rispondere alla mia domanda; ma vorrei comunque chiedere a Clotilde cosa pensa del film – che dire, la reticenza ha come effetto la curiosità!

  4. The the ha ragione, l’accenno troppo rapido (per ragioni di spazio) alle reazioni sul romanzo può suscitare equivoci; però tutto torna (almeno su questo). Baudelaire omaggia in pubblico Hugo, riconosce, con qualche riserva, il valore del romanzo, ma ironizza invece in note private; fanno più o meno lo stesso Flaubert, Dumas e altri, tipici casi di dipendenza/insofferenza edipica verso il maestro.

    Grazie davvero a Baldini; non volevo essere reticente, il problema è che il discorso sui Miserabili a teatro e al cinema richiederebbe almeno un altro post; proverò a dire qualcosa con un commento, mi scuso se adesso – purtroppo come quelle di spazio, anche le ragioni di tempo sono a volte coercitive – devo rinviare.

  5. Provo finalmente, molto in ritardo, a rispondere a Baldini circa il film (scusandomi anche perché oggi stiamo chiaramente tutti pensando ad altro).
    Risposta tardiva e davvero non facile. Si danno ormai per scontate, e giustamente, cose come l’autonomia dei mezzi, la libertà delle trasposizioni, l’inutilità di disquisire su fedeltà o infedeltà ai testi e così via; ma quando un testo lo si ama molto vederlo strappato al proprio immaginario e sbalzato sullo schermo è sempre un po’ traumatico; per me è stato così con tutti gli adattamenti dei Miserabili che ho visto, dai migliori ai peggiori. Riassumendo, vedo il romanzo come un capolavoro di ironia romantica, la cui grandezza sta soprattutto nelle lacerazioni, nella contraddittorietà, nella sospensione dei personaggi tra grandi sentimenti e sentimenti meschini, nella sfasatura tra il senso del destino provvidenziale e la percezione del ruolo della casualità, tra enfasi e understatement, tragedia e umorismo; e questo si perde quasi sempre nei film, per esigenze di semplificazione o spinta sul pedale del melodramma.
    E si perde anche in questo, spesso a livelli estremi. Ad esempio: il vescovo schivo e anticonformista qui santo stucchevolissimo; la Fantine vittima di miseria e pregiudizi, qui vittima soprattutto delle compagne tutte brutte e cattive; Marius, idealista ma fragile e inetto, ossessionato dal ricordo del padre e da debiti di gratitudine inesistenti, qui eroe radioso; Valjean che lo salva sì ma odiandolo, mentre qui vede subito in lui un figlio elettivo; le barricate dell’ABC momento di assoluto nato per caso e storicamente irrilevante, che qui partono come grande rivoluzione popolare.
    Senza contare le scelte scriteriate (l’asessuato, gelido Javert intepretato da Russel Crowe!) e le leggi del musical e dello spettacolo assecondate oltremisura: Cosette e Marius che si innamorano per sempre senza quasi essersi visti (anche Romeo e Giulietta avrebbero consigliato un momento di riflessione), l’ultima parte dell’intreccio resa pressoché incomprensibile, gli eventi storici lasciati sullo sfondo al punto da scomparire.
    Potrei continuare con il jeu de massacre, ma sarebbe eccessivo: intanto, come accennava Baldini, ci sarebbe altro da dire, specie sulla parte musicale, e poi diverse cose mi sono piaciute: la reinvenzione dei Thénardier, le canzoni di Fantine e di Eponine, e anche, malgrado tutto, the song of angry men. Sottratta a testo e contesto, affogata nel kitsch a più non posso, la storia sprigiona ancora fascino; banalmente, direi che è un’altra conferma della sua forza.

  6. Ringrazio moltissimo Clotilde Bertoni per la sua risposta, in cui si dicono molte cose importanti. Qui non posso discutere dei dettagli e vorrei soffermarmi invece solo su due questioni di portata più generale, che sono giustamente messe in rilievo nella risposta. La prima questione riguarda l’atteggiamento di fronte alla letteratura. Temo che per il mio immaginario la letteratura non sia quasi mai il punto di partenza; e in genere la letteratura – e ciò per cui stanno la letteratura e altre cose – è per me un oggetto danneggiato: quando ne rintraccio la presenza altrove provo una sensazione di gratitudine. La seconda questione riguarda il film: non sono sicuro che il codice sia il kitsch o il melodramma, quanto piuttosto la fiaba. Il simbolo del musical non a caso è la bambina – che si perde nel bosco e canta “A Castle in a Cloud”. Nel film poi si usano colori primari ed emozioni primarie, proprio come nelle fiabe. Infine, come nelle fiabe non ci sono coppie genitoriali (c’è solo una madre, un padre, il matrigno e la patrigna; ma mai il padre e la madre come coppia) ed è per questo che ci sono cadute di stile nel finale – proprio quando si allude alla presenza di coppie e coppie genitoriali. Anche la storia e la politica sono viste in chiave mitica – ma come mostrano le elezioni di questi giorni (nel bene e nel male), la dimensione simbolica della politica è un suo aspetto importante. Grazie ancora a Clotilde Bertoni per avere reso possibile questa bella discussione su un bel libro e un bel film.

  7. Victor Hugo ha rappresentato uno stato sociale ai limiti della disperazione
    Il presente si rispecchia nel romanzo e la realtà riporta episodi
    Che fanno rabbrividire.
    Vendere il proprio corpo
    E’ l’ultima speranza di sopravvivenza
    Che riguarda come non mai
    Il presente…

    La donna (. Sbrigherà )
    E l’uomo usufruirà dei meriti
    Per di più provando piacere.

  8. Cara Tiziana, grazie per il commento: anche secondo me Hugo per più versi è sempre assai attuale. Però, via, da ottusa progressista media qual sono, penso che nell’ultimo secolo e mezzo le cose siano un filo migliorate, che le donne adesso abbiano parecchie alternative alla prostituzione; poi magari alcuni uomini ancora se ne dolgono, e pazienza.

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