di Riccardo De Gennaro
Durante una lunga intervista televisiva concessa nell’81 a una giornalista austriaca che aveva conquistato la sua fiducia, Thomas Bernhard svelò che quando si annoiava apriva uno dei suoi libri – ad esempio Gelo – e rideva a crepapelle (un po’ come Kafka, quando leggeva agli amici “La metamorfosi” o altri suoi racconti). “Io ho sempre descritto situazioni comiche”, disse Bernhard. Naturalmente, ammetteva, i suoi romanzi contengono anche considerazioni serie, ma queste non sono che “lo stucco per tenere insieme le facezie”. E precisava che tutto ciò che fino a quel momento aveva scritto poteva essere considerato “un programma filosofico faceto”. Che cosa richiama, d’altronde, la sua inconfondibile impronta stilistica, dominata da un’ossessiva ripetizione di un periodo risolto infine da una variazione prospettica, se non il meccanismo stesso della comicità clownesca e “a rotta di collo”, per dirla con Keaton?
Un libro dove queste considerazioni sul comico trovano puntuale riscontro è l’esilarante Goethe muore (Adelphi, pp.112, euro 11,00), dal titolo del primo dei quattro racconti contenuti. Scritto nel 1982, in occasione del 150° anniversario della morte di Goethe e pubblicato sullo Zeit, “Goethe muore” era apparso finora in Italia soltanto su rivista: nel ’98 in “Almanacchi Nuovi” e nel 2005 in “Aut Aut” a cura della germanista Micaela Latini (qui la traduzione è invece di Elisabetta Dell’Anna Ciancia). Chi è il Goethe di Bernhard? Non lo scrittore-mito, ma un uomo che è diventato il monumento di se stesso, non crede più nella letteratura ed è prossimo alla fine. Gli resta, tuttavia, l’orgoglio della sua arte e la convinzione – se dobbiamo credere a quanto il suo segretario Riemer riferisce al narratore, un riferire in linea con l’artificio stilistico bernhardiano del discorso perennemente riportato – che le sue opere, “indubbiamente le più grandi”, hanno “paralizzato per un paio di secoli la letteratura tedesca”.
Nel suo letto di morte, infatti, Goethe vede l’avvenire delle lettere e della filosofia tedesca come presente, al punto da considerare il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, che conserva sotto il cuscino, un’opera più mirabile del suo Faust. Il suo più grande e urgente desiderio, ora, è conoscerne personalmente l’autore, con il quale vorrebbe discutere “del dubitabile e del non-dubitabile”. Eccolo, dunque, sollecitare ripetutamente i suoi segretari a rintracciare Wittgenstein e condurlo a Weimar – dove in un’altra opera Thomas Mann l’aveva fatto incontrare con Lotte – dopo aver fissato l’appuntamento per il 22 marzo (il giorno in cui Goethe è realmente morto). Il fedele Eckermann, tuttavia, si oppone al progetto e non ne ottiene che l’immediata rottura della loro lunga amicizia. Anche Kräuter, invidioso per questa incredibile infatuazione del maestro, dapprima lo invita a ripensarci, poi si rassegna e parte per l’Inghilterra in cerca del grande filosofo del Novecento. Ma giunto finalmente a Cambridge scoprirà che Wittgenstein è morto da pochi giorni. A Goethe non resta che morire.
L’idea di “far morire” Wittgenstein prima di Goethe non è soltanto il frutto di un dispositivo ucronico, ma rispecchia la convinzione di Bernhard che “tutto si può paragonare a tutto”, che “tutti i concetti sono intercambiabili l’uno con l’altro”, perfino la morte, davanti alla quale egli si dichiarò sempre indifferente: “Scrivo della morte come altri potrebbero parlare di un panino”, disse nella medesima intervista alla tv austriaca.
Nei due racconti successivi, il claustrofobico “Montaigne” e il vertiginoso “Incontro”, Bernhard affronta ancora una volta la tragedia dell’infanzia dalla prospettiva filiale: intrappolati dal “doppio vincolo”, come l’ha definito Gregory Bateson, i figli sono vittime impotenti dei comandi e dei tic genitoriali. “Prima mi hanno reso dipendente, poi mi hanno rinfacciato questa mia dipendenza da loro per tutta la vita”, dice il protagonista di “Montaigne”, che dopo aver afferrato un libro a caso nella biblioteca di famiglia si rifugia in una torre. Il libro è, naturalmente, un volume di Montaigne – un pensatore che con Schopenhauer, Wittgenstein e Pascal è stato un vero compagno di viaggio per Bernhard – ma a parlare non è un bambino, bensì un uomo di 42 anni ancora incapace di affrancarsi dal padre e dalla madre. L’ultimo racconto, “Andata a fuoco”, è la descrizione di un sogno: “L’intera disgustosa Austria ormai bestiamente fetida, con tutti i suoi volgari e abietti abitanti (…), andava a fuoco e bruciava sotto i miei occhi”. Un odio reale: nel suo testamento lo scrittore ha proibito la rappresentazione e la pubblicazione dei suoi testi sul territorio austriaco per tutta la durata dei diritti d’autore.
[Questo articolo è uscito su «Alias»]
[Immagine: Andy Warhol, Goethe (gm)].
finché non verrà tradotto “goethe und einer seiner bewunderer” (1956) di arno schmidt, non ci sarà giustizia in italia.
condivido l’intervento, grande autore, amaramente esilarante e importante lavoro ancora una volta di Adelphi