cropped-tfmf_ttma5lptao4bxnsahuvpfwgw_8d022054-f91d-4a1f-80af-14e2994b8c2e_0_original.jpegdi Francesco Ghelli

È possibile leggere un testo pubblicitario, un testo appartenente alla cultura di massa, così come siamo abituati a leggere i testi letterari? Con la stessa attenzione insistita, lo stesso gusto del dettaglio, la stessa voglia di compiere continui andirivieni fra testo e contesto, per cogliere nel “modello finito” dell’opera una traccia del “mondo infinito” in cui è nata. È possibile dunque, o meglio vale la pena, sottoporre uno spot pubblicitario a un vero e proprio close reading? Chiederci se i metodi e gli strumenti perfezionati sui testi letterari della tradizione possano servirci a leggere i prodotti della cultura di massa ha anche un inevitabile risvolto pratico, di politica culturale e accademica. Potrebbe forse essere un modo per gli studi letterari e per le facoltà che li ospitano, di uscire da quella marginalità e per reagire a quella ineffettualità alla quale sembrano inesorabilmente condannati. Non ho intenzione di rispondere a questi interrogativi o di suffragare quest’ultima fiducia con riflessioni teoriche ponderate per le quali mi sento del tutto impreparato. Piuttosto vorrei proporre una lettura, un case study, un semplice esempio di come potrebbe essere un close reading pubblicitario.

Prima di iniziare, vorrei accennare a due possibili riserve, una di stretta attualità, l’altra ormai classica. La prima è legata all’odierna difficoltà del close reading stesso, la sua apparente inattualità. La lettura in profondità di un solo testo, paziente e meticolosa, sembra una pratica in disaccordo con lo spirito del tempo. Per ragioni ben più generali e preoccupanti di quelle lamentate 14 anni fa da Francesco Orlando in margine alla sua lettura del Gattopardo. All’epoca, l’invito era di tornare a un approccio più naturale, più vicino all’esperienza del lettore comune, più rispettoso dell’individualità del singolo testo, dopo l’orgia di intertestualità, di letture a cavallo fra più testi, temi, filoni. «Essa sola esiste ‘in natura’, se qui natura è lettura. Chiunque ne fa una, ne fa una: legge un testo, non due alla volta né tanto meno tre o quattro […] È nell’interesse del pubblico che intonerei con Figaro, e oggi agli studiosi di letteratura non si potrebbe canterellarlo abbastanza: uno alla volta per carità!»[1]. La mia impressione è che ai giorni nostri, anche questo estremo appiglio all’esperienza primordiale della lettura, vacilli sotto i colpi di un nemico ben più temibile delle mode accademiche: l’universo dispersivo della rete. In un libro fortunato, Nicholas Carr ha riportato le impressioni proprie e di decine di intellettuali che lamentano, in corrispondenza con l’ascesa di internet, una crescente difficoltà, se non addirittura un’insofferenza verso la tradizionale lettura profonda. La rete starebbe smantellando l’uomo tipografico di mcluhaniana memoria trasformandoci tutti in ««cacciatori e raccoglitori di informazioni», riducendo i nostri tempi di attenzione al frammento se non addirittura al ritaglio. La rete ci ha abituato ai link che assai di più del loro antenato tipografico, la nota a piè di pagina o il rimando bibliografico, ci saettano completamente fuori dal testo che stiamo leggendo. La rete è una «sistema di interruzione», letale per le lunghe sequenze lineari di un romanzo o di un saggio[2].

La seconda riserva è legata alla natura stessa dell’oggetto di studio. Vale la pena sottoporre un testo della cultura di massa, presumibilmente banale e stereotipato, a un’analisi così insistita? Ricordo ancora Francesco Orlando quando mi disse che un’analisi approfondita aveva senso su di un capolavoro come la Fedra, mentre era già un azzardo nel caso di testi secondari di autori comunque canonici (è l’unica obiezione che mosse a una mia lettura, in quel caso fedelmente “orlandiana”, di un racconto di Nerval, dico Nerval, non parliamo di fumetti o di pubblicità!) Dopo tutto, la critica letteraria è una disciplina che studia individui, se diamo per conclusa l’ubriacatura scientista culminata nello strutturalismo. Aspira alla conoscenza approfondita di oggetti singoli – autori, testi, singoli capitoli della storia letteraria –, non alla formulazione di leggi e generalizzazioni. Per usare la terminologia dell’epistemologo Windelband: è una disciplina idiografica, non nomotetica. Ebbene, di fronte ad oggetti standardizzati – è il caso della pubblicità e dei prodotti della cultura di massa, ma anche del folklore – tale approccio individualizzante sembra un lusso inutile. Non a caso, quando importanti critici letterari si sono accostati alla pubblicità – Leo Spitzer con un annuncio del succo d’arancia Sunkist, Gianfranco Folena con lo slogan Esso “metti un tigre nel motore”, Roland Barthes con la pubblicità della pasta Panzani [3]– hanno trattato i loro oggetti come meri esempi. Ci si concentrava su un campione per evidenziare caratteristiche generali del linguaggio pubblicitario. Nessuno dei tre critici leggeva la pubblicità così come avrebbe letto Racine, Dante o Balzac. Per altri versi, si spiega anche perché gli studiosi di letteratura soprattutto in Italia abbiano finora scarsamente frequentato la pubblicità, lasciando libero il terreno a discipline più orientate verso l’approccio nomotetico come la semiotica e la sociologia.

Quello che ho intenzione di fare, invece, è leggere uno spot pubblicitario, non uno qualsiasi a mo’ di esempio come farebbe un semiologo, ma uno particolarmente riuscito e celebre, trattandolo come un individuo a tutti gli effetti. Mi prendo tutti i rischi di applicare un metodo forse desueto, un’attenzione insistita a un oggetto che per sua natura sarebbe destinato a perdersi nel flusso continuo dell’intrattenimento multimediale. In un’epoca in cui le interruzioni minacciano ormai anche lo spazio ovattato della lettura, mi fermo a leggere l’interruzione per eccellenza, la pubblicità. Lo spot è quello, firmato da Ridley Scott, con cui Apple nel gennaio del 1984 lanciò il primo Macintosh. Non si tratta di un capolavoro, o almeno penso che una simile etichetta non abbia senso in pubblicità. Si tratta comunque di un oggetto unico, straordinariamente determinante, tale da sopportare anche un close reading, come spero di dimostrare.

Che cosa racconta lo spot? Che cosa vediamo? Innanzitutto l’ambientazione futuribile, precisata fin dalla prima inquadratura: un campo lungo che mostra un tunnel cilindrico sopraelevato all’interno di una corte circolare, un vero e proprio pozzo, di cui non si vedono i confini né in alto, né in basso. Il gigantismo architettonico può evocare un archetipo dell’immaginario fantascientifico: Metropolis. Lo spettatore è scaraventato in un universo alternativo, in pieno disorientamento cognitivo per alcune inquadrature. E alla scena di apertura di Metropolis con la sua triste processione di operai intruppati rimanda anche il seguito dello spot. Vediamo, dentro il tunnel, una fila di individui vestiti di tute da lavoro grigie, che marciano con andatura militaresca, con volti assenti, quasi da automi.

Si alternano dettagli dei loro volti e delle scarpe, qualcuno ha una maschera, forse un respiratore, altri hanno occhiali, tutti hanno i capelli rasati a zero. La colonna in marcia è inframmezzata da inquadrature più brevi – quasi dei flash inizialmente incongrui – di altri personaggi che corrono verso la macchina da presa, forse diretti nello stesso luogo degli uomini in tuta: si tratta di una ragazza in abbigliamento da atleta, bionda, canottiera bianca, calzoncini rossi, polsini, e di alcuni agenti in assetto antisommossa vestiti di nero. La ragazza ha in mano un martello da demolizione, gli agenti gli sfollagente. Non abbiamo ancora capito bene dove ci troviamo, né quello che sta succedendo, ma già la magia del montaggio – un montaggio parallelo con progressione ascendente, un espediente antico quanto il cinema di Griffith – ha attivato un nostro riflesso condizionato di spettatori, generando la suspense di ordinanza. Siamo nel bel mezzo di una scena di inseguimento. E con l’inseguimento è attivato un altro dei meccanismi ricorrenti del cinema d’azione: la deadline. Riuscirà la nostra eroina ad arrivare dove deve, a fare quel che vuole, prima che gli inseguitori le piombino addosso? La suspense è insomma una domanda cui verrà data risposta nel giro di poche decine di secondi, una tensione cui seguirà la risoluzione, un’ansia momentanea. Non così labile è invece l’ansia cognitiva creata dal disorientamento ontologico iniziale. In che mondo ci troviamo, su quale pianeta, in quale anno?

La colonna sonora non ci ha aiutato. Il filmato si apre sul suono lancinante di una sirena d’allarme: un suono che a intervalli regolari punteggerà l’intero spot. Cominciamo a mettere in relazione tale allarme con l’irruzione dell’eroina (in perfetta sincronia con le due prime inquadrature in cui compare in effetti risuona la sirena). Possiamo proclamarla eroina, in effetti, poiché l’unico essere fuori posto, nel mondo in cui ci troviamo, il personaggio che produce narrazione, fuori del suo campo semantico proprio, per dirla con Juri Lotman[4], è proprio lei. Intesi, fuori posto rispetto a questo mondo grigio, rispetto a questa folla istupidita, a questo scenario antiutopico – possiamo usare il termine, ormai una buona fetta di spettatori più avveduti avrà già attivato la sceneggiatura intertestuale. Non certo fuori posto, però, rispetto alle convenzioni pubblicitarie, dove la comparsa di una bionda avvenente non può certo essere considerata una sorpresa!

Fin dalla prima inquadratura abbiamo udito in sottofondo, inizialmente in asincrono, la voce di un oratore. Solo dopo una quindicina di secondi verrà svelato il suo aspetto: il volto duro, gli occhiali da tecnocrate; la sua immagine azzurrina troneggia, circondata da numeri e parole, sul maxischermo di un grande auditorium affollato di uomini in tuta grigia; il luogo verso cui tutti i personaggi finora visti convergono: il fuori campo che funge da centro esatto di tutta la tensione accumulata nelle prime inquadrature. Nell’auditorium in effetti sono ambientate le prime inquadrature statiche dello spot, le prime in cui i personaggi sono immobili, assorti nella contemplazione dell’immagine del leader, e a muoversi in un carrello all’indietro è la macchina da presa, che suggerisce in tal modo l’ampiezza della folla. Come accade nel caso di molti dialoghi cinematografici, il discorso del dittatore funziona più a livello connotativo che denotativo. Pensiamo al technobubble dei film di fantascienza o di spionaggio, quei discorsi serrati, zeppi di termini tecnici più o meno esoterici, che dovrebbero suscitare nello spettatore un’impressione di plausibilità scientifica. In questo caso potremmo parlare di politicalbubble, nel quale alcune parole chiave servono a creare un’atmosfera sociopolitica, a suggerire l’ambientazione con pennellate sommarie.[5] Innanzitutto è il discorso di un potere compiaciuto e autoreferenziale, abituato a celebrare i suoi riti: «we celebrate», «the first glorious anniversary». Si tratta di un potere fondato sulla propaganda, la censura, la manipolazione delle coscienze: «information purification», «unification of thoughts». Di un totalitarismo basato sulla massificazione e la repressione di ogni individualità (lo abbiamo in parte già capito dalle tute e dalle uniformi): «We are one people, with one will, one resolve, one cause». Un potere abituato, in uno stato di guerra continuo, a sollevare lo spettro del nemico: «Our enemies». Ma solo per tranquillizzare i suoi sudditi con la certezza della vittoria finale: «we shall prevail!». Al centro del discorso c’è una metafora continua particolarmente enfatica: «a garden of pure ideology – where each worker may bloom, secure from the pests purveying contradictory truths». Ricordiamo che lo spot era rivolto inizialmente al solo pubblico americano. Ebbene, nel contesto americano, in pieni reaganiani anni ottanta, in quell’ultima coda di guerra fredda che culmina proprio in quell’anno nel boicottaggio delle Olimpiadi di Los Angeles da parte de paesi comunisti, il termine “ideologia” non ha la pluralità di significati che può avere nel contesto europeo: quello di visione del mondo, di concezione della storia e della società, o tutt’al più di falsa coscienza socialmente determinata. “Ideologia” nel contesto americano rimanda immediatamente a quel secondo mondo minaccioso ancora in piedi, al totalitarismo di stampo sovietico (lo stesso termine “worker” puzza decisamente di socialismo). Accoppiato a un termine come “giardino”, particolarmente denso di echi biblici in contesto protestante, la metafora si tramuta in un beffardo ossimoro. Un “garden of pure ideology” è il rovescio dell’utopico “garden of Eden”, un anti-giardino infernale: in pratica una chiosa alla tetra antiutopia messa in scena dallo spot.

La vicenda è giunta tuttavia al suo punto di svolta. In un’inquadratura finalmente più leggibile – un piano americano perfettamente centrato, in controcampo rispetto all’inquadratura in campo medio del dittatore – la nostra eroina percorre il monumentale corridoio che immette nell’auditorium. Dal totale successivo intuiamo che i poliziotti inseguono distanziati. La donna si ferma e comincia a ruotare su se stessa facendo perno sul piede con il tipico gesto del lanciatore di martello ripreso dal basso verso l’altro. Nell’attimo esatto in cui il dittatore pronuncia la sua conclusione trionfale «we shall prevail», essa scaglia il martello con un grido. Il montaggio rafforza con grande maestria la tensione. Prima con rapide alternanze di campo e controcampo, rimbalzando dal dittatore all’eroina ad ogni sua rotazione. Poi seguendo al rallentatore la parabola del singolare proiettile, quasi a accentuare la spannung, finché esso va a schiantarsi nel centro esatto del maxischermo. Segue una grande esplosione che investe con la sua luce accecante e la sua ventata violenta la folla esterrefatta. Sulla veloce carrellata all’indietro della folla e su una dissolvenza su fondo bianco, compare la didascalia pubblicitaria in caratteri neri letta al tempo stesso da una voce fuori campo dall’intonazione solenne: «Il 29 gennaio 1984 Apple computer presenterà Macintosh. E vedrete così che il 1984 non sarà come “1984”».

Quel 1984 fra virgolette ci permette di reinterpretare retrospettivamente l’intero spot. In pubblicità, la parola, meglio se scritta come già osservava Roland Barthes, ha una funzione di «ancoraggio»[6] rispetto alla vaghezza dei codici visivi. Così, quella messa in scena nello spot non è una generica antiutopia, è invece il mondo immaginato quattro decenni prima da George Orwell. Il dittatore che ha pontificato per tutta la durata del filmato è una riedizione del Grande Fratello, riveduta e corretta per l’era informatica. Del resto lo spot va in onda all’inizio del 1984, un anniversario significativo che incoraggia in quello stesso anno la realizzazione del film di Robert Redford. Nel 1984 è ambientato anche un romanzo di qualche anno dopo, Vineland di Thomas Pynchon, nel quale l’interrogativo dominante è se l’America reaganiana, sotto la sua patina di libertà e di pluralismo, non sia in fondo una realizzazione delle peggiori previsioni di Orwell. La ricorrenza insomma accentua un passatempo ovvio anche se un po’ stucchevole, ossia chiedersi là dove Orwell «ci ha preso giusto oppure no», come scrive sempre Thomas Pynchon nella sua splendida introduzione all’edizione Penguin del romanzo.[7]

Ma qui non siamo al cinema, né in un romanzo. Siamo di fronte a uno spot costato 900.000 dollari – un vero record per l’epoca –, mandato in onda durante il Super Bowl, l’evento televisivo più seguito dal pubblico americano: ci sono circa 140 milioni di spettatori collegati e un minuto di spazio pubblicitario costa 600.000 dollari. E un’azienda quotata in borsa da un paio di anni sta affidando il lancio del suo nuovo prodotto, sul quale lavorano da cinque anni decine di ingegneri e programmatori, a un’allusione letteraria… Immaginiamo per un attimo uno spettatore con la lattina di birra in mano mentre cerca di allontanare le perplessità dopo aver visto lo spot tentando di recuperare un vago ricordo liceale.

In linea teorica lo spot sembrava votato al fallimento. Non a caso si racconta che il consiglio di amministrazione della Apple, dopo averlo visto, decise all’unanimità di rivendere gli spazi costosissimi appena acquistati, bloccando l’intero progetto. Furono i pubblicitari dell’agenzia Chiat/Day a conservare il preziosissimo minuto che fu pagato a quanto pare di tasca propria dal cofondatore dell’azienda Steve Wozniak che al pari di Steve Jobs era invece rimasto entusiasta dello spot. Ma al di là dell’aneddotica semileggendaria, l’episodio si presta a una riflessione sull’efficacia della pubblicità. Com’è noto, gli spot pubblicitari sono testati in modo molto meticoloso da focus group che dovrebbero rappresentare il destinatario medio. I pubblicitari cercano così di scongiurare preventivamente i rischi di ogni atto comunicativo: il malinteso, l’incomprensione, le allusioni involontariamente offensive, ecc. Simili metodologie hanno un prezzo: tendono infatti a scoraggiare i messaggi più complessi e ambigui, spingono a un certo conformismo che a sua volta fa sì che la stragrande maggioranza dei messaggi pubblicitari non sia altro che un informe brusio di fondo, presto dimenticato. D’altro canto non è detto che uno spot ambiguo, che suscita interrogativi, sia per forza votato al fallimento. Pensiamo di nuovo al nostro spettatore medio, con la sua birra in mano: forse non avrà colto del tutto l’allusione orwelliana, ma di sicuro avrà assistito a un insolito spettacolo fantascientifico: un intero universo tenebroso mandato in frantumi da un’azione eroica di sabotaggio compiuta da un’atletica biondina… Apple si appresta a lanciare un nuovo computer e com’è? che cosa farà questo computer? Non si capisce bene, ma pare sia una cosa mai vista… Non è una finzione. Le cronache giornalistiche del giorno dopo, le radio, le TV locali e nazionali erano piene di disquisizioni sul significato dello spot. L’ambiguità, il volontario abbandono di ogni grammatica pubblicitaria ortodossa – in tutto lo spot non viene mai mostrato il prodotto, né mai ci viene detto alcunché di concreto sul suo uso – hanno messo in moto la comunità interpretativa. Anche le modalità della messa in onda – lo spot fu trasmesso una sola volta durante il Super Bowl e mai più – accentuarono l’impatto. Lo spot non fu consumato dalla ripetizione, dall’esposizione che banalizza: rimase invece a fermentare nell’immaginario collettivo. Adesso si parla di event marketing, una comunicazione basata sulla retorica dell’occasione speciale, solenne, ma all’epoca l’exploit fu probabilmente frutto del caso. Addirittura c’è chi osserva con buone ragioni che Apple non mandò più in onda lo spot solo perché aveva ricevuto una lettera di diffida da Marvin Rosenblum. Il produttore americano aveva acquistato a peso d’oro i diritti del romanzo di Orwell che Apple invece citava senza pagare un dollaro agli eredi dello scrittore. Rosenblum inoltre si apprestava a lanciare il già citato film di Robert Redford e temeva che il progetto, assai ambizioso e con discrete pretese intellettuali, sarebbe stato danneggiato dalla concomitanza con uno spot pubblicitario sullo stesso tema.[8]

Con il senno di poi possiamo anche osservare che quella dello spot fu una dose di ambiguità comunque tollerabile da una platea di massa. Mi spiego. Come molti casi di citazionismo postmoderno lo spot è un esempio di quella modalità comunicativa denominata double coding, doppia codifica. Si presta a essere fruito, a più livelli, da spettatori dotati di maggiori o minori competenze intertestuali senza tuttavia pregiudicare del tutto la propria intelligibilità. Anche chi non coglie l’allusione orwelliana, sarà comunque in grado di riconoscere i tratti antiutopici della società descritta. Fuori discussione è inoltre l’assiologia manichea dello spot: la libertà, il coraggio, l’eroismo sono tutti dalla parte della protagonista femminile, mentre dall’altro lato troviamo oppressione, grigiore e asservimento. Una buona dose di ridondanza contribuisce a rimarcare queste opposizioni: si pensi solo al codice cromatico. Il filmato è dominato dai colori freddi: il bianco e il nero delle architetture, il grigio delle tute, il nero delle uniformi della polizia, la luce azzurrina del maxischermo; le uniche macchie di colore caldo le ritroviamo nell’immagine dell’eroina, nella sua capigliatura bionda e nei suoi calzoncini rossi. E questi colori vivaci rimandano subito al logo dell’azienda che compare alla fine dello spot: una mela color arcobaleno. Quanto all’allusione letteraria, sicuramente insolita nella comunicazione pubblicitaria degli ultimi decenni, ci sarebbe da dire che non è delle più indecifrabili. Quello di Orwell non è infatti solo un classico del secondo Novecento; è anche uno dei pochi luoghi letterari ad essersi tramutato in luogo comune. Alcuni romanzi godono di questa singolare fortuna. Non c’è bisogno di aver letto tutta la Recherche per sapere che la madeleine richiama in vita l’infanzia perduta, né c’è bisogno di aver letto Il castello o il Processo per saper riconoscere una burocrazia kafkiana. E si può sapere che cos’è il gattopardismo anche senza aver mai letto il capolavoro di Tomasi di Lampedusa. Così non è necessario ricordarsi l’intera trama di 1984 per sapere chi è il Grande fratello e quali sono i suoi metodi. Difficile che un pubblico mediamente colto non abbia mai sentito parlare del Ministero della verità, della continua riscrittura della storia, dei teleschermi che trasmettono propaganda a getto continuo e spiano ogni cittadino, della neo-lingua che impedisce perfino la formulazione di un pensiero critico.

Fino a qualche anno fa, almeno fino all’introduzione dell’omonimo reality show, era abituale evocare lo spettro del Grande fratello orwelliano allorché c’era da denunciare il Potere. La paranoia è del resto uno dei tratti ricorrenti della scena politica sia americana, sia italiana. Vedere la società in cui si vive come una spietata dittatura panottica è in fondo una metafora (o un’iperbole) e come ogni metafora è una somiglianza spinta, che implica sempre una buona dose di tensione fra il termine metaforizzante e il campo metaforizzato. Tale uso del romanzo deve basarsi sull’oblio selettivo di tratti del mondo orwelliano del tutto incompatibili con gli sviluppi storici del secondo dopoguerra. Orwell scrive mentre l’incubo della Seconda guerra mondiale è ancora vivo. Immagina un mondo in uno stato di guerra permanente, una società che soffre di una cronica penuria, una vera e propria economia del sottosviluppo – in pratica un’estrapolazione dell’economia di guerra coi suoi razionamenti –, al punto che perfino il caffè e la cioccolata sono lussi inarrivabili e anche i membri del partito fanno vita grama fra surrogati alimentari e abitazioni cadenti. Il regime da lui immaginato è ferocemente puritano, il sesso è demonizzato, e la frustrazione sessuale dei cittadini li dovrebbe spingere più facilmente all’odio del nemico e all’acquiescenza nei confronti della propaganda. Inutile dire che il mondo occidentale, dal 1948 in poi ha preso tutt’altra strada: si pensi all’avvento dei consumi di massa, alla cosiddetta società opulenta, alla rivoluzione sessuale degli anni sessanta…

Ciò non ha impedito a 1984 di funzionare come allusione, antonomasia, riferimento stenografico di un discorso sociopolitico generalmente critico. Non stupisce che un imprenditore come Steve Jobs, imbevuto di controcultura californiana e di ostilità anti-establishment, potesse tirare fuori il cliché verso la fine del 1983 nel commentare il crescente successo di un concorrente temibile come IBM. Parlando a una convention aziendale e presentando in anteprima il nostro spot esclamò: «Davvero Big Blue [nomignolo per IBM] si appresta a dominare l’industria dei computer? L’intera età dell’informatica? Aveva ragione Orwell sul 1984?» IBM, una delle più grandi corporations americane, dominatrice di un’epoca di computer mastodontici – gli ormai mitici mainframe a valvole termoioniche che occupavano intere stanze – o comunque destinati esclusivamente alle amministrazioni pubbliche e aziendali, era entrata nel mercato dei personal computer nel 1981. Nel giro di due anni aveva rosicchiato un quarto del mercato, ancora due anni e computer IBM o IBM compatibili avrebbero raggiunto il 75% del mercato. Sarebbe riduttivo tuttavia considerare il nostro uno spot “a chiave” dove l’azienda tradizionale, il gigante burocratico dell’epoca fordista, incarna il cattivo della situazione. Questa lettura poteva andar bene per una convention aziendale, ma ben difficilmente avrebbe avuto l’impatto duraturo che lo spot ha ottenuto. Non a caso, nella storia delle interpretazioni, l’identificazione fra Big Brother e Big Blue ben presto è venuta meno, sostituita ad esempio dall’altro nemico storico, Microsoft.

In realtà, lo spot prende molto sul serio l’antiutopia che mette in scena e di conseguenza anche l’utopica promessa affidata al prodotto. E nel far ciò lavora su un immaginario letterario e fantascientifico che si stava sviluppando in quegli stessi anni. Basta rammentare un po’ di date. L’Apple II, il primo personal computer di successo di Apple, è del 1977. Nel 1979 nasce un altro prodotto che rivoluziona il nostro modo di rapportarci alla tecnologia, il Walkman Sony. Nel 1982 esce un film di importanza epocale nella storia della fantascienza, Blade runner, diretto da quello stesso Ridley Scott che non si vergogna due anni dopo a firmare uno spot pubblicitario altrettanto epocale, il nostro. Sempre nel 1982 esce il primo film a far uso della grafica computerizzata, il disneyano Tron. In quello stesso anno, William Gibson nel suo racconto Burning Chrome introduce il cyberspazio, una rappresentazione grafica e tridimensionale delle banche dati mondiali, un universo parallelo in cui i personaggi entrano collegandosi ai loro computer. Nel 1984, sempre di William Gibson, esce il romanzo Neuromante, il cui protagonista, Case, è un hacker che solca il cyberspazio; è nato un nuovo filone della fantascienza, presto denominato cyberpunk, che per più di un decennio porta questo genere spesso snobbato sulle pagine culturali dei giornali e perfino nelle aule accademiche. La letteratura sogna a partire da invenzioni recenti. Gibson stesso ha confessato che l’idea degli individui collegati al cyberspazio mediante elettrodi, l’interfaccia corpo/computer che trasforma la tecnologia in una vera e propria protesi, gli è stata suggerita dal walkman, oltre che dalla passione dei primi giocatori di videogame.[9] Ma, al tempo stesso, la letteratura crea uno scenario futuribile, nonché un sistema metaforico che dà senso alle nuove tecnologie, favorisce la loro «messa in cultura»[10]. Dieci anni prima dell’esplosione di internet, il cyberspazio di Gibson ci ha familiarizzato con il nuovo medium, trasfigurandolo in senso romanzesco. Ha trasformato un immenso archivio di ipertesti, un ambiente almeno all’inizio prevalentemente scritto e quindi ben poco illusionistico, in uno spazio avventuroso da esplorare dove “navigare”, “surfare”, perdersi.

Ma la fantascienza cyberpunk e il film Blade Runner che ne è considerato a torto o a ragione un capostipite hanno cambiato la nostra rappresentazione del futuro. Per la prima volta il futuro fantascientifico non è un sogno modernista di acciaio cromato e plastica; è invece un “futuro retro”, nel quale si mescolano tecnologie avanzate e bizzarre sopravvivenze del passato: un cacciatore di androidi che anziché indossare una tuta di lycra in stile Star Trek veste come un investigatore privato degli anni cinquanta in una metropoli dove gigantesche piramidi in stile Metropolis e automobili volanti coesistono con stradine affollate da megalopoli orientali, risciò, chioschi ambulanti di noodles bowl… Inavvertitamente, anche nel genere fantascientifico si è realizzata la transizione verso il postmoderno: all’idea di un mondo tutto nuovo, riprogettato da capo secondo dettami razionali e scientisti, subentra un miscuglio caotico di locale e globale, tecnica evoluta e superstizioni antiche, tribale e ultramoderno… Per molti loro tratti i mondi possibili dei cyberpunk sembrano affini alle antiutopie classiche: megalopoli degradate, strumenti di sorveglianza sempre più evoluti, una vita breve e insicura per i più. A essere pressoché scomparso però, in una sorta di deregulation spinta, è il nucleo centrale degli incubi totalitari: lo stato. Non c’è un unico potere centrale, ma una miriade di poteri privati in competizione, corporations onnipotenti, cosche mafiose internazionali, il tutto per un «esperimento dissennato di darwinismo sociale», come lo definisce Gibson all’inizio di Neuromante. Tutto ciò è ben lungi però dal costituire un’antiutopia vera e propria sul modello di 1984 o di Brave New World. Innanzitutto perché in questo universo darwiniano gli individui intraprendenti hanno comunque la possibilità di ritagliarsi spazi di libertà, “zone temporaneamente autonome”, occasioni di successo come ricercati free lance. Ai romanzi di Gibson si potrebbe applicare quanto detto da Baudelaire su Balzac: qui tutti, perfino i personaggi più umili, hanno del genio; tutti eccentrici, tutti dotati di un look speciale, con un qualche talento particolare, come si conviene a una società ferocemente competitiva. La mediocrità impiegatizia del povero Winston Smith è un lontano ricordo. E in effetti, quello dei cyberpunk, ha scritto giustamente Ted Friedman, è un «antiutopismo rapsodico», un «futuro spiacevole per i più ma […] ugualmente stimolante e affascinante grazie a tutti quei gadget splendenti»[11].

E qui veniamo al dunque, la tecnologia non è più per i cyberpunk uno strumento di oppressione del potere centrale – si pensi ai teleschermi di 1984 –; è invece una risorsa per l’affermazione degli individui. Una tecnologia empowering per dirla all’inglese, che dà forza, potere ai singoli, apre strade e possibilità di esistenza inedite. Il cyborg, che nella fantascienza tradizionale era un’immagine fortemente distopica di disumanizzazione (si pensi a Darth Vader, ai Borg di Star Trek), diviene adesso il modello dell’uomo potenziato dalla tecnologia, che fa corpo con i suoi strumenti, prolunga i suoi nervi, amplia i suoi sensi, espande la sua coscienza. Con un computer, l’eroe della fantascienza cyberpunk può sfidare lo strapotere delle corporations, o comunque sfuggire ai propri limiti sociali e corporei; può trascendere la zavorra della «carne» per usare le parole di Case, il protagonista di Neuromante. Insomma, nel mentre i primi personal computer entrano nelle case – e si tratta di oggetti per i quali si fa fatica ancora a concepire una funzione – la fantascienza elabora degli scenari utopici sulla loro importanza. Quasi come il migliore dei pubblicitari, verrebbe da dire. E proprio come il nostro spot.

Sarebbe riduttivo tuttavia ricondurre la componente utopica del messaggio pubblicitario solo all’influenza della coeva fantascienza cyberpunk. In fondo Apple stessa, e in generale il personal computer, è nato dalle speranze fiorite in California negli anni Settanta. Se in Italia come si suol dire il ’68 dura dieci anni (ossia abbiamo 10 anni ininterrotti di mobilitazioni politiche fino al 1977), in modo simile in California il 1967 – la Summer of love, la stagione degli hippies, del flower power e delle droghe psichedeliche – lascia tracce durature per almeno un decennio. O meglio le mode passano, le sostanze allucinogene vengono proibite, ma intanto la controcultura diviene un nuovo senso comune e soprattutto, come molti sociologi hanno dimostrato, dà vita a nuovi stili di consumo e a una imprenditoria diffusa[12]. Su riviste come il Whole Earth Catalog si celebra il connubio fra il ritorno alla natura, la nuova coscienza ecologista e una convinta tecnofilia. «Access to tools», “accesso agli strumenti”, è lo slogan, dove il termine chiave è proprio “strumenti”: da intendere non solo come nuove idee e modi di vita, ma anche come nuove tecnologie, a disposizione di quanti vogliano intraprendere un cammino personale di libertà. In una regione che conta la più alta concentrazione mondiale di industrie hi-tech, finanziate copiosamente per decenni dalle commesse pubbliche e militari, sorgono gruppi come la People Computer Company e lo Homebrew Computer Club, quest’ultimo con un motto significativo «computer power to the people». Si tratta di hobbisti, di appassionati di elettronica, di aspiranti programmatori, tutti affascinati dall’idea di un computer per uso privato. La specificità della California – che la differenzia ad esempio dalla East Coast – è proprio questa: un interscambio rapidissimo fra laboratori universitari e aziendali e una base di appassionati di tecnologia libertari e bohemien[13]. L’utopia dei frequentatori dell’Homebrew computer club già verso il 1975 sarà resa possibile dal rapido crollo del prezzo dei chip e dall’avvento dei microprocessori. Steve Jobs e Steve Wozniak, assidui alle riunioni del club, che costituisce in qualche modo il loro mercato di sbocco, assembleranno il loro primo personal computer nel garage di casa Jobs nel 1976. Un altro frequentatore, il giovanissimo Bill Gates, comincerà di lì a poco a scrivere software di scrittura per le nuove macchine.

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Nel nostro spot, insomma, è come se Apple recuperasse la vena utopica che aveva presieduto alla nascita del personal computer, combinandola con le fantasie libertarie della fantascienza cyberpunk. Il balzo rispetto alle prime pubblicità dell’azienda – tutte imperniate su un banale ottimismo anni Ottanta, oppure su una divulgazione tecnica molto terra terra – è davvero impressionante.

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Ora, in pubblicità le promesse eccessive sono la regola. In questo caso, tuttavia, troviamo una «promessa di liberazione […] talmente “alta” da relegare apparentemente in secondo piano lo strumento che la renderà possibile» (sono le parole di un pubblicitario, Pasquale Barbella). Se ci pensiamo bene l’indeterminatezza della promessa è legata alla stessa struttura del filmato di Ridley Scott. Apple non ci mostra la sua utopia, mostra invece la demolizione di una antiutopia legata al passato. Nello spot prevale la pars destruens, con effetti davvero paradossali. L’azienda utilizza un budget impensabile nella pubblicità dell’epoca e la maestria cinematografica di un regista già celebre per mettere in scena il fascino terrificante del negativo. Secondo Roland Barthes, l’«eufemia pubblicitaria […] impone di non fornire del mondo altro che un’immagine piacevole e confortevole»[14]. O tutt’al più – precisiamo – in pubblicità il momento disforico può figurare ma solo come momentaneo inciampo prima dell’intervento salvifico del prodotto: quanti spot sono costruiti su un’elementare peripezia narrativa, lo schema prima/dopo, con il prodotto che interviene a cancellare magicamente sporco impossibile, mal di testa, bruciori di stomaco, brufoli, chili di troppo e quant’altro. A suo modo anche il nostro è uno spot prima/dopo, con la sola differenza che il segmento disforico è dilatato fino a coprire la quasi totalità del racconto; mentre il dopo – la promessa di liberazione – è confinata nello spazio del fuori testo, in un futuro ipotetico. La pubblicità, soprattutto in un paese di tante chiese in concorrenza come gli Stati Uniti, spesso scimmiotta certe movenze del discorso religioso: come diceva Spitzer, «non sarebbe sbagliato vedere un sermone in ogni messaggio pubblicitario […] ogni pubblicitario vi indica il suo prodotto come l’unica via di salvezza»[15]. Nel nostro caso sarebbe più opportuno evocare uno dei generi biblici per eccellenza: la profezia; o meglio ancora una sua versione particolarmente popolare negli States, la geremiade, ossia un misto fra l’invettiva e la profezia di sventura rivolta contro una qualche minacciosa e tracotante Babilonia[16].

L’utopia prospettata dallo spot nasce così sulle ceneri di un’antiutopia; la distruzione dell’immagine del grande fratello al termine dello spot lascia una sensazione di stupore fra la folla di seguaci e una dissolvenza in bianco: uno spazio vuoto, tutto da riempire, un nuovo inizio. Lo stesso annuncio finale è costruito attorno a una litote. «Vedrete così che il 1984 non sarà come “1984”»: non un anno storico, un anno rivoluzionario, semplicemente un anno ben diverso da quello immaginato da Orwell. La litote è una figura ambigua, in bilico fra attenuazione ed enfasi. Apparentemente, negando il contrario, si lascia aperto un ampio spettro semantico: un 1984 diverso da quello previsto da Orwell, ossia dal peggiore dei possibili, dopotutto potrebbe anche essere un anno comune o a mala pena passabile… in realtà, nella nostra lettura della litote, il senso ha come un rimbalzo verso il polo opposto, dall’estremo negativo a quello positivo, dall’antiutopia all’utopia. Pur con tutta la sua enfasi, la promessa di Apple assomiglia a un’altra celebre dichiarazione tutta in negativo, la montaliana, “codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. L’azienda non ci dice ciò che ci darà, bensì ciò da cui promette di salvarci. Una tale vaghezza nel definirsi però si spiega anche nel contesto dell’industria dei personal computer all’inizio degli anni Ottanta: un settore allora appena nato, che aveva sì conquistato una bella fetta di consumatori della classe media americana, ma che in realtà non aveva ancora individuato, né creato, dei veri e propri bisogni da soddisfare. I computer dell’epoca rispetto alle prestazioni odierne sono poco più che giocattoli – e in effetti all’inizio sono venduti al posto delle rudimentali consolle per videogames che avevano impazzato fin dalla metà degli anni settanta. Che cosa può fare una famiglia con un computer, ossia con un apparecchio associato fino ad allora con la contabilità e l’amministrazione di banche e uffici? Le risposte sono ancora evasive. Si pensa al computer come ad un ausilio per l’amministrazione domestica – data base e fogli di calcolo per trasformare ogni casa in una piccola azienda efficiente –; un po’ per scusare la sua probabile destinazione ludica, lo si immagina anche come un dispositivo per i ragazzi in età scolare, con compiti prettamente educational (un topos che smentito decine di volte si riaffaccia periodicamente). Il Macintosh è un prodotto davvero rivoluzionario, il primo vero personal computer moderno anche nell’aspetto (tastiera, schermo e cpu), sebbene i successivi desktop computer per ragioni economiche eviteranno la soluzione integrata e compatta di Apple. Il suo sistema operativo conta su due tratti innovativi che fungeranno da standard per i successivi venti anni: l’interfaccia grafica ad icone e finestre e un rivoluzionario sistema di puntamento, il mouse. Sono caratteristiche che Jobs nella dimostrazione del prodotto vanta con le solite iperboli da grande venditore: il prodotto è «insanely great», decenni avanti rispetto alla concorrenza. Eppure Apple decide di non mostrare nulla di tutto ciò nell’ambiziosissimo spot di lancio. In tutto il filmato l’unica presenza del prodotto è un disegno stilizzato sulla canottiera dell’eroina, sicuramente ignorato dai più. Se facciamo il confronto con le odierne campagne dell’azienda, lo scarto è evidente. Le pubblicità odierne non fanno altro che mostrare il prodotto: il suo proverbiale design e una scelta degli innumerevoli impieghi possibili. Solo che adesso sappiamo bene che cosa fare dei personal computer e dei loro eredi miniaturizzati, tablet e smartphone. Buona parte delle funzioni oggi inflazionate (scattare e condividere foto, ascoltare musica, guardare video, navigare in internet, consultare mappe) erano impensabili prima della metà degli anni Novanta. All’epoca, il primo Macintosh era un buon word processor, ideale per chi scriveva per professione, ma un po’ poco per il grande pubblico. Altri usi si sarebbero aggiunti negli anni: grafica, impaginazione, desktop publishing, progettazione in due e tre dimensioni: in effetti, per decenni, prima del secondo boom degli anni ’00, Apple sarebbe sopravvissuta grazie a una clientela fedele di redattori editoriali, grafici, architetti, scrittori e giornalisti.

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La profezia vaga serve insomma a ritagliare per il prodotto e per il marchio uno spazio nell’immaginario collettivo, ben prima che questi siano in grado di rispondere a effettivi bisogni della maggioranza dei consumatori. Serve anche a costruire un’immagine duratura dell’azienda: un’azienda diversa, creativa, libertaria, animata da uno spirito visionario forse in controtendenza con certe esigenze del mercato. Apple come «the underdog», per dirla all’inglese, il cane sciolto della compagnia. Tale immagine sarà oggetto di interminabili dibattiti fra i fan e i detrattori della mela, e sarà ribadita periodicamente da altre campagne pubblicitarie – penso soprattutto alla celeberrima Think different che nel 1997 segna il rilancio simbolico del marchio dopo il ritorno di Steve Jobs alla guida dell’azienda.

In quello spot, popolato da numi tutelari come Gandhi, Bob Dylan, Martin Luther King, John Lennon, si tesse l’elogio dei «pazzi. I disadattati. I ribelli. I piantagrane. Coloro che vedono le cose in modo diverso», «perché solo coloro che sono abbastanza pazzi da credere di poter cambiare il mondo, alla fine ci riescono davvero». Apple ha forse inaugurato un filone della pubblicità postmoderna: quello che fa leva su valori ideali, con venature utopiche e progressiste, mettendo da parte ogni incitamento troppo esplicito all’acquisto. Un gioco comunicativo tutt’altro che semplice, potenziale oggetto di parodie, sarcasmo o obiezioni più che legittime. Quel che c’è da dire tuttavia è che nel 1984, la mossa comunicativa di presentarsi come il ribelle che rompe un sistema oppressivo, come Davide contro Golia, oltre che azzardata era in buona parte infondata. Al di là della minaccia concreta di IBM, Apple, infatti, è il first mover sul mercato dei personal computer, ha piazzato un prodotto straordinariamente redditizio come l’Apple II, controlla una fetta cospicua del mercato e gode ancora di un indubbio vantaggio tecnologico sui principali concorrenti. Il Macintosh, almeno inizialmente e sicuramente per il battage sollevato dal nostro spot, conoscerà un discreto successo di vendite. Piuttosto, lo spot sembra adattarsi meglio, come una sorta di profezia che si autoadempie, al declino successivo dell’azienda, presto confinata in una nicchia del mercato, da concorrenti forse meno meritevoli sul piano del design e dell’innovazione, ma certamente più attenti ai fondamentali economici. Lo spot insomma consolida l’immagine del marchio ma al prezzo di rafforzarne la vocazione minoritaria. Renderà Apple un marchio molto amato, l’oggetto di un vero e proprio culto, con venature quasi religiose (qualcuno ha parlato non a torto di marketing evangelico[17]), ma al tempo stesso pregiudicherà il passaggio dei prodotti Apple verso il mainstream, il grosso dei consumatori. Quando, negli anni ’00 ciò accadrà grazie a dispositivi mobili come l’iPod e l’iPhone, questa eredità d’immagine creerà alcuni problemi. Apple rischierà di far la figura di certe rock star alternative idolatrate da una conventicola di fans che una volta giunte al successo commerciale vengono accusate di essersi snaturate. Inoltre, a chi così a lungo ha sbandierato valori ideali, mostrando spesso di volare molto al di sopra del gretto tornaconto, verranno più difficilmente perdonate certe tipiche mosse dell’odierno capitalismo globale (si pensi al recente scandalo Foxconn, l’azienda cinese che produce in condizioni di lavoro spesso inaccettabili gli apparecchi non solo di Apple, ma anche di gran parte dei concorrenti).

[Chi di 1984 ferisce… Apple nella parte del Grande fratello orwelliano. Lo spot di lancio del Motorola Xoom (2011), un tablet Android che si presenta come l’unica alternativa al monopolio oppressivo dell’iPad:

Ma il messaggio libertario e anticonformista, secondo alcuni, era in contraddizione con la stessa scelta – costante in tutta la storia dell’azienda – di un sistema chiuso: un’integrazione perfetta fra software e hardware che preclude ogni modifica da parte degli utenti finali. Chi, in fondo, meglio di Apple ha tradito quell’ethos, tipicamente californiano, che, fiorito ugualmente nel pieno degli anni settanta, ha poi dato vita alla sottocultura degli hacker e al movimento per i programmi open source: un ethos di condivisione gratuita, di attivismo di base, per cui ciascun utente diviene non solo destinatario ma anche produttore di software? L’Apple II, fedele al dettato del suo progettista Steve Wozniak, era in fondo un computer per “smanettoni”, per quegli hobbisty bricoleur che frequentavano i circoli per l’home computing della California anni settanta: un piccolo computer riprogrammabile, facilmente smontabile, sul quale ogni individuo avrebbe potuto installare le espansioni e le periferiche che desiderava. Il Macintosh invece è il primo di una serie di prodotti perfettamente rifiniti, quei totem sigillati dal design impeccabile sui quali i consumatori non possono neanche estrarre una vite. Apple promette sì di liberare i consumatori dai timori che nutrono di fronte a una tecnologia nuova e sconosciuta come il computer. Il Macintosh è un computer «for the rest of us», che non richiede competenze informatiche particolari, che utilizza per la prima volta un’interfaccia intuitiva e accattivante, al posto delle complicate stringhe di caratteri e delle numerose combinazioni di tasti in uso negli apparecchi della concorrenza. Uno degli scopi della pubblicità – lo ha intuito bene in Italia Francesco Alberoni già negli anni sessanta – è per l’appunto di liberare i consumatori dai timori istintivi di fronte alle novità: un compito che il nostro spot svolge egregiamente. Tale userfriendliness ha tuttavia un prezzo: ossia la passività dei consumatori e un controllo totale da parte dell’azienda sull’intera loro esperienza. A suo modo – un modo diverso rispetto al centralismo burocratico di IBM ,– anche Apple si appresta ad assumere il ruolo di Big Brother. C’è chi ha visto perciò nel nostro spot un tentativo di lavarsi la coscienza. Cito Walter Isaacson, il biografo ufficiale di Steve Jobs:

Il Macintosh [era] una macchina che violava molti dei principi del codice degli hacker: costava troppo; non aveva nemmeno uno slot, il che significava che gli hobbysti non potevano inserire le loro espansioni, né potevano modificare la scheda madre per inserire nuove funzioni; addirittura c’era bisogno di un utensile speciale per aprire l’involucro di plastica. Era un sistema chiuso e controllato, qualcosa che poteva essere progettato più dal Grande Fratello che da un hacker.

Così lo spot 1984 era un modo per riaffermare a se stesso e al mondo la propria immagine ideale di sé. L’eroina […] era una rinnegata in lotta contro l’establishment. […] Grazie allo spot Apple poteva identificarsi con i ribelli e gli hacker che la pensavano in modo diverso e anche Jobs poteva rivendicare il suo diritto di identificarsi con loro.[18]

Tutto perfettamente giusto a patto però di spersonalizzare la cosa. Non ci interessa in questa sede il conflitto psicologico di un reduce della controcultura ritrovatosi amministratore delegato di una grande azienda, nonché milionario. O meglio, in fondo quel conflitto è più o meno presente in ogni abitante del mondo occidentale: chi più chi meno siamo tutti consumatori con la cattiva coscienza. Da qualche decennio, da quella che un po’ pomposamente è stata battezzata la «rivoluzione creativa», alcuni pubblicitari hanno escogitato un’abile soluzione di compromesso per mettere d’accordo le esigenze dei loro clienti, che mirano ovviamente a vendere sempre di più, e le diffidenze e i sensi di colpa dei consumatori. Ossia hanno recepito quelle critiche al consumismo di massa e alla pubblicità divenute ormai luoghi comuni: il consumismo eccessivo che ci riempie di oggetti e ci svuota la vita, che ci rende tutti uguali, “polli di allevamento”, i “persuasori occulti” della pubblicità che ci ipnotizzano e ci istupidiscono. La pubblicità ha insomma riecheggiato una certa critica – spesso superficialmente moralista o estetica – verso i guasti del capitalismo fordista, a patto però di rivolgerla di volta in volta contro la concorrenza, presentando il proprio marchio e il proprio prodotto come una virtuosa eccezione.[19] Ai giorni nostri, ormai, certi inviti pubblicitari, più o meno convinti, a uscire dagli schemi, a non comportarci da yes men, sono ormai diventati stucchevoli e pretestuosi. Al suo meglio, tuttavia, tale strategia riesce a fare del prodotto una soluzione immaginaria (e estemporanea, ma basta per l’attimo dell’acquisto) a contraddizioni profondamente sentite nella nostra società. Il prodotto diviene il luogo di un appagamento utopico del desiderio, mentre la pubblicità che lo celebra diviene spesso, come accade a espressioni estetiche ben più complesse, la sede di un ritorno del represso.

Se ci pensiamo bene, uno spot come quello di Apple, esercita rispetto ai dati di realtà una deformazione, uno straniamento paragonabile a quello di opere d’arte o letterarie. In una delle migliori analisi dello spot, si legge ad esempio che esso produce nello spettatore uno stato di sospensione dell’incredulità quasi onirico, «come in un sogno, restano in sospeso logiche domande narrative del tipo: Perché un martello? Perché uno schermo? La arresteranno? Sarà uccisa? Cosa accadrà al Grande Fratello? Ci arrendiamo alla logica interna dell’immagine e da lì ricaviamo il senso»[20]. Per sessanta secondi ci dimentichiamo che si tratta soltanto della pubblicità di un computer; tutto diventa una questione di vita o di morte, è in gioco il nostro futuro, la nostra libertà, la nostra dignità. Con esemplare candore un dirigente della IBM, il concorrente demonizzato da Apple, osservò: «Quel che sono riusciti a fare nella pubblicità è inquadrare questo conflitto come una battaglia per l’anima dell’uomo – cosa che di certo non è… è una battaglia per avere spazio sugli scaffali dei punti vendita»[21]. Di tutti gli elementi dello spot forse uno più di ogni altro è responsabile di questo effetto. Si tratta di un aspetto al tempo stesso convenzionale e spiazzante, ossia la scelta di una donna per il ruolo di protagonista. Ora, la pubblicità fin dalle sue origini ha sfruttato in ogni modo la bellezza femminile. Ma qui troviamo una donna che personifica un’azienda di computer, uno strumento pensato fino a quel momento rigorosamente al maschile. Secondo molti osservatori, la mossa in modo istantaneo e intuitivo permette un nuovo inquadramento di genere del prodotto. È un esempio particolarmente efficace di quel «femminismo dei consumi» di cui la pubblicità aveva dato prova fin dagli anni Settanta, dimostrando la sua capacità di assorbire e addomesticare ideologie inizialmente ostili al suo universo. Apple decide di proiettare connotazioni “femminili” su un ambito, quello delle tecnologie informatiche, tradizionalmente dominato dagli uomini, siano essi tecnici o semplici appassionati. Ecco così un computer per uso domestico, dalle forme tondeggianti (in seguito, per una breve stagione, addirittura colorato), un computer concepito per il tempo libero e non solo per il lavoro d’ufficio, destinato a soddisfare altre esigenze oltre a quelle dell’efficienza di gestione: intrattenimento, creatività, gusto estetico. Non a caso, nel far progettare l’involucro di plastica del Macintosh, Steve Jobs si ispirò agli elettrodomestici Cuisinart. La scelta dell’eroina rafforza anche la struttura manichea dello spot. In un’antiutopia tutta al maschile – anche se di una mascolinità privata dei suoi proverbiali attributi (la folla è passiva e senza forze, il dittatore ha in fondo il volto imbolsito di un burocrate) – l’unica oppositrice è una donna. Sembra anche l’unica creatura dotata di forza, vitalità e autenticità: corre mentre gli altri si trascinano; ha un corpo prorompente e in vista mentre gli altri sono infagottati in abiti oversize; ha la pelle chiara e luminosa delle eroine pubblicitarie, mentre gli altri appaiono pallidi e quasi ricoperti di polvere (un dettaglio incidentalmente assai fedele al romanzo di Orwell[22]); ha una chioma fluente e bionda mentre gli altri sono rasati a zero come militari o i prigionieri di un immenso campo di concentramento. In un’epoca assai lontana dalla glamourizzazione odierna dello sport femminile, nonché dalla generalizzata androginia dei corpi pubblicitari odierni, l’eroina dello spot riunisce in modo originale i tratti mascolini della forza e della potenza (incidentalmente, all’epoca il lancio del martello femminile non era ancora ammesso nel programma olimpico, lo sarà solo nel 2000) e un aspetto decisamente femminile con un viso dolce e un seno pronunciato. I commentatori si sono sbizzarriti nelle interpretazioni simboliche: c’è chi l’ha paragonata alle figurazioni allegoriche dei movimenti rivoluzionari, la libertà che guida sulla breccia i rivoluzionari del quadro di Delacroix, la Marianne; chi ha evocato la contemporanea star dell’aerobica Olivia Newton John, fra le prime a fondere il glamour divistico con un’immagine sportiva e salutista[23]; chi ha sottolineato la corrispondenza con il sottotesto letterario – la sensuale Julia che nel romanzo di Orwell nutre un’avversione quasi corporea e istintiva per le proibizioni del Partito – ; chi addirittura l’ha definita una novella Eva che reca il frutto della conoscenza informatica, dopo tutto il logo della Apple è una mela morsicata[24]. Anch’io vorrei partecipare a questo gioco azzardando un altro parallelo o antecedente. Potremmo paragonare l’eroina dello spot a una figura resa popolare dalla propaganda americana durante la seconda Guerra mondiale: Rosie the riveter, l’immagine della nuova donna che per il bene del paese si rimboccava le maniche e sostituiva gli uomini partiti per il fronte nelle industrie belliche. Una donna coraggiosa e forte, libera e sfrontata, con un ingombrante strumento in mano non molto adatto a mani femminili, con il quale, indirettamente, si appresta a sferrare colpi decisivi a regimi odiosi e illiberali. Anche questa un’immagine femministeggiante, in accordo però con l’American way of life. Nel suo celebre saggio del 1984, Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, Fredric Jameson notava come il computer, ossia la tecnologia determinante nella terza rivoluzione industriale, non avesse suscitato nell’immaginario niente di paragonabile alle rappresentazioni epiche della macchina all’inizio del Novecento[25]. Potremmo aggiungere così che l’esaltazione del PC nel nostro caso prende a prestito un’immaginario legato alla precedente stagione industriale: l’epoca delle tute blu, della produzione e non della riproduzione, della lamiera e dei bulloni e non degli impalpabili bit.

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Quando si interpreta un testo pubblicitario però, anche particolarmente riuscito, non bisogna sopravvalutare il controllo degli autori, la loro prescienza rispetto anche ai più estemporanei episodi della storia delle interpretazioni. Come ha osservato Franco Moretti, a proposito dei testi letterari, ossia di messaggi ben più coerenti e meditati di quelli pubblicitari, gli interpreti debbono imparare a riconoscere l’imperfezione. Debbono rendersi conto che, nei processi creativi, spesso e volentieri è presente uno sperimentalismo non sempre consapevole, un bricolage di ingredienti formali e tematici preesistenti sul quale solo in seguito, in caso di successo, il pubblico saprà riconoscere ogni sorta di significati. Così non sopravvaluterei troppo i pubblicitari della Chiat/Day a proposito della scelta dell’eroina. In fondo per un creativo pubblicitario mettere una bella donna al centro di uno spot è quasi un riflesso condizionato – Frédéric Beigbeder nel suo caustico romanzo sulla pubblicità, 99 francs, la chiama la «stronzata dell’ultimo secondo»[26], il grado zero della creatività in grado di accontentare anche il cliente più grossolano. Nel nostro caso, era una trovata certo tutt’altro che indigesta per il pubblico prevalentemente maschile del Super Bowl e comunque accettabile anche per il pubblico femminile, al quale si proponeva il riscatto di una proiezione eroica.

Di quello stesso pubblico, il nostro spot forniva un riflesso metaforico assai meno compiacente. In fondo – ed è stato fatto –, 1984 potrebbe essere letto anche come uno spot autoriflessivo, che riflette cioè nella sua messa in scena la sua stessa situazione di fruizione (e a suo modo ha inaugurato fra le altre cose la consuetudine durante il Super Bowl di trasmettere spot non solo ad alto budget e spettacolari ma spesso anche meta-pubblicitari). Il nostro è un racconto che riflette la sua cornice: la folla istupidita di fronte al Grande fratello è un’immagine trasparente delle masse ipnotizzate di fronte all’evento televisivo dell’anno. Come la pubblicità, la nostra eroina irrompe a scuotere il loro torpore: un’interruzione brusca ma forse salutare. Negli anni seguenti, quando la voga cyberpunk contagerà filosofi e massmediologi, fioccheranno i confronti fra il medium del passato, la TV, e quello del futuro, il Web, tutti ovviamente a vantaggio di quest’ultimo. In molti celebreranno la fine prossima ventura della “cattiva maestra televisione”, un medium unidirezionale, con pochi grandi broadcaster e milioni di passivi spettatori. Il web, medium interattivo, nel quale ogni fruitore può diventare a sua volta un produttore di contenuti, avrebbe finalmente frammentato e reso attive le masse istupidite dalla tv generalista. Forse è ancora troppo presto per rendere giustizia a simili profezie; esse in ogni caso hanno trovato a suo tempo nello spot Apple un innesco spettacolare e suggestivo.

Vorrei concludere con un’ultima riflessione su letteratura e pubblicità. Qual è in fondo la relazione che la pubblicità intrattiene con la letteratura e in generale la cultura alta che occasionalmente evoca? Secondo Fausto Colombo, «la pubblicità, nella sua genesi propriamente linguistica e stilistica, può considerarsi un immenso universo parodistico»[27]. La pubblicità dell’Ottocento, come ha dimostrato Jennifer Wicke, è in molti casi un abbassamento derisorio di materiali letterari riconoscibili, un’eredità in Italia ancora avvertibile nella stagione di Carosello. Secondo altri, addirittura, la pubblicità in sé avrebbe una vocazione comica per il fatto stesso di accostare valori assoluti a qualcosa di “basso” e “triviale” come il consumo di beni materiali. In ogni pubblicità ci sarebbe una sorta di caduta, un momento di disinganno ironico bene espresso dal detto americano “it’s only advertising!” Apparentemente, l’ironia, una dei protagonisti dell’estetica del postmoderno, è il grande assente dal nostro spot, come dal resto della comunicazione di Apple. Ma per chi ha un minimo presente la rappresentazione che della pubblicità ha dato la letteratura del Novecento, l’operazione compiuta dal nostro spot ha i tratti di un capovolgimento ironico e beffardo. Fin da Brave New World, infatti, la pubblicità è proprio uno dei tipici ingredienti delle antiutopie letterarie. I cittadini delle antiutopie subiscono un lavaggio del cervello continuo ad opera di una comunicazione martellante che inizialmente è forse più ascrivibile all’ambito della propaganda, ma che, soprattutto dal secondo dopoguerra, ha tutti i tratti della pubblicità. In fondo anche il libro più celebre mai scritto sulla pubblicità – I persuasori occulti di Vance Packard del ’58 – è un’antiutopia travestita da pamphlet. Packard parla di uno spietato «attacco all’inconscio» dei consumatori da parte dei pubblicitari evocando il condizionamento pavloviano, i messaggi subliminali, il potere dei simboli sessuali, gli studi sulle forme e i colori delle confezioni, insomma tutta una scienza – o pseudo scienza – della manipolazione. Negli anni cinquanta, gli allarmismi sul lavaggio del cervello pubblicitario rimbalzano dalle antitutopie letterarie al giornalismo d’inchiesta e di nuovo alla letteratura. Nel 1958, Huxley si rifarà proprio a Packard per affermare che le previsioni contenute nel suo romanzo del 1932 erano in procinto di avverarsi. In Italia gli fa eco qualche anno dopo Luciano Bianciardi nella sua satira del miracolo economico, La vita agra. Scrittori diversissimi fra loro come William Burroughs, nei suoi cut up sperimentali degli anni sessanta, Primo Levi, nel suo apologo fantascientifico In fronte scritto, Le Clezio, nel suo profetico esordio Les Géants alimentano tutti questa visione fosca della pubblicità, che autori di fantascienza come Frederic Pohl, nel suo The space merchant e Philip Dick in Ubik proiettano addirittura su uno scenario futuribile e interplanetario. Questa idea della pubblicità come condizionamento, come strumento di una sorta di totalitarismo strisciante, non scompare con l’avvento del Postmoderno, ma sopravvive in sottotraccia, magari combinata con visioni più euforiche, con ambivalenze e sfumature. Ebbene, dopo decenni di rappresentazioni apocalittiche della pubblicità, nel 1984 di Apple un’azienda si presenta come la sovvertitrice di un’antiutopia. La pubblicità racconta la buona novella della fine del terrore, della massificazione imposta. L’inversione dei ruoli è totale. La pubblicità si presenta come l’avversaria di tutto ciò che le era stato a torto o a ragione imputato. Ma la mossa – per tornare al romanzo di Orwell – assomiglia moltissimo al doublethink, uno dei metodi di propaganda del Grande fratello. Il doublethink è un’autodisciplina del pensiero alla quale vengono educati tutti i membri della burocrazia del Partito, consiste nella capacità «di sostenere due opinioni che si escludono, sapendo che sono in contraddizione e credendole entrambe; di usare la logica contro la logica; di ripudiare la morale nel mentre si fa appello ad essa; credere che la democrazia è impossibile e al tempo stesso che il Partito è il guardiano della democrazia»[28]. Capolavori di doublethink sono gli slogan dell’Ingsoc: «la guerra è pace / la libertà è schiavitù / l’ignoranza è forza», come pure le denominazioni dei tre principali organismi di Governo: «il Ministero della Pace finanzia la guerra; il Ministero della Verità racconta bugie; il Ministero dell’Amore tortura e uccide tutti coloro che ritiene possano costituire una minaccia»[29]. Talvolta la cultura di massa produce dei capolavori involontari di doublethink quando cita i suoi nemici diretti, ossia dei testi letterari fortemente critici o addirittura apocalittici. Come sappiamo, Big Brother adesso è un reality show dove l’incubo paranoico di una sorveglianza panottica si è tramutato nel sogno di ogni esibizionista: una vita di fronte alle telecamere per un warholiano quarto d’ora di notorietà. Ma anche 1984 di Apple a suo modo potrebbe essere annoverato in questa bizzarra galleria. Il suo messaggio non sfigurerebbe accanto ai tre slogan del romanzo di Orwell: consumare è fare la rivoluzione; per pensare in modo indipendenti occorre essere fedeli al marchio, la libertà ha su impresso un copyright: Apple think different…

 


[1] F. Orlando, Lintimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Einaudi, Torino, 1998, p. 8.

[2] N. Carr, The shallows. What the Internet is doing to our Brains, W. Norton, New York, 2010. Tutto ciò – osserva l’autore – è destinato ad aggravarsi con l’avvento degli e-book, soprattutto se per leggerli useremo sempre di più non dispositivi dedicati alla lettura (del tipo Kindle), bensì apparecchi multimediali come i tablet.

[3] L. Spitzer, American Advertising Explained as a Popular Art, in Essays on English And American Literature, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1949, pp. 248-277; G. Folena, Analisi linguistica di contesti pubblicitari, «I problemi di Ulisse», settembre 1969, XXI, pp. 215-224; R. Barthes, Rhétorique de l’image, in Communication, n°4, 1964, pp. 41-42.

[4] Mi rifaccio alla definizione ormai classica dell’evento narrativo proposta dal semiologo sovietico Jury M. Lotman come «il trasferimento del personaggio oltre i confini del campo semantico»: La struttura del testo poetico, Mursia, Milano, 1976, p. 276.

[5] Ecco la trascrizione integrale del discorso del dittatore: «Today, we celebrate the first glorious anniversary of the information Purification Directives. We have created, for the first time in all history, a garden of pure ideology—where each worker may bloom, secure from the pests purveying contradictory truths. Our Unification of Thoughts is more powerful a weapon than any fleet or army on earth. We are one people, with one will, one resolve, one cause. Our enemies shall talk themselves to death, and we will bury them with their own confusion. We shall prevail!».

[6] Barthes, Rhétorique de l’image cit.

[7] Th. Pynchon, Introduction in G. Orwell, Nineteen-Eighty Four, Penguin, London, 2003 [e-book], pos.194.

[8] W.R. Coulson, Big Brother is watching Apple: The truth about the Super Bowls most famous ad, «The Dartmouth Law Journal», 7, 1, 2009, p. 106.

[9] B. Headlam, Origins: Walkman Sounded Bell for Cyberspace, «The New York Times», 29 luglio 1999.

[10] Uso un’espressione di Jean-Marc Lévy Leblond a proposito di una delle diverse funzioni della letteratura per la scienza: Le miroir, la cornue et la pierre de touche ou que peut la littérature pour la science, in Il testo letterario e il sapere scientifico, a cura di Carmelina Imbroscio, Clueb, Bologna, 2003.

[11] T. Friedman, Electric Dreams: Computers in American Culture, New York University Press, New York & London, 2005.

[12] Si vedano ad esempio: Th. Frank, The Conquest of Cool. Business Culture, Counterculture, and the Rise of Hip Consumerism, The University of Chicago Press, Chicago 1997; S. Binkley, Getting Loose. Lifestyle Consumption in the 1970s, Duke University Press, Durham and London, 2007.

[13] Sui rapporti fra la controcultura californiana, la ricerca informatica e poi la nascita dell’industria dei personal computer si veda J. Markoff, What the Dormhouse said. How the Sixties Counterculture shaped the Personal computer Industry, Penguin, London, 2005.

[14] R. Barthes, Società, immaginazione, pubblicità, in Spot in Italy, a cura di Francesco Scrocco, Paolo Taggi e Adriano Zanacchi, Eri, Roma, 1987.

[15] Spitzer, American Advertising…, cit., p. .

[16] Sulla quale si veda S. Bercovitch, The American Jeremyad, University of Wisconsin Press, Madison, 1978.

[17] B. McConnell, J. Huba, Creating Customer Evangelists: How Loyal Customers Become a Volunteer Sales Force, Kaplan, Chicago, 2003, pp. 67-69.

[18] W. Isaacson, Steve Jobs. The exclusive biography, Hachette, London, 2011, p. 163.

[19] Su questi temi si vedano: Frank, The Conquest of cool, cit; L. Boltanski, È. Chiapello, Le Nouvel Esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 2000; J. Heath, A. Potter, Nation of Rebels. Why Counterculture Became Consumer Culture, HarperCollins, New York 2004.

[20] L. M. Scott, For the Rest of Us: A Reader-Oriented Interpretation of Apples 1984 Commercial, «The Journal of Popular Culture», 25, 1, Summer 1991, pp. 67-81, p. 77.

[21] Cit. in ibid., p. 77.

[22] Winston ha l’impressione poi confermata che una sua vicina di casa, Mrs. Parson, moglie di un membro dell’outer party fanaticamente ortodosso, abbia della polvere nelle rughe del suo volto. Al momento del primo incontro con Julia ha paura che alla luce del sole primaverile essa veda in lui null’altro che «una creatura da spazi chiusi, con la lurida polvere di Londra nei pori della sua pelle». La polvere, frutto delle distruzioni dovute ai bombardamenti, nonché al misero stato degli edifici cadenti, è una presenza costante nel romanzo. In polvere inoltre sono ridotti i documenti che vengono falsificati dal Ministero della Verità e gli individui caduti in disgrazia.

[23] K. Maney, Apple’s ‘1984’ Super Bowl commercial still stands as watershed event, «USA Today», blog Cyberpspeak, post del 28 gennaio 2004.

[24] A. A. Berger, Ads, Fads, and Consumer Culture: Advertising’s Impact on American Character and Society, Rowman & Littlefield, Lanham, 2011, p. 178.

[25] F. Jameson, Postmodernisn, or the Cultural Locig of Late Capitalism, Duke University Press, Durham (NC), 2003, pp. 36-37.

[26] F. Beibeder, 99 francs, trad. it. 26.900 lire / 13,89 euro, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 76-77.

[27] F. Colombo, voce Parodia, in Dizionario della pubblicità. Storia, tecnica, personaggi, a cura di Alberto Abruzzese e Fausto Colombo, Zanichelli, Bologna, 2004.

[28] Orwell, Nineteenth Eighty-Four, cit., pos. 848.

[29] Pynchon, Introduction, cit., pos. 147.

[Immagine: Apple Macintosh e Steve Jobs nel 1984 (gm)].

5 thoughts on “Antiutopie letterarie e utopie pubblicitarie. “1984” da Orwell a Apple

  1. Bella analisi, apprezzabile anche per il suo particolare oggetto. Vorrei muovere 2 appunti.
    In primo luogo, dire che la semiologia legge gli spot “a mo’ di esempio” è quantomeno impreciso, se non del tutto errato. Se per semiologia si può intendere anche la semiotica contemporanea, allora non è affatto vero che i testi — tra cui anche gli spot — sono visti come istanze di un sistema. Al più, a seconda della teoria che si segue, si cerca di vedere oltre al testo anche la teoria dietro l’analisi. Non per questo, però,l’individualità del testo viene assorbito dalla tentativo di costruire un modello generale.
    In secondo luogo, credo che la seconda parte dell’analisi, laddove si ragiona di come il prodotto (non) viene presentato, possa giovarsi delle riflessioni (semiotiche) di Landowski e Floch sulla valorizzazione degli oggetti in pubblicità. Alla luce di ciò che questi autori dicono, l’affermazione “Apple ha forse inaugurato un filone della pubblicità postmoderna: quello che fa leva su valori ideali” (ed alcune altre simili) risulta imprecisa. Per due motivi: 1) Apple non inaugura questo filone — cosa del resto già problematizzata dall’autore con un “forse”; 2) il filone non è tipico del postmoderno, ma fa parte, in generale, di un modo di fare pubblicità — come già il Barthes delle Mythologies ci mostra in alcune analisi.
    Non vorrei però chiudere il commento con una critica (che vuole solo essere un suggerimento). In realtà, come ho già detto, ho davvero apprezzato l’articolo. Sopratutto nel collegamento con il cyberpunk e nella sua veloce analisi di questi mondi rispetto a quelli di Star wars et similia.

  2. Congratulazioni per l’analisi, davvero interessante. Solo una piccola correzione: il regista di “1984”, il film, non era Robert Redford ma Michael Radford, quello del “Postino” con Troisi. E un supplemento d’informazione che giustifica, attenuandole, le reticenze e l’ambiguità dello spot: si trattava di un cosiddetto “annuncio teaser”, una specie di prefazione alla campagna vera e propria, realizzata da Apple con il regista Adrian Lyne con l’obiettivo di spiegare, in modo più didascalico, come sarebbero cambiati la vita e il lavoro grazie al Macintosh.

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