cropped-Milano-Isola-78-0351.jpegdi Maria Borio

[Una versione più ampia di questo articolo è uscita sui numeri 4 e 5 di “FuoriAsse]

1. La metropoli di De Angelis è Milano, rappresentata soprattutto come una vasta, oceanica periferia che si trasforma in un vertiginoso teatro esistenziale dove ogni cosa è percepita per «innestare il mondo elegiaco in quello tragico», per «far sì che un paesaggio diventi un destino»[1]. In De Angelis, infatti, la metropoli non è soltanto quell’eterogeneo agglomerato, dominato da un’essenziale e drammatica disomogeneità, che caratterizza l’esistenza plurima, multispaziale, multicentrata e, al tempo stesso, monadica del vivere contemporaneo. In questa Milano c’è soprattutto la radice figurativa del pensiero tragico che è la molla di una poesia ferita dal dolore della vita, ma anche instancabile portatrice di domande che non concedono mai al nulla di esistere come un apriori assoluto e che non si sottomettono al nichilismo come fosse un destino predeterminato. La metropoli è il paesaggio di un destino, nella misura in cui il destino significa Grundfrage: la domanda fondamentale «che chiede perché c’è qualche cosa e non piuttosto il nulla»[2].

Se l’opera di De Angelis riesce a rappresentare autenticamente la complessità e le contraddizioni di un’età di transizione, quale è la nostra, ciò accade perché ripropone in chiave contemporanea il pensiero tragico. Porta con sé un’indagine ermeneutica che assume l’interrogazione tragica – al di là delle sue implicazioni metafisico-teologiche – come base per l’analisi dell’immanenza, del problema ontologico del male, del nulla, dell’enigma che emerge costantemente e paradossalmente in un’epoca dominata dal disincanto del mondo e della sua razionalizzazione tecnico-scientifica, in cui manca un reale fondamento razionale (metafisico o dialettico) che possa dare senso ultimo a una vita multi-significante e conflittuale. La Milano di De Angelis è una metropoli tragica perché incarna un’incessante interrogazione sull’enigma, una parola che non parte dalla realtà ma che alla realtà cerca di arrivare[3], che non accetta nessuno stato di necessità come fondamento dell’esistenza e affronta sempre il nulla come un problema che deve essere interrogato. È la città dei mille volti e delle mille dimensioni, delle periferie geometriche e labirintiche, della precisione e del tormento, delle continue distruzioni e risurrezioni: un «ciclo perpetuo di metamorfosi» tra la «nettezza», il «rigore economico» e il baratro imperituro «dell’ultima volta, dell’ultima cena, dell’ultima vita»[4]. E proprio questa insolvibile compresenza di opposti, come una vertiginosa «capacità di stare nel nodo»[5] senza scioglierlo, la rende teatro d’elezione per l’interrogazione tragica che «pensa la lacerazione della verità e del mondo nella sua possibilità, nella sua realtà e nelle sue conseguenze, e tiene ferma questa lacerazione senza mediarla razionalmente o esteticamente»[6]. Milano ha la forza plastica di un oceano (Biografia sommaria): è lo spazio multidimensionale dell’incontro e del conflitto tra la potenza di una sensibilità che interroga e quella delle logiche metropolitane. Il paesaggio acquista una corposità magica e spesso irreale: le diagonali inflessibili degli edifici e le rovine sono tutt’uno, così come la superficie dura, impenetrabile delle tangenziali e l’asfalto rovente che risucchia le energie dell’io fino alle ossa. Come in certi quadri di Sironi, ogni cosa, nelle periferie milanesi, è enigmatica perché porta con sé un gesto che ha un carattere implosivo, che fa intravedere il fondo ignoto della sua presenza.

Dall’essenza tragica di Milano, la poesia irrompe con un «impatto tra telos e contingenza»[7], in cui l’incontro tra le domande e il fondamento enigmatico della vita si realizza dentro a un presente temporale che ingloba tutti gli altri tempi. Questo presente attraversa l’individuo come fosse una continua «certezza» e un continuo «urto», immagini che richiamano lo scontro tragico archetipico tra le figure di Apollo e Dioniso: una certezza perché «il tragico è dove è la certezza, dove c’è una risposta definitiva e incessante»[8]; un urto perché la nettezza e le rovine, la continua distruzione e resurrezione delle zone di Milano che il poeta attraversa in una quête affannosa, si succedono in un ritmo folgorante, scivoloso, imprendibile, imprevedibile, incessante. Può sembrare una sospensione dal tempo, come in Bigongiari, che De Angelis ha studiato per la sua tesi di laurea. In realtà, però, l’io è sempre di fronte a un tempo assoluto che preme contro di lui senza tregua, con lo spettro del nulla da interrogare,  con il rovello del «punto di vista di una totalità da introiettare in una forma»[9] per cantare «l’assoluto stretto a un momento / solo» (Trovare la vena, IX, vv. 6-7, in Tema dell’addio), come avviene in Fortini – anche nell’accezione di impegno politico. Possono valere allora anche per De Angelis e per la sua Milano delle periferie, delle tangenziali, dell’asfalto bollente, queste parole: «Mi rendo […] conto», ha detto Fortini, «che quello che vivo e scrivo – la realtà – è una frazione di cui vediamo o il numeratore o il denominatore, ma non le due facce insieme. Ricordo sempre ciò che mi disse da adolescente un mio amico più anziano: “Senti quell’uccello che canta sul ramo? Non ci sarebbe se non ci fosse il nulla”»[10].

[…]

2. La ricerca di una radice tragica nell’essenza e nelle manifestazioni della metropoli contemporanea è forse il motivo più importante per cui la Milano di De Angelis appare un termine di paragone per l’individuo occidentale che sia alla ricerca di un destino. Anche per questo si distingue dalle rappresentazioni di matrice lombarda che caratterizzano la poesia tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Alla referenzialità oggettiva di un paesaggio che fa da sfondo alla quête, come in certi testi degli Strumenti umani (1965) o di Cadenza d’inganno (1957-1974), si sostituisce un paesaggio la cui essenza tragica precede o va di pari passo con le domande dell’io, che riflettono la natura profonda delle logiche metropolitane e che vengono da queste assorbite come fossero componenti del ciclo urbano di distruzione e resurrezione. Si confrontino i seguenti testi:

La città — mi dico — dove l’ombra
quasi più deliziosa è della luce
come sfavilla tutta nuova al mattino…
«…asciuga il temporale di stanotte» — ride
la mia gioia tornata accanto a me
dopo un breve distacco.
«Asciuga al sole le sue contraddizioni»
— torvo, già sul punto di credere, ribatto.
Ma la forma l’immagine il sembiante
— d’angelo avrei detto in altri tempi —
risorto accanto a me nella vetrina:
«Caro — mi dileggia apertamente — caro,
con quella faccia di vacanza. E pensi
alla città socialista?».
Ha vinto. E già mi sciolgo: «Non
arriverò a vederla» le rispondo.

(Vittorio Sereni, Appuntamento a ora insolita, vv. 1-16)[11]

Non sogno. Non mi capita più di sognare.
I pacifici oggetti mimetizzati sotto frasche o teli,
i bagliori d’acciaio senza acume
sono dunque avviati su binari morti.
[…] Il freddo
è appena freddo, i rombi
di luce sull’asfalto traslano piano,
la città non si vede. «Ecco, è così che sono, adesso
l’hai visto» – proprio le volte che non mi sembri vera.

(Giovanni Raboni, La morìa, IV, vv. 1-4 e 8-12) [12]

Affogano le nazioni, crollano le torri, un caos
di lingue e colori, traumi e nuovi amori,
entra alla Bovisasca, spazza via il novecento
della solitudine maestra, del nostro verso
sospeso nel vuoto. Altre donne si aggirano
tra gli scarti del mercato, nella nuova miseria
di questo istante. Io siedo al caffè sotto casa,
guardo il paesaggio che fu di Sironi, in un solitario
dodici agosto, inizio a convocare le ombre.

Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza
di Belle Epoque e un sorriso sperduto di ragazzo.
E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria
a tre secondi dalla fine. E Roberta
che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,
in un silenzio di ospedali, quando il tempo
rivela i suoi grandi paradigmi.
(Milo De Angelis, Vedremo domenica, IX, vv. 1-16)[13]

In tutte le poesie si parla di una forma di scoperta. In Appuntamento a ora insolita coincide con la smentita di un desiderio ed è rappresentata attraverso un’apparizione («[…] ride / la mia gioia tornata accanto a me») che si sviluppa sotto forma di un dialogo immaginario tra il soggetto e il suo interlocutore ironico, il fantasma della «gioia» che gli è comparso accanto nel riflesso di una vetrina (vv. 12-16). La morìa (IV) racconta la rivelazione di uno stato, che corrisponde allo svelamento di un’identità ed è concentrata nella battuta dialogica finale. Sia che si tratti di un desiderio fallimentare, sia che si tratti della rivelazione di un’identità, la scoperta riguarda una condizione esistenziale del soggetto e la metropoli è lo sfondo ambientale e realistico del dialogo o del monologo interiore. Soltanto in Milo De Angelis, però, il motivo della scoperta significa riconoscere il destino dell’individuo in quello delle logiche metropolitane. Nella poesia Affogano le nazioni, crollano le torri…, testo conclusivo della prima sezione di Tema dell’addio (Vedremo domenica), l’io è alla Bovisasca e ricorda i suoi affetti, le «ombre» convocate in un agosto solitario. Sulle «ombre», che appaiono nella seconda strofa con i loro nomi propri e che si susseguono in un accumulo elencativo, è proiettata la realtà della città, di cui si parla, con il medesimo accumulo, nella prima strofa: qui, l’elencazione e l’iterazione dei verbi asseverativi all’indicativo presente («affogano», «crollano», «entra», «spazza») non raccontano una città oggettiva e autonoma dal soggetto, ma trasmettono un’idea di assolutezza e di irrimediabilità, di «certezza» e «urto», di un destino da interrogare e di una Grundfrage che vale sia per il rapporto tra l’io e ciò che Milano rappresenta, sia per il rapporto tra l’io e la sua intimità.

In Sereni e in Raboni Milano corrisponde all’ambiente descritto con attenzione oggettiva per le sue componenti senza selezioni tra l’aulico e il prosaico. In De Angelis coincide con l’interrogazione tragica dell’io che, in essa, sopravvive e si sviluppa. Forse solo nella Milano che fa da sfondo a testi come Una visita in fabbrica (1952-1958; poi in Gli strumenti umani, 1965) o La ragazza Carla (1960), si trova un’identificazione tra l’essenza del paesaggio e l’essenza degli individui che lo abitano, tra la fisionomia della città industriale e le dinamiche del mercato del lavoro. La struttura policentrica e pluristratica di questi due poemetti, con l’alternanza tra il dialogo e il narrato, tra momenti di azione e momenti di riflessione, inscena una rappresentazione della realtà industriale che fonde insieme i ritmi della metropoli e quelli di chi lavora. Una coincidenza da cui non si trova scampo e in cui il destino è affossato nel riconoscimento nichilistico che, negli ingranaggi dell’industria, pensare un destino possa significare solo rassegnarsi o alienarsi, con sentimento tragico come in Sereni, o con amara ironia come in Pagliarani:

E questo cielo contemporaneo
in alto, tira su la schiena, in alto ma non tanto
questo cielo colore di lamiera

……………….sulla piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa
……………….sopra tutti i tranvieri ai capolinea

non prolunga all’infinito
i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli
coperti di lamiera?

È nostro questo cielo d’acciaio che non finge
Eden e non concede smarrimenti,
è nostro ed è morale il cielo
che non promette scampo dalla terra,
proprio perché sulla terra non c’è
scampo da noi nella vita.

(Elio Pagliarani, La ragazza Carla, II, 2, vv. 27-40)[14]

Tuttavia, se c’è una Grundfrage nelle rappresentazioni della Milano industriale di Sereni, di Pagliarani o, anche, di Fortini, questa trova sì identificazione con le logiche del mercato del lavoro e degli ingranaggi neocapitalistici della produzione, ma non sempre con le logiche intrinseche della metropoli, che non necessariamente corrispondono sempre a quelle della fabbrica o dell’aziendalismo. Inoltre, nelle rappresentazioni della Milano industriale, la Grundfrage è caricata di un forte valore etico e di denuncia sociale, che è assente nella metropoli di De Angelis, o appare soltanto in sordina, come risvolto della ricerca esistenziale dominante. La Milano di De Angelis è un ciclo personale e sovrapersonale di distruzioni e resurrezioni, e si discosta dal nichilismo della sconfitta individuale, sociale e politica, provocato dalle leggi del mercato e dagli ingranaggi del neocapitalismo, come avviene – ad esempio – nel Fortini di Questo muro, ma anche nelle rappresentazioni della Milano postmoderna dei suoi ultimi libri come Paesaggio con serpente (1984).

3. L’identità tra la metropoli e la Grundfrage fa sì che la Milano di De Angelis divenga un teatro molto più vasto rispetto a quanto se ne può rappresentare nel singolo testo. Forse anche per questo le poesie sono spesso organizzate in sezioni dove si susseguono come schegge di un movimento policentrico; oppure non è raro trovarle sprovviste di una titolazione che le leghi a una volontà di racconto e di riflessione conclusi nello spazio del singolo testo, anche se solo per suggestione grafica. I libri di De Angelis hanno un carattere dinamico e una struttura essenzialmente aperta, portano con sé il passato e lo immettono in un’interrogazione conscia delle metamorfosi e del divenire della realtà, sono improntati a un senso di vertigine e di verticalità che dà un valore d’assoluto alla contemporaneità e alla cronaca, ma senza caricarlo di eroismo. Infatti, se l’io cerca di nominare le cose e le esperienze, e se attraverso questa ricerca riesce a captare un parallelismo tra la sua interrogazione e le logiche della metropoli, questo non significa che compia un’azione eroica, nell’accezione che è tradizionalmente attribuita al termine eroismo. Il tragico attuale, infatti, «non appartiene all’eroe, al protagonista del dramma obbligato a decidere, in un istante supremo di libertà, tra opposte necessità etiche, oppure a far coincidere in una sintesi di evento e decisione, libertà e necessità»[15]. Il tragico contemporaneo corrisponde al tentativo diseroicizzato di fronteggiare l’enigma della realtà senza lasciarsi sopraffare dal nichilismo, sapendo che nessun gesto univoco e nessuna razionalizzazione possono essere pensati e proposti eticamente per dare un senso ultimo all’esistenza. L’interrogazione tragica di De Angelis può essere letta, quindi, come un’indagine diseroicizzata sull’enigma della realtà, che cerca di «dare voce all’istanza E, alla “vita più che personale” (Deleuze) all’interno di un genere egocentrato come la lirica»: il che significa «“avvelenare i pozzi”, evocare un lettore non per consolarlo», o per prospettargli un principio assoluto, metafisico o dialettico, di interpretazione della vita, «ma per ri-dirgli la verità»[16], per comunicargli la tragicità e l’autenticità della sua esperienza in un mondo le cui interpretazioni si mescolano e si sovrappongono nel dominio di una liquidità generalizzata di percezioni, di politiche, di azioni, di idee. Forse anche per questo, la poesia di De Angelis, con il suo «loico furore» (Affinati), riesce a far da barriera contro il nichilismo, attraversando una Milano che si è lasciata alle spalle «il novecento della solitudine maestra» e «il paesaggio che fu di Sironi» per trasformarsi nel paesaggio di un’altra solitudine, caotica e sempre più disomogenea.


[1] Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, a cura di Isabella Vicentini, Milano, La Vita Felice, 2008, p. 55.

[2] Givone: «Una filosofia tragica e gioiosa. Ecco l’antidoto contro ogni nichilismo», intervista a cura di Silvia Calandrelli, «L’Unità», 30 giugno 1997. Si veda, inoltre, Milo De Angelis, Tragedia novecentesca, in Id., Poesia e destino, Bologna, Cappelli, 1982, pp. 41-42, e Sergio Givone, Storia del nulla, Bari, Laterza, 2006.

[3] Cfr. Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, cit., p. 44.

[4] Ivi, Un nome della via, in Id., Colloqui sulla poesia (DVD Video), a cura di Viviana Nicodemo e Stefano Massari, Milano, Book Time, 2009.

[5] Nicoletta Salomon, Intelligenza tragica, in Ermeneutica e pensiero tragico. Studi in onore di Sergio Givone, a cura di Claudio Ciancio, Fabrizio Desideri, Carlo Gentili, Raffaele Milani, Gianpiero Moretti, Federico Vercellone, Genova, Il Melangolo, 2004, p. 138.

[6] Claudio Ciancio, Il paradosso della verità, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999, p. 37.

[7] Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, cit., p. 38.

[8] Ivi, Secolo zero, in Colloqui sulla poesia (DVD Video), cit.

[9] Guido Mazzoni, Fortini. La legittimazione della poesia, in Id., Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, Milano, Marcos y Marcos, 2002, p. 195.

[10] Franco Fortini. Rabbie e speranze, in Renato Minore, La promessa della notte. Conversazioni con i poeti italiani, Roma, Donzelli, 2011, p. 62.

[11] Vittorio Sereni, Poesie, a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, 1995, p. 140.

[12] Giovanni Raboni, Tutte le poesie (1951-1998), Milano, Garzanti, 2000, p. 114.

[13] Milo De Angelis, Poesie, Introduzione di Eraldo Affinati, Milano, Mondadori, 2008, p. 244.

[14] Elio Pagliarani, Tutte le poesie (1946-2005), a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Garzanti, 2006, p. 137.

[15] Roberto Diodato, Il tragico della libertà, in Soggetto e libertà nella condizione postmoderna, a cura di Francesco Botturi, Milano, Vita e Pensiero, 2003, p. 238.

[16] Massimo Gezzi, Per un’apologia della lirica. Alcune approssimazioni, «L’Ulisse», 11, 2012, pp. 29-30.

[Immagine: Gabriele  Basilico,  Milano, Isola (1978) (gm)]

10 thoughts on “Metropoli e pensiero tragico. Su Milo De Angelis

  1. Non ho mai letto nulla di De Angelis, ma questo articolo mi fa venire voglia di correre ai ripari.
    Grazie Maria Borio.

  2. Quattro obiezioni veloci a questo saggio:
     
    1.
    Il poeta lirico puro gioca, consapevole o meno, su un equivoco, che a volte giova alla sua poesia  ma alla lunga la perde: che il mondo sia fatto a somiglianza della sua anima o del suo sentire.
    E la “realtà”?
    Che la poesia di De Angelis (e il sottostante pensiero) ruoti attorno al tragico e si sia alimentato della riflessione di  pensatori tragici è un dato accertabile nei suoi testi e nelle sue dichiarazioni. Ma che un critico (o la critica) debba seguire pari pari il poeta, come fa in questo saggio Maria Borio mi pare un errore.
    Perché,  a non dubitare un po’ di quel che un poeta afferma (il che non significa di per sé travisarlo o negare la poesia  se c’è…), si rischia di accettare anche  una certa estetizzazione del tragico.
    Dato che in partenza qui è escluso che si parli di «una città oggettiva e autonoma dal soggetto», quando leggo: «La Milano di De Angelis è una metropoli tragica perché incarna un’incessante interrogazione sull’enigma, una parola che non parte dalla realtà ma che alla realtà cerca di arrivare», da una parte mi dispongo a cogliere perché per De Angelis *Milano è una metropoli tragica*, dall’altra a confrontare la *sua* Milano con la *mia* (io vivo alla sua periferia) o quella vissuta e/o descritta da altri, per capire quantomeno le differenze  esistenti tra la sua (di De Angelis) percezione del tragico “milanese” e quella che ne ho io (o ne hanno altri).
     
    2. Borio scrive pure: «Tuttavia, se c’è una *Grundfrage* nelle rappresentazioni della Milano industriale di Sereni, di Pagliarani o, anche, di Fortini, questa trova sì identificazione con le logiche del mercato del lavoro e degli ingranaggi neocapitalistici della produzione, ma non sempre con le logiche intrinseche della metropoli, che non necessariamente corrispondono sempre a quelle della fabbrica o dell’aziendalismo.».
    Mi chiedo: e quali sarebbero queste  altre «logiche intrinseche della metropoli»  o « la natura profonda delle logiche metropolitane»  che non corrisponderebbero a quelle della fabbrica o dell’aziendalismo? Sarebbe bello chiarirlo e ragionarci su (tenendo, certo, sott’occhio i testi di De Angelis e magari anche le cosiddette rappresentazioni più “oggettive” della metropoli).
     
    3. Concordando, invece, sul punto in cui Borio scrive: «Inoltre, nelle rappresentazioni della Milano industriale [di Sereni, Pagliarani, Fortini], la *Grundfrage* è caricata di un forte valore etico e di denuncia sociale, che è assente nella metropoli di De Angelis, o appare soltanto in sordina, come risvolto della ricerca esistenziale dominante», mi chiedo come fa «la Milano di De Angelis [che] è un ciclo personale e sovrapersonale di distruzioni e resurrezioni» a discostarsi «dal nichilismo della sconfitta individuale, sociale e politica, provocato dalle leggi del mercato e dagli ingranaggi del neocapitalismo»? Anche questo nel saggio è affermato, ma non argomentato.
     
    4. Di conseguenza, quanto  è poi giustificato l’accostamento (ricorrente da parte di alcuni) della poesia di De Angelis a quella di Fortini; o, in questo caso, del « Fortini di Questo muro» o (delle, di Fortini) «rappresentazioni della Milano postmoderna dei suoi ultimi libri come Paesaggio con serpente(1984)»? Quanto cioè il «loico furore», che Affinati  vede negli scritti di De Angelis, è avvicinabile a  quello di Fortini, visto che il «forte valore etico e di denuncia sociale» (e io direi politica) della poesia di Fortini  ha – a meno di una mia totale incomprensione – sempre rifiutato il tragico (e non solo nelle sue « implicazioni metafisico-teologiche») ma anche la rappresentazione di un mondo ormai disincantato e in preda a una (heideggeriana) razionalizzazione tecnico-scientifica (Vedi, solo come esempio, «I Fratelli  Amorevoli» in «Insistenze» )?

  3. Gentile Ennio Abbate, la ringrazio moltissimo per la sua lettura accurata e per le sue osservazioni. Inizio a risponderle a partire dal primo punto.

    Lei parla di “poeta lirico puro”. Per me “lirica pura” significa poesia che procede per via alogica, che è autonoma dai referenti concreti (simbolismo, Mallarmé, ermetismo,…). Non so se lei con l’affermazione “poeta lirico puro” fa rifermento al fatto che De Angelis è stato spesso definito neo-ermetico o a “La parola innamorata”. Comunque, tra De Angelis e la lirica pura, o l’ermetismo storico (uso etichette, anche se non piacciono, per essere più sintetica), c’è un abisso.
    Detto questo, la ricchezza della lirica sta proprio nella capacità dell’autore di rappresentare, interpretare e ri-creare una realtà attraverso i suoi occhi e la sua sensibilità, e trasformarla in un “oggetto fatto di parole”, come diceva Montale: qualcosa che parte dalla realtà, ma che ha anche un’autonomia in sé. Come ogni opera d’arte, d’altronde. Quando ci troviamo di fronte a una poesia o a un’opera d’arte è ovvio cercare di trovare un circuito tra le nostre esperienze, la realtà esterna all’opera e la realtà dell’opera. Ma, secondo me, il centro resta l’opera (nella lirica, testo e autore vanno di pari passo), indipendentemente dal fatto che si condivida o meno il suo punto di vista o che il suo punto di vista sia ‘realista’. Nel mio saggio ho preso in esame il “tragico milanese” dalla prospettiva di De Angelis perché la poesia di De Angelis riesce a creare una rappresentazione lirica significante del rapporto tra metropoli e sentimento tragico. Non chiedo, con la mia lettura, di condividere il sentimento tragico di De Angelis e non intendo sostenere l’assolutezza della sua visione. Vorrei solo cercare di aprire una finestra… Lei fa notare che c’è il rischio di “estetizzare” il tragico. Non so. Il mio lavoro è partito dall’analisi dei testi. Dovrei forse scrivere un paragrafo in più in cui allargo la tematica…

  4. Gentile Maria Borio,
     
    le ho indirizzato le mie obiezioni in forma abbastanza problematica.  Non mi va di squalificare per partito preso un poeta con delle etichette, ma la  qualifica (a suo tempo) di De Angelis come poeta neo-orfico mi era parsa abbastanza calzante.  Se invece esiste, come lei scrive, un abisso tra De Angelis e l’ermetismo storico,   sarei pronto a riconoscerlo e a ricredermi. Basterebbe  argomentarlo. Converrà con me se dico che in questo «oggetto fatto di parole [che] «parte dalla realtà, ma che ha anche un’autonomia in sé», bisogna dare alla realtà-realtà quel che è della realtà e alla realtà dell’opera quello che ad essa spetta.
    Se il lettore e il poeta hanno della realtà-realtà un’idea del tutto piatta e stereotipata o troppo “intuitiva”(cioè spesso approssimativa), a me pare più facile che l’opera resti, sì, al centro,  ma col rischio che cancelli del tutto o sostituisca con eccessiva disinvoltura e superbia il suo sempre problematico (e inevitabile) legame  con la “realtà”.  Si avrà I nquesto caso un’apprezzabile “autonomia della poesia” (o ri-costruzione originale della “realtà” attraverso gli occhi e la sensibilità del poeta) o un “delirio lirico” (non dissimile da altri: scientifici, politici, ecc.), magari sintomatico dello “spirito del tempo” ma  incapace però di “mordere” la realtà o di aggiungere qualcosa in più a quel poco che crediamo di conoscerne?
    Per tornare a De Angelis, erano queste le preoccupazioni che ho fatto presente riguardo al *suo* tragico…

    P.s.
    Abate non Abbate…

  5. Acuto e originale questo saggio di Maria Borio. Oltre a darci preziose indicazioni sul mondo di De Angelis, getta una luce nuova su Milano: una Milano tutt’altro che illuminista o aziendale e anzi risucchiata nei suoi gorghi di solitudine e di morte.

  6. Caro Abate (mi scusi per la svista di ieri), rispondo al suo ultimo intervento prima di sviluppare il problema avanzato nel punto 2 del suo primo commento. 1) Neo-orfismo. Tra l’ermetismo-simbolismo storico e De Angelis c’è un abisso: si tratta di approcci diversi, non basta l’uso di analogie e metafore per giustificarne l’identità. La poesia di De Angelis è intessuta di percezioni visionarie, ma queste sono profondamente radicate nel vissuto, nell’esperienza reale dell’autore e in una trama ‘plausibile’. Il testo “T. S.”, ad esempio, si muove tra le percezioni fisiche e le visioni, ma la base resta il racconto di un tentato suicidio che non ha nulla a che vedere con i circuiti verbali puramente alogici o archetipici del simbolismo. E’ riduttivo dire che De Angelis sia neo-orfico perchè fa ricorso a meccanismi di visione e analogia: se vogliamo usare la parola ‘orfico’ per descrivere le situazioni visionarie di De Angelis, può andar bene, ma specificando – come fa lui stesso: http://quattrocentoquattro.com/tag/milo-de-angelis/ – che si tratta di un “orfismo metropolitano, sfregiato dai linguaggi contemporanei e lontano da una poesia di archetipi”. 2) La realtà e la letteratura. La sua seconda osservazione mi ha fatto venire in mente l’antologia “Poesie e realtà” di Majorino. E’ una questione delicata, perchè implica, in fondo, un giudizio teorico su come leggere e interpretare la poesia e su quale dovrebbe essere la funzione della poesia e della letteratura, che non so se sono in grado di dare. Ieri ho espresso la mia opinione riguardo a ciò che, secondo me, dovrebbe essere il primo approccio di fronte a un testo: mettersi nella condizione di ascolto, cercare di capire la vita che rappresenta e il suo messaggio. Ogni poesia, ogni romanzo, ogni opera d’arte ha qualcosa di ‘irreale’ (che va sempre al di là della pura cronaca o dell’informazione: non mi fraintenda, però…). A questo punto, per “mordere la realtà” (come lei dice benissimo), si dovrebbe forse mettere a confronto più autori, più opere e cercare di elaborare un giudizio a partire da un confronto dialettico…
    Più tardi le rispondo sul punto 2 del suo primo commento di ieri.

  7. @ Ennio Abate @ Nicola Borletti

    La questione che Abate solleva al punto 2 del suo primo commento è molto interessante. Mi trovo d’accordo con la sua obiezione perché nel saggio ho forse affrontato il tema troppo velocemente. Con “logiche intrinseche della metropoli” e “natura profonda delle logiche metropolitane” faccio riferimento alla metropoli come paesaggio-spazio esistenziale e psicologico, che non può essere giustificato soltanto con il riferimento all’aziendalismo. Questo spazio è diverso da quello della Ragazza Carla di Pagliarani, solo per fare un esempio, in cui tutto è funzionale a descrivere il mondo del lavoro. De Angelis ci racconta una Milano in cui l’io si muove “tra gli altiforni e il capogiro”, in cui le presenze legate al mondo dell’industria e del lavoro appaiono anche autonome rispetto agli ingranaggi del capitalismo. Lo ha fatto notare Nicola Borletti nel suo commento. Un esempio su tutti è l’Oceano intorno a Milano in “Biografia sommaria”, dove la periferia milanese è raccontata come una scoperta di apparizioni e agnizioni, tra le architetture e l’asfalto. Nella versione più lunga di questo saggio, che è uscita su” FuoriAsse” e che sta per uscire con alcuni ampliamenti nel prossimo numero di “Studinovecenteschi”, conduco un’analisi dettagliata della rappresentazione di Milano attraverso l’opera di De Angelis. In “Tema dell’addio”, ricordando Giovanna Sicari, la metropoli diviene un teatro elegiaco e le logiche metropolitane sembrano assimilate a quelle del rapporto d’amore.

  8. Lo scritto di Maria Borio attraversa in diagonale diverse esperienze di poesia metropolitana e le mette a confronto, a partire dall’opera di Milo De Angelis. Lo fa con un’ intelligenza e una sicurezza rare in una studiosa così giovane. Complimenti. E tuttavia, a mio modesto avviso, si potevano sottolineare ancora più nettamente le divergenze tra questi poeti, che sono dei mondi a sé stanti, spesso in conflitto tra di loro. Elio Pagliarani viene dagli scapigliati, con qualche sfumatura futurista. La sua Ragazza Carla si aggira tra gli uffici e i linguaggi inseguita da una cinepresa permanente che non le dà tregua, la incalza, la riprende da ogni angolazione, ma non l’approfondisce mai: Pagliarani non ama l’indugio né l’introspezione né tantomeno le domande assolute. E’ molto lontano da De Angelis, pertanto, ma anche da Giovanni Raboni, così misurato e morale, erede del Manzoni, con una sua concezione degli umili e della pietà, con una sua idea di Storia e di laica Provvidenza, pronto a seguire con lo sguardo i tipi “un po’ speciali” in un cinema degli anni sessanta e a chiedersi “chi li caccia”. Raboni appartiene alla borghesia progressista e questo è l’unica cosa che lo imparenta con Vittorio Sereni e con Franco Fortini. Per il resto trionfano gli opposti. Fortini è brechtiano, ammonitorio, lontano dal tragico (in questo ha ragione Abate) e teso a evidenziare il nucleo politico di ogni gesto e di ogni pensiero. Anche lui sembra l’opposto di Milo De Angelis. Sereni ha un’inquietudine amara che potrebbe far pensare a qualche contatto con De Angelis. Ma solo in apparenza. Sereni rimane un poeta del suo tempo, un poeta che “vuole” strenuamente essere del suo tempo, lo insegue, lo pedina e lo giudica, lo visita in fabbrica o in azienda, lo interroga sui destini generali o sui grandi meccanismi sociali del dolore. E così anche lui finisce per essere molto distante, a mio parere, dall’idea verticale di tragico che la Borio individua con bravura in Milo De Angelis.

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