di Walter Siti
[Esce oggi in libreria, pubblicato da Nottetempo, Il realismo è l’impossibile, di Walter Siti – insieme “saggio sul realismo” e “bieca ammissione di poetica”. Ne presentiamo un breve estratto, ringraziando l’editore].
C’è un quadro che a lungo è stato considerato indecente e che poteva esser visto da pochi, velato da una tendina o addirittura dissimulato sotto un altro quadro: si intitola L’origine del mondo, misura quarantasei centimetri per cinquantacinque, è stato dipinto da Gustave Courbet nel 1866 e rappresenta una fica. Non proprio e non solo: rappresenta un corpo nudo di donna disteso su un letto, con le gambe divaricate e la fica in primo piano – una vestaglia bianca di lino tirata su fino ai seni e senza che se ne possano scorgere né le spalle né il volto. E’ un quadro di grande materia pittorica, minuziosissimo nei dettagli ma con qualcosa di rinascimentale e di classico nell’insieme. Dipinto per il diplomatico ottomano Khalil-Bey, ebbe varie vicende proprietarie fino ad essere acquistato nel 1955 da Jacques Lacan per la sua casa di campagna. Lì lo vide Picasso, sollevando una tela di Masson che lo copriva, e pare sia rimasto muto a lungo, mormorando soltanto “la realtà, è l’impossibile”.
Questo quadro è un buon esempio di oltranza e di audacia nel superare i limiti che il realismo si era imposto fino a quel momento in termini di rappresentazione del corpo e del sesso; eppure neanche qui siamo arrivati ai limiti estremi. Per riprodurre minuziosamente la fica, Courbet ha sentito il bisogno di decapitare la donna, non sapremo mai niente dei suoi occhi o del suo sorriso; si è cioè dovuto recludere in una casella di genere, in questo caso negli ‘inferni’ delle immagini pornografiche collezionate dai libertini. Solo molto dopo, coi nudi di Lucian Freud, con la letteratura da Miller a Philip Roth, o coi tentativi del ‘new porn’, si è cercato di superare la separazione degli stili per arrivare a un’integrazione dei minuziosi dettagli sessuali col resto del corpo e della vita.
Aveva ragione Picasso, inseguire la realtà nella sua informe infinitezza è un compito impossibile oltre che inesauribile: la descrizione di un semplice tavolo può occupare anche cento pagine, dipende dal livello di ingrandimento e dalla matematica dei frattali; pensiamo a cosa succede se vogliamo descrivere un’anima, o un’ascesa finanziaria, o una lite amorosa. La tendina che difendeva il quadro di Courbet (prima che lo Stato francese decidesse di esporlo spudoratamente, ma anche castrandolo di ogni forza trasgressiva, al Musée d’Orsay) può essere paragonata al famoso panno che sembrava difendere il trompe-l’oeil di Parrasio: la rappresentazione della realtà è efficace se sembra che nasconda sempre un altro strato della realtà – e si torna all’idea di un realismo perennemente neonato. Il maggior nemico del realismo, quello che ne determina gli sviluppi e le innovazioni linguistiche, è l’inevitabile destino di usura a cui sono sottoposte le sue invenzioni: ogni scandalo diventa presto maniera, l’illusione di realtà è un avvicinamento asintotico che ha come residuo ineliminabile (un epsilon piccolo a piacere) proprio l’ingombro del reale. Se finalmente raggiunta, la realtà-realtà risulta poco credibile dal punto di vista dell’arte; un aneddoto forse spurio ma ben trovato tramanda che il pubblico abbia mugugnato “stasera è morto male” alla fine dell’ultima recita del Malato immaginario, quando Molière ebbe davvero lo sbocco di sangue che lo condusse a morire poche ore dopo.
Mi è stato chiesto tante volte (se posso citare per un attimo il mio piccolo caso personale) perché ci tengo, nei miei romanzi e nelle loro glosse paratestuali, a dichiarare che un episodio è veramente accaduto e che un altro invece è frutto di menzogna; che ce ne importa, mi dicono certi lettori intelligenti, se quel che racconti l’hai veramente vissuto o no, l’importante è che appaia verosimile. La risposta a questa domanda così semplice e sensata comporta un discorso un po’ articolato intorno al concetto di verosimile – che è stato, fin dai tempi di Aristotele, il criterio per distinguere le narrazioni fittizie dalle narrazioni storiche.
Perché, avendo a disposizione millenni di storia e decenni di cronaca, un narratore sente il bisogno di inventarsi una storia in più, una storia che non è mai accaduta ma sarebbe potuta accadere ? Perché questa storia fittizia, per qualche causa oscura, è più esemplare delle storie vere, contiene più significati in un rapporto più coerente e armonioso; perché può ammaestrare e far capire cose che giacciono nell’inconscio personale e collettivo; perché la realtà così alterata e messa in forma è più buffa, o più tragica, o più commovente di quanto la realtà nuda e cruda non sia stata mai. La narrazione fittizia ci offre un cosmo e non un caos, una realtà controllabile e finita, un fac-simile di realtà commisurato a quegli dèi minori che crediamo di essere nei nostri deliri di onnipotenza. L’universo alternativo della narrazione è composto da molti meno elementi dell’universo reale; il mondo rappresentato in un racconto fittizio è sempre il frutto di una selezione.
Il verosimile nasce da questa necessità di selezione: è il repertorio di tutte quelle parti di realtà a cui il lettore può credere senza inciampo perché assomigliano a cose che ha già sperimentato. Il verosimile è il regno del generale e del comune, contro ogni idiosincrasia e ogni pazzesca singolarità; man mano che in una cultura il verosimile si va definendo, finisce inevitabilmente per tagliar fuori le ali estreme, trovando nella media il proprio baricentro; “l’arte”, dice Chateaubriand nella prefazione a Atala, “non deve occuparsi dell’imitazione dei mostri”. Il verosimile ingaggia un’ambigua battaglia con l’ideale: gli eroi devono essere attraenti e dunque verosimilmente belli – dall’imitazione del vero si scivola inavvertitamente verso l’imitazione di un modello canonico, chi crederebbe all’amore tra un bellissimo masnadiero e un’impiegatuccia strabica coi denti storti ? Se la rappresentazione deve avere valore universale, tenderà a stilizzare; Platone si lamentava del realismo perché è una copia della copia, ma il verosimile sarà tentato di riportare l’albero dipinto verso la forma ideale dell’albero, potando malformazioni e rami secchi (tranne che per riferirsi a un altro archetipo, quello appunto dell’Albero Secco Malformato, per scopi simbolici). Il platonismo in arte insegnava a trascegliere i lati migliori di molti modelli per farne un unico oggetto di bellezza (come l’ape che da tanti fiori trae un unico miele); ma se l’Idea si spicciola nel mondo, il platonismo diventa vanità (ogni singolo rivendica di essere ideale) o dongiovannismo (collezionare bellezze non potendo possedere il Tutto). Si veda per esempio l’istruttivo passaggio dalla Follia delle donne di Frugoni al quasi-plagio che ne fa Da Ponte per il catalogo mozartiano. Quel che succede col fisico succede anche col morale: i cattivi sono generalmente brutti e i buoni belli, a meno che non si affermi lo stereotipo contrario, dell’Angelo Decaduto e della Bestia dal cuore d’oro. Se i lettori di romanzi appartengono in genere alla classe borghese e media, anche dal punto di vista dei comportamenti risulterà credibile e accettabile un paesaggio umano senza scarti scandalosi o ripugnanti – la sconcertante varietà e incoerenza dei caratteri realmente esistenti verrà stilizzata nella relativa fissità dei ‘tipi’: il generoso, il cinico, l’invidioso, l’ipocrita. Nel Seicento, data di nascita del romanzo moderno, la vraisemblance faceva tutt’uno con la bienséance.
Già ho accennato alla polemica che si accese in Francia intorno alla confessione della Principessa di Clèves; è il personaggio stesso a definire quel particolare della sua storia “non molto verosimile”. Contro il diluvio stereotipo dei ‘romances’, il nuovo (e più realistico) genere del ‘novel’ esordisce attestando la propria verità contro ogni verosimiglianza letteraria: le cose che raccontiamo sono vere proprio perché non appaiono verosimili. Realismo e verosimiglianza, in ultima analisi, si scoprono rivali. “Questo non è un romanzo” è il Leitmotiv dei romanzi dell’epoca; “se questo fosse un romanzo ora dovrebbe accadere la tal cosa, ma visto che non lo è accade tutt’altro”. Nell’ansia di qualificare le loro storie come ‘vere’ e non romanzesche (pane per il nuovo pubblico affamato di news), gli autori si mettono nei guai: Defoe, dopo aver assicurato che il suo Robinson era ispirato a un naufragio reale, dovette subire le contestazioni di Charles Gildon che gli fece notare fin troppe incongruenze e lo accusò di aver scritto “soltanto un romance”.
Ma ben prima del romanzo moderno l’usura della stilizzazione aveva provocato l’esigenza di buttare sul piatto l’autobiografia come garanzia inconfutabile di un’esperienza sconvolgente e innovativa; se alla fine del Duecento il diffondersi della poesia provenzale, coi suoi tòpoi e i suoi senhals, aveva creato un genere che puzzava di stereotipo, un giovane fiorentino chiamato Dante Alighieri, dovendo raccontare la morte della donna amata (e lodata alla maniera provenzale) ci tiene a nominarla nella Vita nuova col suo nome vero, Bice – e alla fine, parlando dei pellegrini che passano senza saperlo davanti alla casa dove lei è morta, insiste nelle precisazioni topografiche fino a indicare una strada della città che Marco Santagata ha identificato in via dei Bardi, dove effettivamente morì la vera Bice (o Beatrice) Portinari sposata a Simone dei Bardi. Nome e indirizzo, come trampolino per la Commedia. Viceversa, e complementarmente, dove il realismo mostra con più evidenza il bisogno di sganciarsi dalla realtà empirica è proprio nelle ‘storie vere’. Philip Roth impone a Patrimonio il sottotitolo Una storia vera e i personaggi conservano i nomi dell’anagrafe; oppone al “solito prevedibile sentimentalismo” della propria immaginazione lo “spietato realismo” e il “talento genuinamente anomalo” del padre, eleggendolo a suo maestro di narrazione (“è lui il bardo di Newark”); preferisce il particolare autentico e stridente al verosimile. Eppure, a forza di scegliere gli episodi “narrativamente giusti”, quel che ci regala alla fine è un percorso archetipo: il divoramento del Padre da parte dell’orda primitiva e il superamento di quel mito attraverso un mito ancora più profondo (quello del puer-senex e della divina androginia).
C’è evidentemente un’esigenza metastorica in chi si dedica al folle compito di dare senso al mondo con le parole: l’esigenza è quella di giocare col fuoco, o se si vuole a nascondino con la realtà – stuzzicandola per trarne scintille che la realtà non sa nemmeno di avere, copiandola per negarla, cercando di sfuggire alla sua insensatezza ma nella convinzione che non ci sia senso senza mondo, come la colomba si illude se pensa di volare più veloce senza la resistenza dell’aria. In questo gioco pericoloso si brucia l’equilibrato compromesso aristotelico: il verosimile va in frantumi, schiacciato tra i due estremi della verità e della menzogna.
[Immagine: Gustave Courbet, L’origine du monde (1866), particolare (gs)].
Se il verosimile aristotelico va in frantumi, resta quello che Novalis chiamava il Vero. Alcuni poeti venuti dopo di lui hanno avuto la pretesa di seguirlo, e hanno in effetti travalicato ogni tipo di realismo, hanno parlato in bruciante contatto con le cose (mi viene in mente il nome di questo sito). La poesia resta fuori dalla morsa verità/menzogna? E’ la poesia – assieme alla musica – il varco che abbiamo a disposizione per andare al di là, per “evadere” o addirittura per “invadere”?
ps: alcune sperimentazioni romanzesche estreme – Joyce, Rulfo, Broch – (inter)rompono il cortocircuito verità/menzogna. O no? Forse la soluzione sta in un’iperconsapevolezza che diventa ipoconsapevolezza, ovvero in una sofisticatissima rozzezza che arriva, liberatasi da ogni teoria, a toccare la semplicità, il puro fondo delle cose. O no?
La realtà, la verità sono sempre costruzioni umane. La realtà, la verità non fanno parte, concettualmente, del reale, del vero. “Verità” e “menzogna” sono paletti anch’essi, costruiti per dare un senso al “costruttore”.
Interessante articolo. La scrittura però dovrebbe smetterla di giocare a schierarsi, da una parte o dall’altra. Ci sono cose che debbono essere dette, come, quanto simili o dissimili dal reale, non ha importanza. Ciò che deve essere detto, deve iniziare a essere detto partendo dal più semplice degli assunti: tutto è finto, tutto è gioco, tutto è rappresentazione. Distruggendo se stessa (impossibile?), sarà utile, non reale. Reale mai.
mica che pensi di aggiungere qualcosa di nuovo, ma:
http://www.artsblog.it/post/26317/lorigine-del-mondo-di-courbet-ritrova-la-sua-testa
questo taglia la testa anche alle discussioni sul reale il nonreale l’irreale l’oltrereale: il reale è st’impudica tristezza decollata…
@Anonimo
Ammesso (e assolutamente non concesso) che quella testa appartenga a quel corpo, non le suggerisce nulla il fatto che Courbet (o chi per lui) l’abbia tagliata via?
Wow. C’è tutto. Ne propongo la lettura obbligatoria a scuola, per far capire il realismo, il romanzo dell’800, il romanzo tout court.
Da leggersi, però, PRIMA di sciorinare stancamente e il romanzo sperimentale, e i Goncourt, e Darwin e Taine, e che Zola prima di descriverti una miniera ci scendeva e prendeva appunti, e la coralità dei Malavoglia, ….
Prima, perché categorie forti come quelle proposte da Siti (tensione tra rappresentazione realistica e idealizzazione, e tra verità e menzogna, condanna eterna della letteratura ad essere solo una forma di stilizzazione, …) intesserebbero quelle nozioni in una trama di senso. E senza prospettive e fondali di senso, nessuno studente può capire perché diavolo il narratore verghiano si faccia da parte e cerchi di far parlare da sé la comunità: l’artificio della regressione resta appunto un artificio, un trucco stilistico e niente di più, quando è invece il mezzo per provare a raggiungere l’atemporalità di una parola mitica che si dice da sé.
Poi: tutto ciò potrebbe essere produttivamente applicato anche alle forme di rappresentazione della civiltà delle immagini (di cui infatti Siti si occupa). Ecco un bel collegamento “interdisciplinare” fondato non sul nulla della sciatteria, ma su categorie di enorme forza esplicativa.
@Pablo Picasso
probabilmente non sono stato chiaro ma con “impudica tristezza decollata” mi riferivo alla testa itinerante, non al quadro come conosciuto fin’ora.
quanto al suggerirmi, mi suggerisce infinite cose, e sono assolutamente certo che l’opera sia superiore senza l’inutile appendice (di nuovo la testa), ma tornando alla questione del reale – e del reale storico: “ammesso (e assolutamente non concesso) ecc. ecc.” motivi per cui possa essere andata persa senza una precisa volontà dietro posso comunque immaginarmene parecchi.
ecco; a correggere l’alzo della (mia) sparata di sopra
Le parole sono idee: quello che si è visto dopo che una scintilla sensibile è scoccata , unione che non si scinde: è la realtà mediana che dà corpo alle parole che , come sbandate ragazze senza scarpe nel mattino dopo capodanno, stanno in piedi se si abbracciano al vedere che le sostiene: per scardinare accoppiamenti che sono menzogne cieche, anche se reali.
Leggere l’intero testo di Siti prima di commentarlo no?
@ Nives
potresti tradurre?
sono un appassionato della “realtà mediana”, ma non ho ancora capito di che si tratta e con cosa ho a che fare
@ f.
è un po’ che provo a tradurre: intanto mi è piaciuto ” Resistere non serve a niente “, mi ha fatto pensare e leggerò attentamente quindi anche questa riflessione di Walter Siti; le sue parole mi sembrava avessero diritto di cittadinanza nella realtà, fossero urgenti. La sintassi che lega le parole nel discorso ha a che fare con la capacità di vedere di chi scrive:lo sguardo viene prima di tutto. Vedere quella realtà mediana che sta tra le parole e le cose, quella è la dimensione della letteratura, diversa per ciascun scrittore , fatta di intenzioni e di forme del volere, ancora prima che di atti e materie reali, credo.
Ho letto stanotte il libro di Siti. Una scrittura di seta, una sintesi serrata e sprigionante suggestioni. Risponde (fra l’altro) alle domande che avevo posto nel mio primissimo commento – in special modo menzionando Novalis e compagnia a partire dal verosimile aristotelico eccetera eccetera.
Una cosa domanderei a Siti. Dal saggio appar chiaro che per lui TUTTA la letteratura d’immaginazione seria (e cioè tesa a esplorare il lato oscuro di quella cosa impossibile che chiamiamo realtà) è realistica TRANNE il fantasy, la fantascienza e l’horror. A pag. 39, prima d’analizzare Giro di vite di Henry James, egli scrive: “L’estrema soglia a cui il realismo si può spingere (prima di abdicare di fronte al soprannaturale e al fantasy) è l’indecidibilità dei due livelli quale si esprime nel fantastico.” Ma parlando lui diffusamente nel saggio di – per esempio – Dante e Kafka come scrittori realisti, anzi come realisti “mistici” (a mio avviso con perfetta ragione), non capisco dove situi questo “soprannaturale” o “fantasy”; al di là del nero misticismo kafkiano? Cioè Dante e Kafka secondo Siti non sconfinano nel soprannaturale? E in tal caso che differenza c’è fra soprannaturale e fantastico? Il soprannaturale è una sottomarca del fantastico? Oppure (come a me pare) i due generi sconfinano impercettibilmente l’uno nell’altro, fino a renderne ardua una distinzione certa, specie quando il crogiolo immaginativo d’un autore è particolarmente rovente? Non vorrei sollevare questioni di lana caprina… Ad esempio non v’è scrittore più “fantastico” (o “soprannaturale”) di Stephen King. Eppure Stephen King adotta uno stile estremamente realistico, talora ossessivamente, flaubertianamente attento al dettaglio – sul tema del dettaglio Siti si dilunga con mirabile gusto del…dettaglio. E allora dove si colloca King? E’ forse una questione di “establishment letterario” che impedisce a Siti d’accogliere nel suo pur vasto discorso autori cosiddetti “di genere” come King, Dick, Lansdale, Poe, molti altri che con acuto, dolente realismo ci parlano dell’irreale (del reale impossibile)? Detto altrimenti: perché le storie di Kafka rientrano nell’alveo del fantastico ma non in quello del soprannaturale?
Ho trovato poi interessantissime le ultime dieci pagine, un rapido volo d’uccello sul dibattito critico, esageratamente fervido, attorno al realismo. Siti la chiude qui: il realismo, dice lui proprio alla fine, è uno sporgersi – uno dei verbi preferiti, guarda caso, dal più grande e meno e più realista poeta del Novecento: Paul Celan. Sarebbe a dire: ciò che è realista e ciò che non lo è non lo decidono le categorie ermeneutiche, ma le opere che quelle categorie sono sempre costrette a rincorrere. Per fortuna.
grazie, Nives, adesso mi è tutto più chiaro
Non si aggiunge che il dipinto è stato comprato da Jung che l’ha tenuto nascosto tutta la vita. Comunque, oltre l’aneddoto, colpisce che la discussione sul verosimile oggi, discussione che riguarda non solo la forma racconto/romanzo ma anche l’uso pubblico della storia veda del tutto assenti gli storici. Vabè io intanto ci sono
Ho letto anch’io il libro di Siti. 80 paginette, che si possono divorare in mezzo pomeriggio, ma su cui prima o poi si dovrà tornare, tanto sono tese, fitte di stimoli per la riflessione che non possono sedimentarsi tutti d’emblé.
Così, in forma sparsa e ancora preda di suggestioni poco meditate:
1) d’accordo con Macioci, realismo è per Siti categoria amplissima, direi che ci rientra ogni forma d’arte che sia mossa da eros e conoscenza, arte d’effrazione, mai composta. Dunque il suo realismo è certamente una forma di anticlassicismo (vedi le riflessioni polemiche sull’idea di realismo come mimesis, pp. 12 sgg.), essendo la via percorsa da uno streben eternamente insoddisfatto verso la meta lontantanantesi all’infinito della realtà;
2) straordinario, suggestivo, ricchissimo e fecondo è quanto si dice sullo straniamento, che è sì novità, superamento delle stereotipie della rappresentazione, dei codici abituali e rassicuranti, ma che dev’essere antiintellettualistico, cioè mirare a una sorpresa che catturi il lettore, che gli consenta una profonda immedesimazione e identificazione (strategia, quest’ultima, nettamente riabilitata), non un distacco critico dalla materia (in implicita polemica, evidentemente, con alcune poetiche novecentesche);
3) vista la concezione di realismo di Siti, vista soprattutto l’idea che ogni generazione successiva di realisti deve superare quella precedente, percorrendo l’asintoto che conduce alla realtà, visto il citare Nabokov (bisogna superare il “rozzo compromesso dei sensi”, la realtà è conosciuta più o meno in profondità sulla base di “differenti livelli di informazione”), mi aspettavo quasi naturalmente una menzione di Gadda, che, come ha visto bene Roscioni, è un nipotino di Zola, non di Rabelais, e che oltrepassa il naturalismo ottocentesco proprio lungo la direttrice dell’avvicinamento al dettaglio ossessivamente perseguito, della tensione conoscitiva, della lotta dell’autore per strappare al linguaggio, che tende per sua natura a sclerotizzarsi in abitudini coattive, un di più di verità.
Pazienza, per quanto mi riguarda, l’ho già assoldato fra le fila degli scrittori realisti “à la Siti”.