di Francesco de Cristofaro
[Pubblichiamo una versione ridotta del saggio conclusivo del volume Delle coincidenze, a cura di Francesco de Cristofaro e Chiara De Caprio, uscito in questi giorni per i tipi di Ad est dell’equatore: in esso sono ospitati i risultati del primo “Opificio di letteratura reale”, svoltosi a Napoli nella primavera scorsa. La seconda stagione di Opificio, dedicata a “Le attese”, debutterà venerdì prossimo]
1. C’è un oggetto – un po’ feticcio, un po’ simbolo, un po’ MacGuffin, un po’ «metafora assoluta» – di cui è tempo di provare a inseguire le evoluzioni, i rilanci, le carambole attraverso i piani coincidenti del nostro immaginario. Questa cosa viene da molto lontano, almeno dalla filosofia presocratica; ma se per Parmenide poteva rappresentare la perfezione dell’essere, due millenni e mezzo più tardi Hans-Georg Gadamer (selezionando come epigrafe del suo capolavoro la lirica rilkiana Der Ball) ne avrebbe piuttosto ravvisato le crepe. Nelle finzioni occidentali del secolo scorso, la palla ruzzola qua e là, dall’enigmatico epilogo di Blow-up di Antonioni a tante scene-madri di Underworld di DeLillo, del quale costituisce insieme l’antefatto, il prosaico totem, il fondamentale modulo compositivo; ma essa aveva cominciato a fendere l’aria già dall’epica antica, segnando poi, nei passaggi e nelle impasses del moderno, entro la figuralità profondamente «mitologica» che lo contraddistingue, il match point delle narrazioni, di ogni specie e di ogni tecnica.
2. Conviene prendere le mosse, ancora una volta, dalle condensa-zioni del mito. È stato Franco Farinelli, in un libro che non per caso si chiama Geografia ed è ospitato in una collana intitolata Filosofia, a insegnarci come il tronco d’ulivo, il legno storto dell’umanità, sia anche il differenziale della cultura rispetto alla natura; ci ha spiegato che il logos alligna nel mythos, e che ogni volta che prendiamo un compasso noi siamo Ulisse che ha appena accecato Polifemo, facendo friggere il perimetro dell’occhio del Ciclope, e ardere il suo centro; ed è così che rendiamo piano e squadrato ciò che era tridimensionale, trasformiamo in modello di mondo ciò che era, ed è, mondo.
Ma esiste forse una ‘copertina’ ancora più precisa per questo ragionamento, ed è un affresco monocromo di un allievo di Mantegna di fine ’400: vi è rappresentata una figura femminile dai piedi alati, calva ma col volto coperto da un lungo ciuffo di capelli e precariamente poggiata con un’unica gamba su una sfera in una posa dinamica e in atto di sfuggire alla presa di un giovane trattenuto o accolto da una donna più anziana, posta alle sue spalle in piedi su una pedana, dall’atteggiamento mesto e fermo. L’opera ha dato luogo a varie interpretazioni, ma la più famosa è quella di Warburg, che vi ravvisò l’illustrazione della ausoniana Occasio-Kairós (o káiros, termine in origine semi-identico nell’accentazione e nel senso, come notò Onians). L’occasione, cioè, in instabile e fuggevole equilibrio sopra una sfera: e il fatto che nell’emblematologia di Alciato questa sia sostituita da una ruota o da un rasoio di forma tonda non fa che rafforzare l’idea, diffusamente attestata fino ai nostri giorni, di una congenita, irriducibile sfericità dell’esperienza, di una sua non-linearità che risulta costituibile solo in quella forma. Forse quella sfera è la terra, e gli uomini giocano con la palla perché la palla è la terra.
Difficile non andare con la mente alla seconda delle Operette morali di Giacomo Leopardi, il brioso Dialogo d’Ercole e di Atlante. La storia: Ercole, incaricato da Giove, si presenta, a sostituirlo per qualche ora, ad Atlante reggitore del mondo, il quale replica tuttavia che il mondo è divenuto così leggero che il mantello che porta gli pesa di più. Ercole, fattane la prova, dice che esso gli è sembrato vuoto e spento, come un orologio privo di molle. «Il meglio sarà ch’io posi la clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla con questa sferuzza». Cioè, gli propone di giocare a palla col mondo. Poi lo provoca a colpirla con la clava per vedere che cosa succede, ma sopraggiunge il timore che la crosta terrestre possa rompersi come un uovo o che il colpo possa schiacciare e uccidere tutti gli uomini all’istante. Siamo davvero sulla traiettoria che da Luciano conduce alla metafisica paradossale di Leone Gala, nel pirandelliano Il giuoco delle parti. La palla, osserva Ercole, è divenuta quasi «una pagnotta» e quindi rotola così male che gli pare che zoppichi. Atlante incita a darle «una gonfiatina» perché, a colpirla di pugno o di bracciale dentato, ha la sensibilità «d’un melone». E infatti la palla cade (e ogni caduta è, naturalmente, caso, accadimento, occasione, coincidenza). Di qui lo sfogo patetico di Ercole: «Ohimè, poverina, come stai?» dice alla derelitta palla, pullulante di uomini occupati a dormire come e più di prima. Insomma, la madre Terra ha avuto, nell’ordine, i seguenti appellativi: ciondolo attaccato a un pelo della barba; pagnotta; orologio fracassato; sferuzza; melone; uovo. Soprattutto, Leopardi ha umorosamente inventato il baseball olimpico: e una prima, bizzarra concomitanza che ci conse-gnano i documenti della storia materiale statunitense è che lo sport in questione nasce giusto in quegli anni ’20 dell’Ottocento. Certo, pensare che Leopardi ne sapesse qualcosa è semplicemente una sciocchezza; ancora più ozioso accordare alla cosa qualche rilievo, per così dire, epocale, di «spirito del tempo». Forse, la coincidenza ci sussurra qualcosa su come dobbiamo, e come non dobbiamo, lavorare.
3. Nuovo Continente, 1951: sul nostro prossimo tabliau campeggia un autore-simbolo, Jerome D. Salinger; e un titolo ambiguo e risonante, pur-troppo abraso e opacizzato dalla versione italiana che recita, come è ben noto, Il giovane Holden. Basta però andare a pagina due per imbattersi in una complicata nota filologica a firma della traduttrice, dove viene spiegato come l’originale The Catcher in the Rye nasca dalla storpiatura di un verso d’una poesia di Robert Burns: il protagonista la compie invo-lontariamente in uno dei passaggi più importanti del romanzo allorché, interrogato dalla sorella su cosa voglia veramente fare da grande, replica, ispirandosi alla scena evocata da Burns, «colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burro-ne, mentre giocano in un campo di segale». L’espressione è formata da termini dell’inglese cor-rente: se rye è forma brachilogica per rye whiskey (distillato alcoolico composto per almeno la sua metà di segale), catcher indica soprattutto il prenditore, come ruolo nelle squadre di baseball.
The Catcher in the Rye ha una data di pubblicazione significativa, e questa data è il 1951. Per caso o no, proprio in quell’anno è ambientato un testo-cardine dell’immaginario postmoderno, Underworld di Don DeLillo: romanzo famo-sissimo, graziato da un successo planetario; romanzo eccentrico, tortuoso, che qualcuno ha defi-nito «epico» o «massimalista» («una fluviale epopea dell’immaterialità, affollata di eventi labili, fluidi e scorrevoli, che si intersecano per poi tornare sistematicamente, nell’arco di circa cin-quant’anni, a dividersi»: così Arturo Mazzarella nel saggio conclusivo del suo La grande re-te della scrittura, a cui la presente nota deve molto). La vicenda si apre, appunto, il 3 otto-bre 1951, quando un ragazzino nero riesce ad entrare di soppiatto nello stadio (il Polo Grounds di New York) in cui si sta giocando la mitica partita di baseball tra i New York Giants e i Brooklyn Dodgers. Nel nono inning della partita, il battitore Bobby Thomson effettua un me-morabile fuoricampo, dando la vittoria ai Giants, che conquistano così il campionato. Che fine fa la pallina? Nella realtà non si sa, ma nella finzione romanzesca il ragazzino riesce a impadronirsi del cimelio. In questo romanzo che inizia nel 1951, il catcher è proprio il ragazzino che ghermisce la palla, mentre in quell’altro testo dello stesso anno Holden-ragazzino dice di voler acchiappare un altri ragazzino per salvarlo. Ma di là da questa meta-partita di baseball tra Salinger e DeLillo (e tra i loro giovanissimi eroi), su cui la critica tace, c’è qualcos’altro di cui vale la pena di parlare, ed è il significato della palla: che, come è noto, passa, lungo le centinaia di pagine del romanzo, di mano in mano, e fa da fil rouge per la costruzione di un gigantesco, retrogrado affresco dell’America dall’inizio della Guerra Fredda fino agli anni Novanta. Vale la pena di provare ad ascoltare la voce del protagonista:
Bisogna conoscerla, la sensazione di una palla da baseball nella mano, bisogna tornare un po’ indietro, collegare molte cose, prima di riuscire a capire perché si possa stare seduti in poltrona alle quattro del mattino con in mano un oggetto del genere, e stringerlo – il modo rassicurante in cui aderisce al palmo, il centro di sughero che la rende leggera, e le zone ruvide di una palla vecchia, la pelle segnata, il piacere con cui il pollice strofina pigramente il cuoio liso. Una palla da baseball la si strizza. La si spreme, per così dire, o la si munge […] E la sensazione delle cuciture in rilievo sulla punta delle dita, contorni di filo simili a dossi sotto le articolazioni delle nocche – il cotone ritorto che può essere visto come un’impronta di pollice ingigantita, un ingrandimento delle spirali sul polpastrello del tuo pollice. La palla era color seppia intenso, impastata di terra, erba e generazioni di sudore – era vecchia, sbattuta, pesta, intrisa di saliva al tabacco e macchiata dal tempo e dalle vite che aveva alle spalle, chiazzata dalle intemperie e personalizzata come una casa in riva al mare. E aveva una striatura verde vicino al marchio di fabbrica Spalding, aveva ancora un piccolo livido verde nel punto in cui era andata a sbattere contro un pilone, secondo la storia che l’accompagnava – vernice scrostata di un pilone imbullonato nelle tribune dell’area sinistra incorporata sulla superficie della palla.
È del tutto evidente che questa pallina dall’immane portato simbolico e, come dire, cosmologico-mitopoietico è anche un oggetto che dona piacere tattile, quasi feticistico (e infatti è posta a suggello di un importante volume sui Feticci di Massimo Fusillo); e soprattutto che può risvegliare tracce mnestiche, catalizzando corrispondenze fra passato e presente. Lo dice lo stesso DeLillo, poco più oltre: «La mano che estrapola dalla palla da baseball ricordi che non hanno niente a che vedere con le partite abituali». Ma, ecco il punto, non si tratta di una madeleine; non è né un oggetto transazionale o, per così dire, transustanziazionale, risvegliatore di Erlebnis, né un «correlativo oggettivo» attivatore di circoli magici o di déjà-vu, bensì è un concentrato di storia, è un elemento che rapprende proprio nella sua materia, nella sua cosalità, stratificazioni temporali d’un vissuto di cui porta addirittura i lividi (o, se si preferisce, le «rughe delle cose» di cui ha scritto Remo Bodei); un vissuto che, appunto, può essere estrapolato. La storia dell’oggetto, alla lettera, coincide con l’oggetto; non ne è l’occasione. E così, cadendo l’oggetto, cade il deposito delle vite che sono accadute a contatto con esso.
Proviamo a vedere meglio, rifacendoci ad alcune intuizioni che si-gillano un bel libro sul realismo di Federico Bertoni. «C’è qualcosa nella scrittura di DeLillo, che spezza la circolarità semiotica di un mondo prigioniero dei segni e delle rappresentazioni di se stesso. Perché a dispetto di ogni dubbio, inganno, mascherata simbolica o inversione ontologica, la realtà esiste: esiste da qualche parte, anche se avvolta in una ragnatela di immagini, codici, informazioni; ed esiste come una cosa perduta, scomparsa, verso cui tendere e lottare, qualcosa che si porge oltre il bordo estremo dell’oblio e del non detto e che tocca solo alla scrittura (ri)conquistare». In Underworld, insomma, si dà una specie di struggimento verso il simulacro: i personaggi si dicono spesso che l’origine è perduta, e a loro non restano che gli ologrammi, le tracce virtuali di un’aura che fu. Non è un caso che, prima ancora che il bambino prenda la palla, uno dei narratori-beniamino di DeLillo, il telecronista Hodges, si diverta a inventare, proprio come i malati di mente cronici di Qualcuno volò sul nido del cuculo, partite fantasma: salvo poi tentare di, come dire, inverarle spostando l’attenzione sugli spalti, «inventando un ragazzino che cerca di acchiappare una foul ball, un pel-di-carota con tanto di ciuffo (che sfacciato, eh?) che recupera la palla […] una palla ricordo, una cosa a suo modo inestimabile, una cosa che sembra ricapitolare l’intera storia del gioco ogni volta che viene lanciata o colpita o toccata». Una palla-mondo, insomma, la cui funzione cardinale è, nientedimeno, fare di alcune parole messe in fila altrettante cose.
4. Simulacri e palline; parole e cose. Quasi automatico, per noi, rimbalzare a nostra volta, come la foul ball recuperata fortuitamente da quei catchers mocciosetti, tre lustri dopo quel fatidico 1951. Dal Nuovo Continente ci spostiamo allora in Europa, e scopriamo un’altra sincronicità (l’ultima, per questa volta) malnota quanto folgorante: al di qua e al di là delle Alpi un grande filosofo e un grande cineasta, Michel Foucault e Michelangelo Antonioni, pungolati da altrettante “narrazioni filosofiche” latinoameri-cane (Borges il primo, Cortázar il secondo), per la prima volta pensano radicalmente, anzi rendono pensabile, quel rapporto fra le parole e le cose che ossessionerà la cultura nei decenni a venire. È il 1966 quando escono, all’unisono, Les mots et le choses e Blow-up. Credo di poter dare per acquisita la frattura epistemologica di cui parla Foucault; mi interessa maggiormente ricordare che Blow-up è, tra le tante altre cose, un’inchiesta sullo statuto della realtà; e che questa inchiesta viene condotta soprattutto attraverso il medium della fotografia, una fotografia che, proprio come nel modello cortazariano, è ragnatela di bave più che reticolo di linee: da un lato, essa cattura il soggetto che la realizza più ancora del suo oggetto; dall’altro, essa conserva sulla pellicola molte più cose di quelle visibili all’occhio umano («sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra una altra ancora, e di un nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà», aveva scritto Antonioni in Sei film). Ma Blow-up ragiona sull’incrinatura fra le parole e le cose anche grazie a un’altra sequenza, allegorica e indecidibile: alludo al finale, in cui torna quella compagnia di giovani mimi che avevano aperto la pellicola, e inscena una partita di tennis senza pallina. Il protagonista del film, che sta facendo esperienza della drammatica non-coincidenza fra il piano di immanenza e quello della rappresentazione, assiste dapprima esterre-fatto a quel surreale «gioco di verità», ma poi vi aderisce. Perché la pallina paradossale, il centro assente dell’inquadratura, è proprio come quel cadavere che lui non sa se sia mai esistito o me-no; la pallina c’è e non c’è, e nel lanciarla con forza nell’aria il fotografo sposa la logica della fin-zione invece che quella della documentazione, la pantomima invece della mimesi.
5. Cambiamo ancora paesaggio. Proviamo a vedere come una pal-lina possa essere il simbolo non tanto di una gnoseologia, quanto di un paradigma scientifico e, conseguentemente, narratologico. In quest’altra imagery la pallina non sarà tanto il mondo, quanto il suo stesso principio di struttura, l’unità atomica, l’ente che lo abita e lo agita; il mondo, a sua volta, è uno spettro di variazioni e di tensioni, in forma di campo di tennis o di (magari labirintico) flipper.
Un ulteriore esempio cinematografico servirà a chiarire che cosa si intende dire. È un film in cui una partita di tennis non solo viene giocata davvero, ma costituisce il paradigma dell’esistenza, della sua fortuna, delle sue coincidenze (nel senso di “contingenze decisive”) ingovernabili. «Ci sono momenti, in una partita di tennis, in cui la palla colpisce la parte alta della rete e per una frazione di secondo non sappiamo se la supererà o se cadrà indietro. Con un pizzico di fortuna, la palla supera la rete e vinciamo la partita, ma senza fortuna ricadrà indietro e perderemo». In Match point la pallina sembra esser tornata a quella funzione mitica e plastica, di allegoria del tempo e del caso, che avevamo visto all’opera nel dipinto di Occasio – e che se vogliamo rivivrà, molto dopo, in una piuma di Forrest Gump, o in una busta di plastica di American Beauty. Dalla sua consistenza inafferrabile, capricciosa, scivolosa è ricattata la metastabilità delle umane sorti.
Di palline di tennis è pieno il Novecento, anche perché un secolo fa la teoria dei quanti ha insegnato a pensare la «trama della realtà» come un circuito attraversato da forze, onde, radiazioni. Autori come l’Amis di Money (secondo cui «tutti i giocatori di palla nati» hanno la capacità di «capire il fenomeno della sfericità meglio degli altri. […] Il mondo è una palla. Infatti, capiscono anche questo») o il Ballard di Cocaine Nights trasformano lo spazio del testo in un dispositivo a metà fra la fisica e il videogame, dove, come è stato scritto, «il fenomeno della sfericità si coniuga con la prerogativa di rotolare, rimbalzare, ruotare; di acquisire, cioè, un’assoluta libertà rispetto all’impatto che ha originato il movimento». Questo provoca un impazzimento non solo della vi-ta, ma anche delle sue immagini e dell’intero suo dominio immateriale: basti pensare a quel personaggio di Ballard che si allena, nel «clangore dei campi da tennis vuo-ti», con un lanciapalle, che a raffica gli propina diritti pallonetti e rovesci. Quell’uomo sembre-rebbe duellare con la macchina, ma «la lotta non era fra il giocatore e la macchina: il vero duello stava avvenendo dentro la testa dell’uomo». Trent’anni dopo quella partita di tennis senza palli-na, è tempo di partite di tennis senza avversario, o meglio una psicomachia con un avversario dis-umano.
Disumano quanto lo sarà (è storia, già dimenticata, di ieri) un poli-ziotto che spara la sua bala de goma contro chi ha la sola colpa di aver gioito in piazza per la vittoria spagnola dei mondiali di calcio: secondo quanto ha raccontato, in un memoriale dal sarcastico titolo Tutta colpa di Robben, un ragazzo testimone e vittima di quella festa, Nicola Tanno, una palla di cuoio che non va in rete innesca la raffica del proiettile di gomma diritto nell’occhio di un disarmato, che schizza fuori dall’orbita e – proprio come in un grande film di Oliver Stone di tema sportivo e di forma epica – resta immobile sul campo di battaglia. Questa carambola a tre palle non è solo un’estrema narrazione, tragicamente corporale, della filosofia occasionalista o della fisica dei quanti; è anche un emblema delle forze politiche, e delle incivili violenze, di cui una sfera può farsi, nell’immaginario moderno, concrezione semiotica.
6. Un autore straordinario del nostro tempo, nichilista e matematico, tennista e suicida, ha scritto intorno a due idee di infinito radicalmente diverse: l’infinito circolare e paradossale di Zenone, l’Ápeiron dei Greci, che si avvita su se stesso senza arrivare a una conclusione; e l’infinito matematico, cantoriano, che permette di usare queste espansioni infinite in modo perfettamente definito. Prima di scriverci un testo saggistico, D. F. Wallace aveva già affrontato la questione da narratore, in un romanzo che non per caso s’intitola Infinite Jest (=lo scherzo infinito). Vi era teorizzata la ripetizione interminata, il ripresentarsi continuo di gabbie in cui l’apparente porta di uscita porta solo ad altre gabbie, il muoversi in modo circolare lungo curve chiuse: la dipendenza dalle droghe, coi continui cicli di disintossicazione e di ricaduta, il sesso come esperienza vuota, la ripetizione ossessiva della pratica sportiva nell’accademia di tennis, l’intrattenimento pervasivo e mai soddisfacente, la circolarità del sistema di produzione energetica basato sulla “fusione anulare”: un’idea che viene allo stesso protagonista osservando un pomello ruotare intorno all’asse formato dal suo perno, in una doppia rotazione formante una cicloide sferica.
Come venire fuori da questo modello onanita e autoreferenziale? L’antidoto a tale riproposizione della hegeliana «cattiva infinità» sarebbe appunto l’idea cantoriana di infinito. In un passaggio di grandissima potenza concettuale, uno dei capi istruttori dell’accademia di tennis riflette sulla struttura del gioco:
Ogni palla colpita bene ammette n possibili risposte, n2 risposte possibili a queste risposte, […] Come un continuo cantoriano di infinità di possibili mosse e risposte, cantoriano e bello perché stratificato, contenuto, questa infinità bigenerata di infinità di scelta ed esecuzione, matematicamente incontrollata, ma umanamente contenuta, delimitata dal talento e dall’immaginazione di se stessi e dell’avversario, ripiegata su se stessa dalle frontiere date dall’abilità e dall’immaginazione che alla fine fanno perdere uno dei giocatori, e impediscono a entrambi di vincere, che creano, alla fine, un gioco, queste frontiere del sé.
Proprio interrogandosi su «queste frontiere del sé», il filosofo Pe-ter Sloterdijk ha elaborato un’originale teoria (non molto fortunata in Italia), che ci può soccor-rere per andare verso provvisorie conclusioni. La sua trilogia Sfere propone un sistema anche troppo embricato, tanto che c’è chi l’ha definito «fanta-hegeliano»: già dai titoli dei volumi (Bolle, Globi e Schiuma) si intuisce l’aspirazione a una dettagliata critica della ragion sferica. La rotondità delle immagini che ricercate per designare la società umana, attuale ed eterna, sembra contrapporsi tanto alla linearità dell’iper-razionalismo e dell’iper-scientismo, quanto all’incontrollabile liquidità e indistinzione delle più note teorie di Bauman.
La tesi di fondo è che i rapporti fra persona e persona non siano lineari (sulla direttrice io-tu o del più egoistico io-io) ma circolari: se a parla con b, non esclude l’ambiente che lo circonda ma lo comprende e non può chiamarsene fuori. Questo perché tutti gli esseri umani hanno condiviso l’esperienza fetale, nella quale instaurano un rapporto biunivoco fra sé stessi e la madre-ambiente che li comprende e li protegge, come appunto in una bolla (Sloterdijk la definisce «microsferologia»). Ogni rapporto interpersonale è il tentativo di ricreare, con alterni successi, questa stessa bolla di placenta; l’inclusione di più persone all’interno dei medesimi confini sottende la creazione di un globo («macrosferologia»). La perdita di centro univoco ha portato alla moltiplicazione di globi paralleli confinanti ma incomunicanti che richiamano la disposizione del-la schiuma («sferologia plurale»).
Si potrebbe ora, per chiudere senza concludere, far riferimento ancora a Wallace, a uno delle sue narrazioni brevi più belle e indecidibili: dove due soggetti altrimenti non comunicanti, ingabbiati e cosificati nelle rispettive «parti» aziendali, si trovano a vivere un’esperienza di empatia estrema, creaturale, quasi biopolitica, allorché il più potente di essi, nel silenzio notturno e nel respiro possente di un desertificato luogo di lavoro (il narratore lo chiama sempre «l’Edificio», scialando con le maiuscole e cogli effetti metafisico-allegorici), è colpito da un infarto e viene soccorso dall’altro, che, come recita lo straniante titolo frastico, per fortuna sapeva fare il massaggio cardiaco. Dopo averne letto il periodo finale, in cui la figura del soccorritore sembra dissolversi in una sorta di reduplicato, lancinante e linguisticamente impossibile éternel imparfait («piegato verso quello che due vite richiedevano, al di sotto di tutto, continuava a invocare aiuto»), non si può fare a meno di supporre che le «due vite» cui si allude non siano più quelle, presenti, dei protagonisti del racconto, bensì le esistenze sfinite dei soli altri due personaggi che appaiono verso la sua metà, come ologrammi insensati e incorporei: «due innamorati passeggiavano, con aria maestosa, pallidi come pupazzi, braccia intrecciate, in silenzio, con l’orecchio teso ma senza sentire nessuna vera differenza nel costante, distante sibilare e sospirare del traffico notturno della città». Se questo fosse vero – e senz’altro lo è, almeno relativamente all’effetto di senso che si produce – il regime delle coincidenze non riguarderebbe tanto il piano di immanenza, come pure faceva pensare l’incipit (dove erano rappresentate con montaggio alternato la sincronicity e la sympateia irriflesse tra il dirigente e il funzionario), quanto l’ascissa verticale che unisce, attraverso ben più distanti piani paralleli e infiniti, fratellanza e amore; e, in ultima analisi, vita e morte, corpi e anime. Si tratterebbe, allora, di un finale insieme straziante e consolatorio, aperto alla compassione cosmica e a un’ipotesi di salvezza, di “aiuto” ancora invocabile fra gli uomini.
7. Ma naturalmente questa, oltre a non essere il solo epilogo possibile del racconto di Wallace, non è nemmeno l’unica conclusione possibile per il nostro ragionamento. Si potrebbe, piuttosto, richiamare un Cortázar minore, quello de Los autonautas de la cosmopista, scritto a quattro mani con Carol Dunlop: dove due compagni di vita e di viaggio attraversano, in un’esperienza che sta (anche cronologicamente) a metà fra Easy Rider e Fino alla fine del mondo, la Francia meridionale, annotando tutto ciò che la loro retina incontra, grazie alla visuale protetta di un mitologico pulmino e del loro sofisticato, e infine luttuoso, gioco intellettualistico. Sarebbe, in quel caso, una vittoria a metà: il compromesso di una bolla, o forse di una membrana, non abitata né singolarmente né pluralmente, ma dualmente. Ancora, e stavolta per terminare davvero, si potrebbe andare con la mente a Cosmopolis di DeLillo, un altro romanzo che, proprio come il taccuino menippeo di Cortázar & Dunlop, agglutina sulla soglia del titolo il “cosmo” e un umano costrutto. Qui il protagonista si sveglia una mattina nel suo villone e cerca disperatamente poesia nelle cose che guarda, ma non la trova più, non c’è più nemmeno un feticcio che lo salvi, una pallina da baseball o qualche altra «piccola, buona cosa»; e allora esce di casa, rinchiudendosi subito nella sua placenta di lusso (una candida limousine che pare spostarsi come il mouse d’un pc), mosso solo dal bisogno stupido e primario di tagliarsi i capelli, al pari di un famoso Cavaliere dalla Trista Figura. Questo guru della finanza fa della virtualità delle sue azioni sui mercati l’arma di vittoria nel mondo reale, nonché l’unico scopo della vita; ciò lo porta ad avvertire un terribile deficit emotivo, per cui vorrebbe donarsi ancora al movimento per trovare senso. Incontra i suoi più stretti collaboratori ad uno ad uno nelle strade di New York, si ferma e li fa entrare in auto per brevi meeting: tutto in un giorno, tutto in un luogo, la vita in un pomeriggio, così come nel testo cruciale del modernismo. E tutto in una macchina: dove alla fine non può che avere contatti con simulacri, altri ologrammi, azioni e non agenti. Davvero non si dà più spazio per la communitas; tutto appare desertificato, tutto è incomunicabilità, teo-tecnocrazia (come l’ha definita Aldo Masullo), reciproca refrattarietà tra la palla che è il mondo – con le sue interconnessioni, le sue linee, le sue coincidenze – e la bolla che ospita il personaggio: quella bolla rispetto alla quale quell’uomo-non-più-microcosmo perde, e noi rischiamo di perdere, l’occasione di essere liberi.
[Immagine: Stadio di baseball, anni Cinquanta (gm)].
è un saggio veramente molto bello e interessante – anche e soprattutto per la quantità di suggestioni e di spunti di riflessione (alcuni imprevedibili, almeno per me) che riesce a sucitare e a trasmettere
corre l’obbligo di leggere il libro, cosa che farò con estremo piacere
un unico neo, che non riguarda né il contenuto né la forma del testo ed è cosa di ben poco conto: probabilmente, nel passaggio dal file al format del blog, sono rimaste delle arcature di fine-rigo che si sono trasformate in arbitrarie spezzettature di parole