cropped-aldo_busi.jpgdi Niccolò Scaffai

Nessun «romanzo italiano pubblicato prima di Seminario sulla gioventù è Letteratura quanto Seminario sulla gioventù; corrisponde […] a Vita e opinioni di Tristram Shandy per la lingua inglese e avrebbe dovuto aiutare l’Italia, già da due decenni, a uscire non dico dalla Controriforma ma almeno dal Settecento». Così, in una nota del 2003, Aldo Busi tornava senza modestia sull’importanza del suo primo romanzo, uscito quasi vent’anni prima (1984) e in seguito modificato, riscritto. Ma l’iperbole, figura di cui non fa difetto lo stile di Busi, non va confusa con la mancanza di sincerità o di coscienza di sé, del proprio tratto autoriale: tanto il Seminario quanto il nuovo romanzo, pubblicato da Aldo Busi dopo lunga attesa e varie traversie editoriali (El especialista de Barcelona, Milano, Baldini Castoldi Dalai, pp. 373, euro 19,00), ‘corrispondono’ davvero al Tristram Shandy di Sterne; non nei termini impossibili di un giudizio di valore (come lascerebbe intendere il provocatorio confronto), ma in quelli concreti della costruzione narrativa. Il romanzo di Busi in effetti è proprio questo: un romanzo sterniano, umoristico, in cui lo svolgimento fattuale della vicenda ha meno importanza rispetto alle volute di un pensiero affabulante, che gestisce il tempo, i piani del racconto e la stessa identità del narratore senza vincolo di oggettività e con frequenti incursioni saggistiche e metanarrative: con «le esperienze, e massimamente con le infanzie e le vecchiaie» scriveva ancora Busi nel 2003 «non si fa Letteratura (figuriamoci, poi, se la si fa con la cultura!). La Letteratura si fa con le parole scritte una dopo l’altra in un certo modo dalla prima all’ultima».

Fedele a quest’immagine per così dire fluviale della scrittura letteraria, Busi ha concepito il suo romanzo come il discorso ininterrotto – flusso di coscienza o diceria barocca – che il narratore, seduto su una sedia di ferro lungo la Rambla di Barcellona, rivolge a una foglia di platano, sul punto di cadere per l’urto di un elicottero giocattolo. La foglia, «gran sparlacciona anche in limine mortis», incalza il narratore, la cui voce metamorfica oltrepassa i confini della persona, si sdoppia e dà luogo alla prosopopea dell’oggetto. Una situazione enunciativa, prima ancora che narrativa, capace di fare sgambetto ai topoi letterari consumati: come la foglia, già simbolo di fragilità, che diviene un combattivo interlocutore; o come l’io che parla sì alla natura, ma non in forma lirica né per un breve giro di versi, ma per le centinaia di pagine del romanzo. Il risultato è una miscela di forme e generi: se il tour de force della memoria pare degno di Proust (prestiamoci al gioco iperbolico di Busi), la sedia, teatro del racconto, fa invece pensare alle panchine di Bouvard et Pécuchet o di Godot (e perfino un po’ a quella di Forrest Gump, con la famosa piuma al posto della foglia di platano).

Il protagonista del racconto del narratore è lo «specialista» del titolo: un esperto di letteratura portoghese, docente in un’università della capitale catalana, scrittore sfortunato, afflitto da un complesso per la sua bassa statura, gay con alle spalle un matrimonio eterosessuale (e con dei figli) e in procinto di sposare il suo aitante compagno. Intorno all’especialista, ai suoi carnevaleschi famigliari, ai suoi amori e alle sue vicende, la storia si aggroviglia in un gomitolo di digressioni e allusioni, comprese quelle che richiamano l’esperienza vera dello scrittore Busi: i romanzi precedenti, la partecipazione a un reality show («…se solo riuscissi a ricordarmi a che edizione dell’“Isola che non c’è” ho partecipato, se quella del 2009 o del 2010»). Con ciò, non siamo autorizzati a considerare El especialista de Barcelona un ‘antiromanzo’ o un ‘non-romanzo’: lo sarebbe solo a patto di identificare il genere con la sua modalità prevalente (consistenza della trama, realismo ‘serio’), rimuovendo appunto l’opzione sterniana, che per tutta la modernità ha sfidato l’altra.

È a questo livello che si misura invece la differenza di Busi rispetto ai modi della narrativa italiana contemporanea (non per niente, gli autori che gli sono stati accostati, in modo più o meno attendibile, sono storicamente o culturalmente inattuali, irripetibili: da Gadda ad Arbasino, fino al Gabriele Frasca di Dai cancelli d’acciaio). Non c’è il narcisismo dimesso del narratore che si atteggia a ex compagno di scuola (o di partito, dipende dall’età); né l’astuzia di far diventare interessante una storia e di autorizzarla sovrapponendola alla vita dello scrittore: «I grandi romanzi autobiografici» leggiamo nella pagina finale «mica si fanno parlando di sé!». L’autofiction o la biofiction non appartengono infatti alle risorse narrative di Busi, nonostante i contatti di cui parlavo tra autore e narratore. Non gli appartengono né tecnicamente né ideologicamente, perché Busi e i suoi romanzi stanno a monte dell’autofiction; se il grado di realtà implicato nella narrazione serve ad accreditare il romanzo e a rilasciare al suo autore una patente di impegno storico o sociologico (in alcuni casi meritata), Busi ha cercato per anni di fare l’opposto: cioè di screditarsi ostinatamente con buffonesche partecipazioni ai programmi televisivi più compromettenti. Ma il narratore dell’Especialista, come le vite e il mondo che racconta, hanno poco a che fare con la normalità ricostruita dai reality. L’obiettivo non è la ricerca (o la messinscena) di un rispecchiamento esemplare tra l’esperienza del singolo e quella della comunità, che ne fruisce attraverso un medium finzionale – libro o televisione. El especialista de Barcelona assomiglia a qualcosa di molto meno à la page: un’avventura picaresca (anche se è un picaresco statico: il narratore rimane seduto sulla Rambla e la foglia attaccata al platano) o un romanzo enciclopedico, in cui convivono letteratura e cronaca (forse Busi è il primo a usare in un romanzo la parola ‘esodati’), corpi e amori, esaltazioni e noie, gioventù e senilità. E perfino morale e idiosincrasia, come quando si legge di un personaggio che scrive «romanzi di un qualche genere, proprio come da noi un comune magistrato o un parlamentare di grido», o del «Nobel assegnato a quella vecchia beghina eretica a bacchetta di Saramago».

Questo è il vero soggetto del libro: realtà senza realismo, cioè senza la disciplina selettiva che il modo realistico impone alla materia; e siccome la realtà è caotica, la via più onesta per raccontarla è lasciare che tutto si accumuli e s’incroci. Ma l’onestà ha spesso un prezzo e anche a Busi tocca a volte pagarlo, sotto forma di frastornante illeggibilità. La causa è più da ricercare nella saturazione conoscitiva e nella diegesi continua che non nello stile. La prosa, affollata di nomi di luoghi e persone note (fin dalla curiosa dedica che raggruppa San Suu Kyi, García Lorca, Baltasar Garzón e un altro – Antonio Ingroia – che come lui non fa più il magistrato), ha sì un’ampia escursione lessicale che va dal turpiloquio o dal vocabolario corporale fino alle «unità aristoteliche, che poi tra epopea, tragedia, verosimiglianza, azione diretta o indiretta e quindi narrata da terzi e loro diacronica interpretazione umanistica saranno una trentina». Eppure non è mai davvero mimetica, né plurilinguistica (cioè fondata sul contrasto: alto/basso, lingua/dialetto, ecc.), perché la realtà – Busi lo sa bene e qui lo rappresenta in modo magistrale – non si riduce a un cozzo polifonico tra le diverse istanze dell’osservatore e dell’osservato, ma rifluisce tutta attraverso l’io paziente del narratore-mondo.

[Questo articolo è apparso su «Alias – il Manifesto»]

i>Tristram Shandy di Sterne; non nei termini impossibili di un giudizio di valore (come lascerebbe intendere il provocatorio confronto), ma in quelli concreti della costruzione narrativa. Il romanzo di Busi in effetti è proprio questo: un romanzo sterniano, umoristico, in cui lo svolgimento fattuale della vicenda ha meno importanza rispetto alle volute di un pensiero affabulante, che gestisce il tempo, i piani del racconto e la stessa identità del narratore senza vincolo di oggettività e con frequenti incursioni saggistiche e metanarrative: con «le esperienze, e massimamente con le infanzie e le vecchiaie» scriveva ancora Busi nel 2003 «non si fa Letteratura (figuriamoci, poi, se la si fa con la cultura!). La Letteratura si fa con le parole scritte una dopo l’altra in un certo modo dalla prima all’ultima».

Fedele a quest’immagine per così dire fluviale della scrittura letteraria, Busi ha concepito il suo romanzo come il discorso ininterrotto – flusso di coscienza o diceria barocca – che il narratore, seduto su una sedia di ferro lungo la Rambla di Barcellona, rivolge a una foglia di platano, sul punto di cadere per l’urto di un elicottero giocattolo. La foglia, «gran sparlacciona anche in limine mortis», incalza il narratore, la cui voce metamorfica oltrepassa i confini della persona, si sdoppia e dà luogo alla prosopopea dell’oggetto. Una situazione enunciativa, prima ancora che narrativa, capace di fare sgambetto ai topoi letterari consumati: come la foglia, già simbolo di fragilità, che diviene un combattivo interlocutore; o come l’io che parla sì alla natura, ma non in forma lirica né per un breve giro di versi, ma per le centinaia di pagine del romanzo. Il risultato è una miscela di forme e generi: se il tour de force della memoria pare degno di Proust (prestiamoci al gioco iperbolico di Busi), la sedia, teatro del racconto, fa invece pensare alle panchine di Bouvard et Pécuchet o di Godot (e perfino un po’ a quella di Forrest Gump, con la famosa piuma al posto della foglia di platano).

Il protagonista del racconto del narratore è lo «specialista» del titolo: un esperto di letteratura portoghese, docente in un’università della capitale catalana, scrittore sfortunato, afflitto da un complesso per la sua bassa statura, gay con alle spalle un matrimonio eterosessuale (e con dei figli) e in procinto di sposare il suo aitante compagno. Intorno all’especialista, ai suoi carnevaleschi famigliari, ai suoi amori e alle sue vicende, la storia si aggroviglia in un gomitolo di digressioni e allusioni, comprese quelle che richiamano l’esperienza vera dello scrittore Busi: i romanzi precedenti, la partecipazione a un reality show («…se solo riuscissi a ricordarmi a che edizione dell’“Isola che non c’è” ho partecipato, se quella del 2009 o del 2010»). Con ciò, non siamo autorizzati a considerare El especialista de Barcelona un ‘antiromanzo’ o un ‘non-romanzo’: lo sarebbe solo a patto di identificare il genere con la sua modalità prevalente (consistenza della trama, realismo ‘serio’), rimuovendo appunto l’opzione sterniana, che per tutta la modernità ha sfidato l’altra.

 È a questo livello che si misura invece la differenza di Busi rispetto ai modi della narrativa italiana contemporanea (non per niente, gli autori che gli sono stati accostati, in modo più o meno attendibile, sono storicamente o culturalmente inattuali, irripetibili: da Gadda ad Arbasino, fino al Gabriele Frasca di Dai cancelli d’acciaio). Non c’è il narcisismo dimesso del narratore che si atteggia a ex compagno di scuola (o di partito, dipende dall’età); né l’astuzia di far diventare interessante una storia e di autorizzarla sovrapponendola alla vita dello scrittore: «I grandi romanzi autobiografici» leggiamo nella pagina finale «mica si fanno parlando di sé!». L’autofiction o la biofiction non appartengono infatti alle risorse narrative di Busi, nonostante i contatti di cui parlavo tra autore e narratore. Non gli appartengono né tecnicamente né ideologicamente, perché Busi e i suoi romanzi stanno a monte dell’autofiction; se il grado di realtà implicato nella narrazione serve ad accreditare il romanzo e a rilasciare al suo autore una patente di impegno storico o sociologico (in alcuni casi meritata), Busi ha cercato per anni di fare l’opposto: cioè di screditarsi ostinatamente con buffonesche partecipazioni ai programmi televisivi più compromettenti. Ma il narratore dell’Especialista, come le vite e il mondo che racconta, hanno poco a che fare con la normalità ricostruita dai reality. L’obiettivo non è la ricerca (o la messinscena) di un rispecchiamento esemplare tra l’esperienza del singolo e quella della comunità, che ne fruisce attraverso un medium finzionale – libro o televisione. El especialista de Barcelona assomiglia a qualcosa di molto meno à la page: un’avventura picaresca (anche se è un picaresco statico: il narratore rimane seduto sulla Rambla e la foglia attaccata al platano) o un romanzo enciclopedico, in cui convivono letteratura e cronaca (forse Busi è il primo a usare in un romanzo la parola ‘esodati’), corpi e amori, esaltazioni e noie, gioventù e senilità. E perfino morale e idiosincrasia, come quando si legge di un personaggio che scrive «romanzi di un qualche genere, proprio come da noi un comune magistrato o un parlamentare di grido», o del «Nobel assegnato a quella vecchia beghina eretica a bacchetta di Saramago».

Questo è il vero soggetto del libro: realtà senza realismo, cioè senza la disciplina selettiva che il modo realistico impone alla materia; e siccome la realtà è caotica, la via più onesta per raccontarla è lasciare che tutto si accumuli e s’incroci. Ma l’onestà ha spesso un prezzo e anche a Busi tocca a volte pagarlo, sotto forma di frastornante illeggibilità. La causa è più da ricercare nella saturazione conoscitiva e nella diegesi continua che non nello stile. La prosa, affollata di nomi di luoghi e persone note (fin dalla curiosa dedica che raggruppa San Suu Kyi, García Lorca, Baltasar Garzón e un altro – Antonio Ingroia – che come lui non fa più il magistrato), ha sì un’ampia escursione lessicale che va dal turpiloquio o dal vocabolario corporale fino alle «unità aristoteliche, che poi tra epopea, tragedia, verosimiglianza, azione diretta o indiretta e quindi narrata da terzi e loro diacronica interpretazione umanistica saranno una trentina». Eppure non è mai davvero mimetica, né plurilinguistica (cioè fondata sul contrasto: alto/basso, lingua/dialetto, ecc.), perché la realtà – Busi lo sa bene e qui lo rappresenta in modo magistrale – non si riduce a un cozzo polifonico tra le diverse istanze dell’osservatore e dell’osservato, ma rifluisce tutta attraverso l’io paziente del narratore-mondo.

[Questo articolo è apparso su «Alias – il Manifesto»]

1 thought on “Romanzo e umorismo. «El especialista de Barcelona» di Aldo Busi

  1. Al romanzo di Sterne “El especialista de Barcelona” di Aldo Busi sicuramente si accosta per come rifiuta un modello pre-impostato di romanzo: con una trama che ne giustifichi la scrittura.

    L’impronta della lingua, dei segni, è tale che c’è uno stravolgimento direttamente (orto)grafico, nel testo. In “Vita e opinioni di Tristram Shandy” l’uso del trattino è dispettoso, così come in “El especialista de Barcelona” c’è tutta una volitiva ri-semantizzazione e ri-attivazione degli usi della punteggiatura. Vien da dire: l’alfabeto parla al mondo, del mondo, tramite se stesso e non come riflesso.

    L’opera letteraria di Aldo Busi però non si limita a una riproposizione o a un rinverdimento del modello sterneriano diventato ben presto maniera e quindi parodia: lo shandismo posteriore – e deteriore – che si è trasformato in un compiacimento che segna il distacco – un disimpegno? dico meglio: una alienazione, una frattura – tra io e mondo, diventando divertissement o peggio: racconto filosofico, insomma: predichetta in formato letteratura. Parole tra le parole. Fuffa intellettiva.

    Piuttosto in “El especialista de Barcelona” si crea un inedito(anzi, tenendo presente le opere letterarie di Aldo Busi si dovrebbe dire: si ricrea; o meglio ancora: resiste) e duro confronto, un faccia a faccia – dove per faccia si intende tutto: le mani sul fuoco, le palle sul tagliere e il culo senza il riparo di nessuna poltrona-istituzionale a fare da scudo – tra il mondo e l’io che hanno una sola occasione – questa vita – per non mancare al loro appuntamento fissato nel tempo corrente singolare e irripetibile.

    Il confronto tra io e mondo è fatto di corpi, di storie, di riflessioni, di soldi, di ricordi, di passioni, di risate, di pensieri, di episodi, di mangiate, di scopate, di digestioni, di traumi, di eccitazioni: è politico perché è vivo cioè dinamico e nella bara di una storia a cui sono state prese tutte le misure non ci sta; e per essere politico al massimo grado non può essere che estetico, perché, sarebbe pure ora di ammetterlo: chi non sa più desiderare una vita bella ma una bella vita e nient’altro, abbrutisce la vita degli altri: vive e fa vivere male, e chiava pure peggio.

    Il romanzo – la letteratura – di Busi per non sottomettersi alla realtà non la nega né la rimuove: la include. Assorbendola nella lingua per poterla ri-dire, per poterla abitare. Non certo per capirla – perché poi ognuno sceglie da sé casa crede ci sia da capirci – ma per provare a vederla per quella che è: in quello che c’è, qui e ora.

    Sarebbe bene non dimenticarselo e invece ce ne si dimentica di continuo, e “El especialista de Barcelona” è per l’appunto la ricostruzione di questo svanimento, è messo nero su bianco l’oblio che sbianca tutto e che rende perciò perenne il riavventarsi nero di una malanotte che sembra non debba passare mai.

    Uhm. Credo si sia capito, che questo piaciuto mi è piaciuto al punto da farmene straparlare.

    I miei saluti!
    Antonio Coda

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