cropped-cropped-Candida-Höfer-Bureau11.jpegdi Valeria Pinto

[In questi giorni LPLC si prende una breve vacanza pasquale. Per non lasciare soli i nostri lettori, continueremo a pubblicare la playlist del sabato e ripubblicheremo alcuni vecchi post. Questo intervento di Valeria Pinto, tratto dal libro Valutare e punire (Cronopio 2012) e uscito il 15 marzo 2013, non ha perso la sua attualità].

“Con intento preventivo/educativo e non punitivo, Ca’ Foscari si è dotata di un software (compilatio.net) che permette ai docenti di verificare l’uso corretto delle fonti ma soprattutto agli studenti di autovalutare l’autenticità dei propri lavori (…). A partire dalla sessione estiva dell’a.a. 2010/2011, tutte le tesi di laurea (…) verranno sottoposte ad un controllo teso ad evidenziare l’eventuale uso improprio delle fonti disponibili in rete”. Grazie a questo software, gli studenti “saranno sicuri che l’autenticità del lavoro da loro svolto è conforme alle esigenze del mondo accademico (…), miglioreranno il rigore del loro lavoro e la qualità della redazione (…), eviteranno di essere accusati di imbroglio o di plagio, assumeranno personalmente il valore morale ed etico del proprio comportamento al lavoro, valorizzeranno il rispetto del diritto, del regolamento d’istituto e delle buone pratiche di scrittura”[i].

In questa breve presentazione, a parte il ridicolo o la malafede dell’illustrazione del software come uno strumento per aiutare gli studenti a capire se hanno copiato a propria insaputa, troviamo riunite un po’ tutte le parole chiave dell’universo della valutazione: l’insistenza sul dispositivo preventivo/educativo contrapposto a punitivo, l’enfasi su controllo, responsabilizzazione, qualità e suo miglioramento, nonché una precisa etica del lavoro, addirittura del lavoro intellettuale. Il tutto in una pretesa asetticità tecnica.

È fin troppo facile osservare che questa neutralità è un inganno. Qualunque strumento veicola valori. Come “un mortaio africano non è un Moulinex arcaico” (M. Singleton), compilatio.net non è semplicemente la velocizzazione di una consolidata pratica di verifica. Un nuovo universo di principi e di riferimenti si sostituisce qui all’antiquato rigore del professore intento a collazionare due testi tra loro (e surroga persino la stessa coscienza dello studente). Se l’assurdità di compilatio non risalta immediatamente (e in effetti, distribuiti da istituzioni o da multinazionali del sapere, Ethics Resource Kit di vario genere oggi proliferano senza generare stupore[ii]), vuol dire che l’ideologia ha lavorato efficacemente.

È precisamente così, d’altronde, che la valutazione è entrata nella nostra vita quotidiana: tacita, neutrale, anonima (come lo sono in genere i valutatori, che si dice operino meglio al riparo di una trasparenza senza nome). Ci imbattiamo in essa di continuo e senza accorgercene: dai questionari sulla soddisfazione clienti alle pagine online valutazione-merito-trasparenza, alla valutazione dell’attività parlamentare (per esempio sul sito indice.openpolis.it/info.html, dove si legge che quello adottato è “un metodo non esatto ma affidabile, perché basato su criteri trasparenti, pubblicamente discussi ed emendabili”). Proprio perché cose così cominciano a sembrarci ovvie, occorre oggi una critica e una genealogia della valutazione.

Nell’università, in particolare, la valutazione è divenuta in modo sempre più netto l’asse portante della nuova architettura istituzionale. La legge con cui fa il suo ingresso – la 537 del 1993, che istituisce i nuclei di valutazione interna secondo uno schema identico a quello previsto per la Pubblica Amministrazione – ha alle spalle la legge 168/89 istitutiva dell’autonomia universitaria e prevede possibili ricadute della valutazione sull’assegnazione delle risorse. Vent’anni più tardi, con la riforma 240/2010 e i recenti decreti legislativi 437 e 436, la valutazione costituisce oggi letteralmente il braccio operativo di qualsivoglia processo decisionale: dai piani di programmazione per l’organico, al finanziamento dei PRIN, all’istituzione (o chiusura) di nuovi corsi di laurea e dipartimenti, fino alla progettata valutazione dei titoli di studio (che perfeziona e sostituisce sottilmente il progetto dell’abolizione del valore legale). In quest’ultimo anno la nuova Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) – di nomina interamente governativa e dai confini legislativi assai indefiniti – ha messo a regime il più grande esercizio di valutazione mai realizzato nel nostro paese (la Valutazione della Qualità della Ricerca – VQR – relativa al settennio 2004-2010); ha avviato nuove procedure di abilitazione scientifica nazionale, che rivoluzionano le prassi tradizionali di accesso alla docenza e di carriera accademica mediante l’introduzione di meccanismi automatici di preselezione e valutazione; ha in corso una radicale ristrutturazione della concreta vita universitaria attraverso la messa in opera di rigide procedure di Accreditamento, Valutazione periodica e Autovalutazione (AVA). All’opera dell’Agenzia si accompagna la nascita anche a livello locale di nuovi organismi di valutazione e quindi l’affermazione di nuove figure di potere burocratico-accademico, i cosiddetti ‘esperti di valutazione’, a loro volta mai definiti nelle loro competenze e nei limiti della loro influenza, generalmente selezionati e nominati su base fiduciaria e senza procedure verificabili. Chi è andato a parlare con i vertici ANVUR racconta l’impatto fisico con gli uffici, la plastica rappresentazione di un nuovo potere.

Si tratta del passaggio forse più importante della “strategia a mosaico” con cui è stata rivoluzionato l’assetto dell’università italiana – una socio-tecnica frammentaria tutt’altro che priva di un “disegno generale”, all’epoca però intenzionalmente non esibito – sotto il segno di una responsabilità fondata sul binomio autonomia/valutazione. Come spiegava la “Bozza Martinotti” – il documento guida della riforma Berlinguer – “autonomia significa soprattutto rimozione di ostacoli sulla via di una maggiore funzionalità” e quindi “soluzioni che accrescano la responsabilità dei soggetti”. Quest’ultima significa che “all’autonomia deve corrispondere un rafforzamento della funzione di governo” e quindi “capacità di conoscenza, di indirizzo, di coordinamento e di verifica dei risultati”, nonché un “sistema di incentivi basato sulla valutazione”. Un “monitoraggio e controllo dell’efficienza nell’auto-governo, dell’efficacia dei processi e della qualità dei prodotti” è “una conseguenza necessaria e non eludibile della scelta autonomistica (…): non ci può essere autonomia senza responsabilità né responsabilità senza valutazione”[iii].

Un lucidissimo intervento di Francesco Pitocco del 1998 vedeva con chiarezza le linee del disegno generale destinato “a sconvolgere radicalmente la natura dell’università”. Si tratta di un “progetto serio, sostenuto da un impianto politico e sociale di grande peso”, affermava introducendo un convegno romano su La riforma Berlinguer tra innovazione e subalternità economico-culturale; un progetto che “vive di una vita per il momento ancora ‘nicodemitica’, ma che già traluce qua e là, un po’ ovunque (…), sbriciolato in mille documenti, in mille proposte, in mille dichiarazioni. Non consegnato a nessun documento dedicato, esso è vivo e diffusamente vitale”. Il suo obiettivo – “che potremmo definire sinteticamente ‘liberistico’” – “è l’istituzione di un ‘mercato accademico’”, un sistema formativo e culturale subalterno a interessi di natura privatistica e profondamente legato alle contemporanee trasformazioni della politica del lavoro (anzitutto l’“Accordo tra governo e parti sociali” siglato nel settembre 1996 quale ripresa del “patto sul lavoro” del 1993). Già nel ‘98, in altri termini, si poteva riconoscere il “totalitarismo culturale” contenuto nella volontà di “schiacciare la cultura e la scienza sui ‘fabbisogni’ del sistema produttivo”, sulla “formazione per il lavoro”, su “un ‘rapporto strutturale’ con le imprese industriali e finanziarie”: un rapporto che, quando “non mediato, non filtrato da un sistema di garanzie”, “annulla totalmente l’autonomia che deve sostenere le diverse funzioni di cui una società vive” e in particolare “l’autonomia della funzione culturale e scientifica dell’università”. Non meno lucidamente veniva già allora allo scoperto la problematicità della valutazione, nella denuncia della “designazione diretta di organismi di valutazione chiamati a valutare sulla base di criteri non sottoposti a discussione preventiva, e dunque non condivisi (…); di commissioni per la valutazione dei progetti scientifici da finanziare che operano nella più totale opacità”[iv].

Anni più tardi, con la finanziaria 2007, a tenere a battesimo ANVUR sono il ministro Fabio Mussi e il sottosegretario Luciano Modica. Nella loro concezione, all’Agenzia spetta rafforzare il legame tra valutazione e finanziamento. Quale architrave del nuovo progetto di governance del sistema universitario viene annunciata – così Modica – “una valutazione della gestione, della didattica, della docenza, dei servizi, ecc.” incentrata sulla “qualità, parola chiave per tutto il sistema”: “qualità intesa come ‘fitness for pourpose’, in relazione all’idoneità degli scopi da raggiungere; qualità come conformità, in relazione alla soddisfazione dei clienti (customer care); qualità come rispetto degli aspetti formali; qualità come eccellenza, intesa in relazione al merito; qualità come bene formale, da rendere riconoscibile e trasparente (accountability); qualità come informazione (empowerment); qualità come conoscenza del sistema”. Naturalmente, si dice, “il primo passo da compiere nel percorso verso la creazione dell’Agenzia” è “recuperare consenso nella comunità scientifica, un consenso che non può essere unanime, ma diffuso”. Difatti “non esiste un sistema di valutazione efficace che non poggi sul consenso dei soggetti coinvolti. La valutazione non deve avere una connotazione impositiva”. Il frame ideologico nel quale cercare questo consenso è enunciato come segue dal ministro Mussi: “È necessario istituire un’attività di valutazione capillare ed efficiente, che consenta di premiare merito e qualità (…), di coniugare qualità e meritocrazia. L’Università di qualità che premia il merito facilita il processo di equità sociale: il merito non è il privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per riscattarsi”[v].

Tra questa impostazione e l’effettiva istituzione dell’Agenzia, però, la situazione politica generale muta. Caduto il governo di centro-sinistra, l’attuazione del progetto passa nelle mani del governo Berlusconi. Anche il frame ideologico cambia di conseguenza, (cioè piuttosto poco). Ancora nel 2010, in occasione della messa a regime di ANVUR da parte del ministro Gelmini, Mussi rivendica orgogliosamente, senza segnare alcuna distanza, la paternità dell’iniziativa dalle colonne del “Corriere della sera”[vi].

In nulla, in effetti, cambia il senso politico dell’operazione, che ha fatto sì che la valutazione sia giunta ormai ad affermarsi come lo strumento principe per il controllo delle università e del sapere in esse prodotto. Un tempo, almeno formalmente del tutto libere, le attività di ricerca e di insegnamento si ritrovano ora strette in un dispositivo valutativo che ha la cautela di non imporre una richiesta formale di nuovo giuramento ma di richiedere solo, assai liberalisticamente, una libera adesione alla mission. Le scelte prodotte dagli organismi valutativi di nomina governativa – per esempio la classificazione delle sedi di pubblicazione, ossia la cernita tra quelle valutabili e quelle non valutabili e tra le prime tra quelle di eccellenza e quelle non di eccellenza[vii], con effetti diretti sulla distribuzione dei finanziamenti e sulle carriere – sono in grado di condizionare a tal punto l’attività universitaria e di ricerca che il rischio di una ‘scienza di regime’ ha più della descrizione tecnica che non della denuncia polemica. ANVUR, ad esempio, ritiene esplicitamente di propria competenza stabilire la definizione stessa della ‘scientificità’, né da questa presunzione l’hanno distolta gli effetti grotteschi delle liste di riviste scientifiche approntate (autentica innovazione italiana) per le abilitazioni: liste che per un verso includono di tutto e per altro verso lasciano fuori di tutto, e che hanno suscitato tale sconcerto da aver indotto anche la grande stampa, tradizionalmente a sostegno degli intenti moralizzatori della ‘cultura della valutazione’, vuoi a sbeffeggiare apertamente l’Agenzia, vuoi a imbarazzatissime prese di distanza[viii].

Il fatto è che nella valutazione – lo dice la parola, ma lo si dimentica di continuo – sono in gioco valori. E i valori in base ai quali la valutazione valuta sono nuovi valori, finora tradizionalmente estranei al mondo della ricerca. Quando si parla di valutazione dell’università, valutazione della ricerca e simili, cioè, il genitivo va inteso nel senso sempre di un genitivo oggettivo, anche quando ad attuarla siano, come nelle forme di autovalutazione, gli stessi ricercatori o studiosi: non è la ricerca che valuta se stessa – sulla base di un sapere, spesso tacito, che è tutt’uno con l’esercizio del lavoro intellettuale – ma è la ricerca che è valutata, a scopi di direzione e controllo in vista di obiettivi extrascientifici.

C’è perciò, tra gli studiosi di valutazione, chi propone di distinguere tra un concetto di ‘valutazione ristretta’ e un concetto di ‘valutazione ampia’. Si tratta di una distinzione diversa da quella tra ‘valutazione interna’ e ‘valutazione esterna’ nel senso del riferimento al ‘chi’ valuta (autovalutazione o agenzie terze). Il discrimine qui è piuttosto una distinzione funzionale, riconducibile alla questione formale ‘Su quali basi normative si viene valutati?’: se norme e valori costitutivi di una specifica disciplina scientifica – la quale sempre, in virtù di questo riferimento, premia o sanziona determinate azioni e risultati – oppure la compagine di norme e valori di volta in volta dominanti nella società di appartenenza, certo non privi di influenza sulla scienza, ma in linea di principio distinti da quelli che vigono al suo interno. La scelta, com’è logico, diventa decisiva in questioni come l’allocazione delle risorse, le scelte relative alle aree di ricerca da promuovere o dismettere, i progetti da sostenere, la delineazione dei profili professionali da perseguire. Di fatto ‘l’organizzazione liberale della scienza’ è da tempo in crisi: il principio per cui la scienza va lasciata autorganizzarsi sul presupposto della sua naturale fecondità per il progresso economico-sociale si è ristretta solo a spazi d’élite. Con l’entrata in scena dei ‘legittimi portatori di interesse’ e della parola d’ordine value for money (sono soldi pubblici, bisogna renderne conto pubblicamente), si indicano alla ricerca le vie da battere, i rami secchi da tagliare, le relazioni da stringere, i partner da privilegiare, i modelli da assumere. Su queste materie parrebbe che le decisioni non possano essere rimesse a studiosi e scienziati, ma neppure – questo è il nodo – possano prescindere da loro. Ciò genera tensioni inevitabili, oggetto di una vera e propria assiologia del sapere scientifico.

Note


[i] Così il sito dell’Università di Venezia <http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=87919> e quello e del produttore del software <http://www.compilatio.net/it/prevention>, corsivo mio. Tutti i siti web citati si intendono verificati il 15.10.2012.

[ii] P.e. strumenti per “la verifica etica nelle nuove tecnologie agricole e alimentari nella EU” <http://www.ethicaltools.info>; “risorse etiche” suggerite dallo stato australiano di Victoria “per rendere significativi i valori e i principi del lavoro” <http://www.ssa.vic.gov.au/products/view-pro­ducts/ethics-resource-kit.html>; regole e “kit di etica della pubblicazione” proposti dall’editore Elsevier <http://www.ethics.elsevier.com> assieme al Committee on Publication Ethics (COPE).

[iii] Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio di livello universitario e post-universitario. Rapporto finale (Testo rivisto nella riunione del 3 ottobre 1997, ultima stesura a cura di Guido Martinotti), Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica, Roma, 1997.

[iv] F. Pitocco, Riforma Berlinguer tra innovazione e subalternità economico-culturale, introduzione al Convegno ACUNI, Roma, 11 marzo 1998, “Proteo”, 1998/2; versione integrale su <http://www.moderna1.ih.csic.es/fehm/anexos/PITOCCO,%20Relazione%20ACUNI%201998.pdf>.

[v] Interventi di L. Modica <http://www.miur.it/Seminario/PDF/Modica.pdf> e di F. Mussi <http://www.miur.it/Seminario/PDF/Modica.pdf> al Seminario sulla valutazione dell’Università e della Ricerca, Roma, Villa Celimontana, 5 dicembre 2006.

[vi] Cfr. “Corriere della sera”, 23.07.2010.

[vii] Per una ricostruzione del processo di classificazione delle riviste per la VQR in un’area specifica e relativa bibliografia cfr. V. Pinto, Valutazione della ricerca: tecnologie invisibili e pasticcerie manifeste, “Rivista critica del diritto civile”, XXX, 2012, 1, pp. 107-118.

[viii] Cfr. p.e. “Sole24ore”, 30.09.2012; “Corriere della sera”, 17.10.2012. Sull’insieme della vicenda cfr. gli interventi e le rassegne di ROARS tra il settembre e l’ottobre 2012.

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[Immagine: Candida Höfer, Bureau (gm)].

9 thoughts on “Valutare e punire

  1. E’ solo un capitolo, quindi non posso giudicare il tutto. Ma da questa parte mi pare un testo conservatore. Problematizzare il tema della valutazione è un atto “progressista”, da benedire, sentirla come una minaccia è però conservatorismo. Alla Mastrocola, per intenderci. Spero che il saggio non abbia questo approccio, che spesso adombra disegni liberisti ogni volta che si inserisce un lessico “aziendalista” nel mondo della scuola. Sarebbe un peccato.

  2. Questo post mi lascia molto perplesso, sia nelle linee generali sia nei dettagli. Vorrei soffermarmi solo su una questione di dettaglio. I software per il controllo dell’originalità dei testi degli studenti sono uno strumento didattico indispensabile – senza questi strumenti sarebbe molto più faticoso e difficile per gli insegnanti rilevare casi di plagio. Gli studenti infatti si scambiano per email, oppure trovano su siti a pagamento o gratuiti un’enorme quantità di testi. Posso assicurare poi che accade che gli studenti non si rendano conto di avere plagiato un testo altrui: i concetti di originalità e di plagio sono concetti non scontati che vanno trasmessi – hanno una componente tecnica e una morale. Certo, potremmo decidere di non trasmettere più le tecniche di scrittura originale e l’idea di originalità – avremmo adottato un altro “framework”. Oppure come società avremmo potuto evitare di costruire e usare internet; certo, potrebbe accadere che internet scompaia un giorno.

  3. Non sono affatto d’accordo con quanto sostenuto in questo capitolo. Non si motiva affatto a livello teorico il sospetto e l’acredine nei confronti dei sistemi di valutazione. Insegno in un istituto di istruzione superiore e personalmente non vedo l’ora che in modo serio e ponderato sia valutato il mio lavoro e quello dei miei studenti: sarebbe infatti ora di VALUTARE E PREMIARE il lavoro di chi davvero lo merita. È opportuno e interessante discutere sui criteri di valutazione, non sulla loro necessità. Non vedo davvero poi con che coraggio si prendono di mira i tentativi di inserire un qualsiasi criterio di controllo sul lavoro dei professori universitari! Vogliamo forse soffermarci sui criteri di reclutamento dei ricercatori e dei professori universitari degli ultimi vent’anni? Certo ciò non equivale a sostenere che OGNI criterio di valutazione vada bene e sia da assumere acriticamente, ma neanche è possibile arroccarsi in modo così penosamente miope e conservatore in un reame selvaggio in cui regna l’arbitrio assoluto. Infine: il software per scoprire se gli studenti hanno copiato merita attenzione, non per le ragioni sostenute dall’autrice del saggio, ma per quelle evidenziate da Alessio Baldini: da una parte va insegnata ai ragazzi un’etica dell’autenticità e della correttezza (ed è quello che cerchiamo di fare noi professori di liceo senza l’ausilio di alcun software), dall’altra l’uso delle fonti internet pone un problema complesso, perché davvero a volte i ragazzi non si rendono conto di aver copiato: manipolano le fonti in modi che meriterebbero certo un esame molto attento da parte di esperti.

  4. Con l'”etica dell’autenticità e della correttezza”, a questo mondo, si fa poca strada. Al massimo si finisce, appunto, a fare gli insegnanti. E non è proprio una fine entusiasmante (salvo per quei pochissimi che lo fanno per vocazione).
    Quanto alla valutazione dei docenti universitari, non vedo che senso abbia parlarne. I concorsi universitari sono praticamente tutti truccati, e le pubblicazioni presentate dai candididati non vengono neppure lette da coloro che dovrebbero giudicarle. Se questo è il modo in cui vengono reclutati, non ha molto senso valutarne l’operato successivamente.
    Tesi e tesine di studenti e laureandi non le legge nessuno, se non qualche pagina. Quindi poco cambia che siano plagiate oppure no.
    E’ tutta una colossale buffonata.
    Tutta la vita, in fondo. Si fa quel che si fa, nel modo in cui si suole fare. Un conto è quello che si dice perché si deve dire, un conto quello che accade nella realtà.
    In questo senso, la scuola è una scuola di vita: cioè di ipocrisia, sulla quale ultima si fonda la quasi totalità dei rapporti umani.
    Può darsi che le cose cambino. Ci vorrebbero molti decenni; un radicale mutamento della mentalità, della società, del costume.
    Spesso quelli che farneticano di valori, etica, moralità, princìpi e simili sono ancora più cialtroni degli altri. Spesso, ho detto.
    Siamo sicuri che all’estero siano poi tanto meglio di noi? Sono ignoranti come delle capre anche là. Il Grande Fratello è il programma più visto in tutto il mondo.
    La Finlandia ha, pare, la scuola migliore del mondo. Ma dubito che lassù la gente al bar o in piazza discuta di filosofia o di astrofisica. Al massimo parleranno di sci anziché di calcio.
    All’estero si legge di più. Ma cosa? Giornali scandalistici o letteratura d’evasione. Meglio analfabeti, o quasi. Alfabetizzazione sprecata.

  5. @ Insegnante
    Bell’insegnante. Cambi lavoro, invece di avvelenarsi e avvelenare la vita. Apra una geiateria.

  6. Cambiare lavoro? A quarant’anni con una laurea in lettere?

    Una gelateria? E chi me li dà i soldi per iniziare?

    Ormai il danno è fatto.

    Ho un mutuo da pagare.

    Guardi che la maggior parte dgli insegnanti è come me.

  7. Quanta amarezza nelle parole di quest’insegnante! Eppure il riscatto è possibile, per il bene dei nostri ragazzi…Cominciamo con la più audace trasgressione: LA VERITA’, non quella manipolata o adattata, quella profonda e senza i confini delle ipocrisie che uccidono lo spirito critico e la possibilità di diventare cittadini del mondo consapevoli e civili. Lei ha già cominciato col suo splendido intervento. C’è bisogno di persone coraggiose come lei. Se mio figlio fosse ancora in età scolare, cercherei un’insegnante come lei: vere perle rare! Non si scoraggi: il suo eroismo, anche se sofferto, seminerà quei frutti di cui abbiamo più che mai bisogno. Grazie da una madre.

  8. Un’altra considerazione.

    Gli insegnanti che blaterano di missione, valori, verità, libertà, senso critico e via dicendo, sono, spesso, gli stessi che poi danno lezioni private senza il nulla osta del preside, per di più ad alunni dello stesso polo liceale o addirittura dello stesso istituto, prendendo, in nome dei valori della verità del senso critico eccetera, soldi in nero dalle mani di un minorenne (paladini della verità, non dite che fate la ricevuta per le lezioni private e dichiarate tutto nel 730, che non ci crede nessuno).

    Ecco, io non ho grandi valori e grandi verità da trasmettere; ma una porcheria del genere non la faccio.

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