con due poesie di Andrea Lanfranchi
di Adelelmo Ruggieri
Quando diciamo che riusciamo a vedere quella collina là in fondo, non facciamo che affermare che da quella collina è possibile vedere noi.
Due febbraio. Non mi aspettavo che Andrea lasciasse un commento, e come avrei potuto d’altra parte? Ci si conosce di vista. Abitiamo nella stessa città. So che scrive poesie. So che è architetto. Avrà quaranta anni. E invece ha lasciato un commento a un mio testo pubblicato su Le parole e le cose e ha dato anche un titolo al suo commento: Uno sguardo semplice. E a leggere quel titolo ho pensato a un libro di John Berger che si chiama Questione di sguardi. È istruttivo. Inizia così: Il vedere viene prima delle parole. Il bambino guarda e riconosce prima di essere in grado di parlare. Poi arriva un ampio spazio bianco.
Poi comincia il libro. È sabato pomeriggio. Sto aspettando Andrea. Ci siamo sentiti. Nel suo secondo commento a seguire il mio diceva che magari si poteva fare una passeggiata “per paesi e colline della nostra terra”. Perché no? Lo sto aspettando a Santa Caterina, il rione dove abito. Lui sta dall’altra parte, a Santa Petronilla. È arrivato. Lo riconosco. Mi riconosce. Ci salutiamo. Si decide di andare con la sua auto. Dove? Si vedrà. Siamo in due, ci si conosce solo di vista, nessuno dei due dirà: Si va qui. Si va lì. Andrea vorrebbe vedere un posto che già conosce, Collina Nuova. Io invece vorrei vedere la necropoli picena di Belmonte. Da essa giunsero i corredi funerari fra i più significativi di quella civiltà. Ha con sé una cartina molto dettagliata. Quella del Touring Club: Umbria e Marche in scala 1:200.000. Collina Nuova e Belmonte non sono distanti. Si decide di andare, abbiamo tre ore di tempo. Si va prima a Belmonte e poi a Collina Nuova. In macchina si parla di cosa facciamo e del più e del meno e anche di poesia. Ma parlare di poesia è molto complicato. Per fortuna Andrea ha portato il suo Quaderno pubblicato nel 2010 dall’Associazione Culturale “La Luna” di Casette d’Ete. S’intitola La pesa. In esso scrive del suo lavoro in pescheria. Prima di fare l’architetto, nell’attesa del suo lavoro, ha fatto non pochi altri lavori. Il Quaderno porta in epigrafe due versi di Mark Strand: È vero, come ha detto qualcuno, che/ in un mondo senza paradiso tutto è addio. Sono i due versi di avvio della poesia Sinossi: compendio, riassunto. Delle dieci poesie de La pesa “La meccanica delle canocchie” è quella che lo convince di più. Allora apro il quaderno, abbasso lo sguardo. Ora la leggo:
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La meccanica delle canocchie
M’attraeva
la meccanica terminale delle canocchie
quell’angoscioso arrancare nel vuoto
incastrate nel mucchio con il ventre all’aria
– sopra un Golgota animale.
Lo vedevo come un vano tentativo
di graffiare lo sguardo muto di Dio
o come una più elementare
concezione del silenzio.
Non c’era verso di far smettere
quel nervoso agitarsi delle zampette
il protendersi insidioso
delle pseudochele.
Non si sarebbero arrese – pensavo,
fino al gesto definitivo – E mi tentava
l’assurdità di quel resistere dal basso
al compiersi delle cose.
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Siamo arrivati sotto Belmonte. Ci fermiamo a una casa di campagna sotto strada. Andrea entra con l’auto nello spiazzo antistante. Passano parecchi secondi. Esce una signora. Le chiedo se sa dove sono le tombe picene. Ci guarda dubbiosa. Del tipo: E questi due adesso? Da dove escono fuori? Poi la signora si riprende e dice che sono qui, fra questi campi, ma di preciso non lo sa. Dobbiamo chiedere in Comune, ma ora è chiuso. È sabato. Dice che non conosce la procedura per visitarle, ma ripete che sono fra questi campi. E quella su in alto? Quella è Santa Maria. “Stanno facendo una strada per arrivarci”. Raggiungiamo la piccola chiesa sul poggio. Santa Maria in muris – è così che si chiama: Santa Maria sulle preesistenti mura – è del secolo X. Nel 967 la costruzione era completa. In mezzo alla facciata ha un torrione di vedetta e rifugio e campanile. È una chiesa torrione. Si sono fatte le tre e mezza. Non c’è tempo per la necropoli arcaica fra le colline e poi non conosciamo la procedura, come ci ha ammonito con acutezza la signora – procedura: modo di procedere, modo di comportarsi, prassi –. Ci avviamo verso Collina Nuova. Andrea dice che c’è tempo. Ecco, siamo a Collina Nuova. Anche qui è davvero bello. È un piccolo borgo tra le colline, fu edificato a metà del Novecento. Quando Collina Vecchia, la cui datazione è anteriore al Mille, dall’altra parte, in basso, nascosta nella collina di fronte, prese a franare fecero Collina Nuova. Stiamo camminando. Stiamo camminando. Arriva un motorino a gran velocità. A gran velocità. Fende il silenzio. Fende il silenzio. Fuori casa non c’è nessuno. C’è un bar. È aperto. Ci vorrebbe un caffè. No. Dopo. Il vento spinge i cigli erbosi. Il motorino è arrivato. Si è fermato. Il presente nel suo darsi nella sua istantaneità permea di nuovo di silenzio tutto quanto. Sono felice di essere qui. Dico ad Andrea che ho portato con me un mio libro. Mi domanda se c’è la dedica. Gli rispondo che non so scrivere dediche, ma qualcosa ho scritto. È ora di andare. Siamo in macchina. Stiamo rientrando in città. Sto leggendo le altre poesie del suo Quaderno. Sono alla terzultima. Si chiama “L’animale fuori dal quadrato”:
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L’animale fuori dal quadrato
Finita l’asta, caricate sui furgoni le casse,
rimaneva un giorno da consumare nel sonno.
Rimaneva il chiarore della darsena, fuori
dal cerchio degli scambi, dal vocio meticcio
delle gradinate sul mercato – fuori dall’urto
del gelo sulle facce.
L’aspetto primitivo delle cose rimaneva:
l’animale escluso dal quadrato,
e tutto ciò che vi si oppone
– per un diverso senso del commercio.
Rimaneva il tutto mancante di una parte.
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Tre febbraio. Sto sfogliando Questione di sguardi. Cerco un’epigrafe per questo racconto di febbraio. Nel libro si parla principalmente di dipinti e viene indicato un modo per guardarli e procedere tra loro. Poi uno i dipinti li cerca e li guarderà a modo suo ma una procedura, come ha detto ieri la signora di Belmonte, ci vuole. L’ho trovata (l’epigrafe). Ora la trascrivo all’inizio.
[René Magritte, La chiave dei sogni, 1935 (particolare) (ar)].
E’ sempre un piacere leggerti!
Dài, grande Adel: racconta ancora.
Grazie Angelo. Grazie Linnio.
A proposito di raccontare.
Poi ci sono tornato a Collina Nuova. Il motivo principale era per prendere un caffè. Mi era dispiaciuto la volta precedente, quando andai con Andrea, non essermi fermato al bar. Ma non per il caffè. Ma per scambiare due parole. Ma poi non ci sono riuscito (a scambiare due parole, a prendere il caffè sì). Quello che è semplice a volte diventa complicato, ma consola il fatto che quello che è complicato diventa sempre, con l’andare del tempo, incomprensibile. Il barista mi ha chiesto se Collina Vecchia l’avevo vista. Gli ho chiesto come si faceva a andare. Era facile. Duecento metri dopo sulla Provinciale a destra. C’è un cartello: “Fonte Collina Vecchia”. Allora sono sceso a Collina Vecchia. Sta in basso alla collina. Tutti gli altri paesi stanno in cima alle creste e ai poggi. Non si capisce perché Collina Vecchia stia lì, al piede della collina. Viene in aiuto il sito del Comune di Monte Vidon Combatte di cui Collina Vecchia e Collina Nuova sono due frazioni. E’ che lì si lavoravano i metalli e c’era acqua in abbondanza. A un certo punto tre cagnoletti, di quelli piccoli e tenaci, hanno preso a inseguire la macchina. Non li vedevo. Temevo di metterli sotto. Allora mi sono fermato. Ho girato piano con la massima cautela e sono tornato alla Provinciale. Tenevo la radio accesa. I Green Day cantavano una delle loro canzoni. È vero, non è un artificio di questo ps. Quella del tale che cammina etc etc etc etc etc. Mi sono fermato a guardare Collina Vecchia in lontananza. Intanto i tre cantavano e non ci stava poi tanto male la loro canzone. Non capivo perché. Ci sarebbe voluta una musica pacata, serena, a sottolineare quanto stavo vedendo, la scena pacata, serena, delle colline a febbraio. E invece quella musica veloce non ci stava poi tanto male. Forse per il fatto che una musica veloce tiene in sé l’idea di movimento? E io quanto potevo restare lì? Altri tre minuti. Quattro. Cinque. Poi sarei dovuto andare via. Mettermi in moto per tornare qui (a questa sedia). Allora ho spento.
sono sempre piene di mistero queste scritture di Ruggieri: “il tutto mancante di una parte” – e quella parte di mistero è niente affatto spirituale, credo; incornicia bene le belle poesie di Lanfranchi, che guardano all’animale non per sollievo sensuale, ma per – addirittura! – la sua forza cognitiva
grazie e un caro saluto
r
Sai Adelelmo, ho capito che ci sono dei luoghi d’elezione che sono lì da sempre, esistono davvero, e ad incontrarli, un giorno, sembra quasi un’incoerenza nel racconto quotidiano. Eppure, ci sono. E solo se l’immagine persiste, solo se l’idillio non è un idillio ma una realtà diversa che non muore se un motorino arriva e rompe il tempo, il ritmo che uno bene o male già si porta dentro, allora lì si può tornare e prendere un caffè.
– Quel luogo c’è, e ora è nel racconto, anche lui, ma non come invenzione, né sosta esistenziale, ma come case, volti, strade, e il vento che spinge i cigli erbosi – come tu hai detto, come tu dici.
Un caro saluto
Andrea
Cara Renata
quello che ho cercato di “raccontare” con questo “post” e il suo “post – scriptum” è questo “fatto”: Due mesi fa pubblicai su “Le parole e le cose” un testo che si chiamava “Subappennina”. Andrea lo commentò con molta generosità. Ma quello che mi colpì moltissimo è che vive – che abita dove vivo – abito anche io, ma ci si conosceva solo “di vista”. A seguire ci sentimmo. E un sabato all’inizio di febbraio si andò a fare una passeggiata, prima a Belmonte e poi a Collina Nuova. A Belmonte saltò fuori Santa Maria in muris, è davvero sorprendente, almeno secondo me. E lo stesso fu Collina Nuova, ma dire “sorpendente” e dire “stupore” è, almeno un poco, la stessa cosa. Collina Nuova saranno quaranta case, non di più. Ma definiscono un borgo sulle colline, lo definiscono compiutamente. C’era un grande silenzio. C’era il bar aperto. C’erano delle luci. Avrei voluto fermarmi per un caffè e intanto chiedere qualcosa, del tipo “Come si sta qui?”, qualcosa del genere. Ma poi non lo feci. Forse non lo feci perché mi sembrava una invasione senza riserbo. Non so dire meglio di così. Intanto arriva il motorino con il suo rombo. Si ferma. Di nuovo torna un gran silenzio. Le cose erano esattamente a quella maniera. Avrei potuto dirle meglio, scriverle meglio, di come le ho dette, questo è sicuro. Un altro passaggio di tutta questa storia è quando tornai, alcune settimane dopo. Tornai che era un giorno feriale, appena dopo pranzo. Una breve conversazione si svolse, ma non la appuntai e soprattutto non chiesi se potevo pubblicarla. Saranno state non più di dieci battute. La mia prima domanda fu: “Come si sta a Collina Nuova?”. La risposta fu secca. Di una parola soltanto, ma in quella sola parola si raccoglieva per intero il pensiero e forse anche lo stato d’animo di chi mi stava rispondendo.
Vorrei dire anche qualcosa sull’immagine che accompagna questo post: è un particolare di un dipinto di Magritte. Non è lo stesso che sta sulla copertina del libro di Berger per il semplice fatto che quello che sta sulla copertina non poteva essere perché era troppo alto. Quindi si è preso un particolare che si sviluppa in orizzontale. Ma la sequenza pittorica a cui appartiene questo particolare è la stessa. Berger mette in copertina al suo libro “La chiave dei sogni” per questo motivo: “Il rapporto fra ciò che vediamo e ciò che sappiamo non è mai definito una volta per tutte… questo scarto ineludibile tra parola e visione è stato illustrato dal pittore surrealista Magritte in un dipinto intitolato La chiave dei sogni”…
Poi continua: “… Il nostro modo di vedere le cose è influenzato da ciò che sappiamo o crediamo… eppure questo vedere che viene prima delle parole e di cui esse non riescono mai a dare del tutto conto, non dipende dalla reazione meccanica a uno stimolo (la si può vedere in questi termini solo se si isola quella esigua parte che riguarda la retina) … vediamo solamente ciò che guardiamo… guardare è un atto di scelta… Il risultato di tale atto è che quanto vediamo si pone alla nostra portata… Noi non guardiamo mai una cosa soltanto; ciò che guardiamo è, sempre, il rapporto che esiste tra noi e le cose. La nostra visione è costantemente attiva e costantemente mobile… costituendo ciò che ci circonda nella nostra individualità… Quando diciamo che riusciamo a vedere quella collina là in fondo… più radicalmente del dialogo verbale la vista si basa sulla reciprocità… e spesso il dialogo non è che il tentativo di dare voce a tale reciprocità… il tentativo di spiegare come “io vedo le cose” e il tentativo di scoprire come “le vedi tu”… tutte le immagini sono un prodotto dell’uomo…”
Che succede nel quadro di Magritte e perché Berger lo mette in copertina? Succede che c’è una lavagna e una griglia. Un abbecedario insomma, che può essere cancellato. La griglia no. Ma per ogni oggetto c’è un nome del tutto incongruente, e questo è “lo scarto” di cui dice Berger. Qualcosa del genere.
Caro Andrea, sì forse è proprio come dici tu: esistono “luoghi d’elezione”, ma mi piace pensare a questa parola, “elezione”, in questo contesto, nella sua seconda accezione di senso che è : “scelta fatta per propria volontà”, e da qui “luogo d’elezione”, che è quello in cui “si sceglie di vivere, pur non essendovi nati”.
Vi giunga un carissimo saluto
Adelelmo