di Stefano Jossa
[Questo saggio è già apparso sulla rivista «Versants»].
1. Accademia e creatività: Ariosto today.
«Ariosto oggi» è un tema tipicamente americano: Ariosto today è infatti il titolo di un importante libro curato alcuni anni fa da Donald Beecher, Massimo Ciavolella e Roberto Fedi per la Toronto University Press. [1] Il libro si proponeva di fare il punto sulla critica ariostesca all’apertura del XXI secolo, ospitando saggi di Fedi, Casadei, Javitch, Masi, Weaver, e altri, ma non si occupava che cursoriamente di verificare la vitalità e la produttività di Ariosto nella cultura letteraria contemporanea (con l’eccezione di un saggio di Lucia Re su Ariosto e Calvino). L’approccio è tipicamente accademico, con la rigida separazione tra sapere universitario, eruditissimo ma spesso e volentieri noiosissimo, e versante creativo, esuberante ma altrettanto spesso e volentieri potenzialmente superficiale.
Io cercherò di procedere in maniera diametralmente opposta. Partirò dall’universo creativo, i media, il cinema e la letteratura, per arrivare all’elaborazione critica. Dalla società all’accademia, cioè, per fissare punti di partenza e orizzonti d’arrivo. L’obiettivo è quello di verificare la produttività di un classico nell’orizzonte della creatività contemporanea, sondandone i modi e le condizioni di funzionamento nell’ambito della cultura di riferimento. [2]
2. Tempo e racconto: the «old Ariosto» ed Elvis Presley.
La prima ipotesi da verificare, rispetto al tema ‘Ariosto oggi’, è che Ariosto sia soprattutto americano anziché italiano. Per discutere questa ipotesi partirò da un film, Mystery Train di Jim Jarmusch, del 1989. Il film è diviso in tre episodi, Far from Yokohama, The Ghost e Lost in Space: fin dai titoli è possibile riconoscere due temi tipicamente ariosteschi, quello del rapporto tra viaggio e distanza e quello del rapporto tra verità e finzione; ma si tratta di dati esteriori, che un bravo critico dotato di buoni strumenti concettuali e raffinate capacità analitiche potrebbe trovare con facilità in ogni situazione. Bisognerà scendere più in profondità, allora, esaminando la trama del film: il primo episodio racconta la storia di due ragazzi giapponesi, un ragazzo e una ragazza (Youki Kudoh e Masatoshi Nagase), che si recano a Memphis alla ricerca delle tracce di Elvis Presley, con la speranza di poterne prima o poi vedere il fantasma; il secondo episodio vede come protagonista una vedova italiana (Nicoletta Braschi), che si trova nella stessa città e va alla ricerca di un albergo per passare la notte; la terza storia, infine, racconta di tre balordi (Joe Strummer, Rick Aviles e Steve Buscemi) che – sempre a Memphis – rapinano un negozio di superalcolici, feriscono il proprietario e poi si ubriacano selvaggiamente in albergo per la paura di venire scoperti e arrestati.
[poster dell’edizione italiana del film Mystery Train di Jim Jarmusch]
Cos’è che unisce i tre episodi, apparentemente del tutto slegati e senza rapporti? Prima di tutto il luogo, Memphis; ma ci sono anche tre nessi più specifici che li collegano: l’arrivo dei personaggi, in tutti e tre gli episodi, in una malandata pensione custodita da un portinaio notturno (Screamin’ Jay Hawkins) e dal suo scarmigliato fattorino (Cinqué Lee), la presenza della canzone Blue Moon di Elvis Presley e l’eco di uno sparo. Quest’ultimo soprattutto serve a riunire gli episodi non solo tematicamente, ma anche narrativamente, perché ne congiunge il tempo all’insegna della simultaneità, che la narrazione lineare del cinema non può rendere se non ricorrendo a un segnale connettivo. Alla fine dell’ultimo episodio uno dei tre balordi prova a spararsi ma viene fermato da un amico. Lo sparo echeggia per tutto l’albergo e lo spettatore ritorna al momento in cui si erano interrotti i primi due episodi, che si concludevano entrambi con l’eco di uno sparo.
A questo punto bisogna concentrarsi sulla figura di Luisa (Nicoletta Braschi) che porta sempre con sé un libro, spesso esibito in primo piano. Lo spettatore attento (e colto) riconoscerà in quel libro dalla copertina verde con riquadro arancione l’Orlando furioso nell’edizione Garzanti del 1974, col commento di Marcello Turchi e la prefazione di Edoardo Sanguineti. Perché Luisa lo porta con sé?
[Nicoletta Braschi (Luisa) nell’episodio The Ghost di Mystery Train, con l’Orlando furioso sul comodino]
Si tratta di un preciso segnale metatestuale, di uno di quei segnali, cioè, che invitano il lettore o lo spettatore a riflettere sul testo, sia esso un libro, un quadro o un film: l’Orlando furioso serve a Jarmusch per denunciare, spiegare, smascherare e rivelare la struttura narrativa e il sistema dei significati del suo film. La critica letteraria ha da qualche tempo elaborato il concetto di mise-en-abyme per descrivere queste sottigliezze procedurali: la mise-en-abyme è «toute enclave entretenant une relation de similitude avec l’œuvre qui la contient» (‘qualsiasi inserto che intrattenga una relazione di somiglianza con l’opera che la contiene’). [3] L’Orlando furioso nel film Mystery Train funziona proprio come una mise-en-abyme, un ingresso in profondità nel sistema di significati del testo, per gli spettatori che sono in grado di coglierlo. Un uso elitistico, quindi, che serve anche a stabilire il discrimine fra spettatore intelligente, che arriva a cogliere il significato più riposto del film, e spettatore comune, che si fermerà alla storia senza andare oltre: mentre per il secondo il film sarà prima di tutto un intrattenimento, per il primo sarà una lezione di tecnica del racconto e di filosofia della storia.
Nel momento in cui mette in scena l’Orlando furioso come segnale metatestuale per invitare lo spettatore a ricostruire la tecnica narrativa e la riflessione filosofica del film, Jarmusch sta naturalmente facendo riferimento alla struttura del poema, con la sua macchina narrativa dalla miriade di fili interrotti e ripresi, con il suo montaggio a sbalzi e la sua andatura spiraliforme. Dalla metafora foscoliana del moto ondoso dell’oceano, che faceva esclamare a Didimo Chierico di fronte alle onde dell’Atlantico «così vien poetando l’Ariosto», ai più recenti paralleli col gioco dei tarocchi, le catene di cruciverba, il palazzo di Atlante e il passo del cavallo si sono moltiplicate le immagini e le similitudini per la tecnica narrativa del poema. [4] Qui riporterò solo un esempio che servirà a illustrare l’operazione di Jarmusch, il caso più famoso di interruzione e ripresa per riconnettere il tempo del racconto a quello della storia: nel XII canto, ottava 65, Angelica, al culmine delle sue peregrinazioni per fuggire dagli amanti che l’inseguono e la pretendono, «fra duo compagni morti un giovinetto / trovò, ch’era ferito in mezzo il petto» (vv. 7-8). [5] Il giovinetto è Medoro, che non solo non è stato ancora ferito, ma non è neppure ancora comparso nel poema. Mentre Angelica scappava dai suoi inseguitori si sviluppavano dunque altre vicende, che Ariosto dovrà ricongiungere al filo narrativo della storia di Angelica. Quest’ultima sparisce, perciò, per ben sette canti, dal XII al XIX. Ariosto lo sa e lo dice: «Ma non dirò d’Angelica or più inante; / che molte cose ho da narrarvi prima» (XII 66, 1-2). Nel XIX canto, ottava 17, la ricomparsa di Angelica, che incontra Medoro appena ferito e quasi in punto di morte, viene dunque salutata dall’autore con un richiamo ai lettori perché ricongiungano i fili della storia:
Gli sopravenne a caso una donzella,
avolta in pastorale ed umil veste,
ma di real presenza e in viso bella,
d’alte maniere e accortamente oneste.
Tanto è ch’io non ne dissi più novella,
ch’a pena riconoscer la dovreste:
questa, se non sapete, Angelica era,
del gran Can del Catai la figlia altiera.
Il gioco ariostesco coi fili della storia è magistrale: i lettori, che seguono la linearità del racconto, si saranno dimenticati di Angelica, ma solo grazie a questa sparizione Ariosto può restituire la simultaneità di due storie, quella di Angelica e quella di Medoro, che sono avvenute contemporaneamente ma devono essere raccontate in successione. Se Ariosto non ricordasse che la storia di Angelica era stata interrotta molto tempo prima, si avrebbe solo un incontro e si perderebbe la convergenza tra le due storie: il segnale ariostesco, invece, consente di riannodare i fili e ricongiungere il tempo, individuale, dei personaggi al tempo, collettivo, della storia. Proprio come l’Orlando furioso aveva sapientemente intrecciato storie diverse attraverso meccanismi d’interruzione, ripresa e interconnessione, così Mystery Train invita lo spettatore a ragionare sulla pluralità dei fili narrativi e il loro intreccio nel racconto.
Ariosto funziona quindi prima di tutto, sul piano letterario e cinematografico, come un grande laboratorio narratologico per indagare il rapporto tra tempo e racconto. La distinzione tra tempo della storia e tempo del racconto si deve a due grandi critici francesi, Émile Benveniste e Gerard Genette, che hanno usato rispettivamente i termini di storia e discorso e storia e racconto; alle loro spalle c’è la distinzione, dovuta ai formalisti russi, tra fabula e intreccio, cosa viene detto e come viene costruito. [6] L’Ariosto di Jarmusch sta quindi dentro una tradizione di riflessione sulle tecniche della narrazione, tra formalismo e strutturalismo, che ben presto si sarebbe esercitata proprio sul laboratorio del poema ariostesco, terreno ideale per una verifica empirica delle elaborazioni teoriche della critica letteraria degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Ariosto diventa un modo, infine, per interrogare il tempo, il modo con cui la narrazione lo rappresenta, e i significati che l’una o l’altra scelta narrativa portano con sé.
A questo punto sarà più facile dare uno spessore maggiore alla presenza ariostesca nel film Mystery Train. Nel secondo episodio del film, A Ghost, Luisa (Nicoletta Braschi) è a letto a leggere l’Orlando furioso, mentre la nuova amica, appena incontrata, con cui condivide la stanza d’albergo, Dee Dee (Elizabeth Bracco), parla ininterrottamente dei suoi problemi sentimentali. Dopo averne ascoltato gli sfoghi e le lamentele, Luisa racconta la storia, famosa a Memphis, dell’autostoppista che compare a tutti i viandanti e che alla fine si rivela Elvis; Dee Dee la interrompe, si fa distrarre dal rumore che viene dalla stanza accanto e si addormenta; mentre la radio intona le note di Blue moon, dalla finestra entra il fantasma di Elvis. Luisa chiama l’amica, ma non riesce a svegliarla. Ed Elvis si dissolve.
Perché tra tutti i personaggi del film Luisa è l’unica a vedere il fantasma di Elvis Presley, benché, a differenza dei due giapponesi del primo episodio, non sia a Memphis per cercarlo? La risposta potrà suonare sciocca: perché legge l’Orlando furioso. Se si pensa, però, che la visione di Elvis segue una classica scena di incomunicabilità da cinema urbano degli anni Ottanta, il senso della lettura del poema ariostesco da parte di Luisa potrà cominciare ad arricchirsi: mentre Dee Dee è tutta presa da sé, dalla sua realtà materiale e sentimentale, Luisa riesce ad aprirsi all’altro, all’incontro e all’occasione, perché legge il libro che più di ogni altro insegna il valore del caso, dell’incontro, dell’avventura e della possibilità. [7] In Mystery Train Ariosto funziona allora non solo come grande laboratorio narratologico, sul piano letterario e cinematografico, ma anche come un modo per indagare il caos e la coincidenza, sul piano filosofico.
Come mai Jarmusch ricorre proprio all’Orlando furioso per esibire, metanarrativamente, la struttura del suo film? [8] È certo che Jarmusch conosce e ama l’Orlando furioso, come ha dichiarato lui stesso in numerose interviste; [9] ma la cosa, in fondo, non c’interessa. Non si tratta di indagare la soggettività dell’autore, Jarmusch in questo caso, ma di capire come funziona un testo, qui il film Mystery Train, nel suo sistema di significati. Questa è la differenza tra il biografismo, ancora tanto caro alla critica italiana, e i cultural studies nella loro accezione migliore: da un lato il testo dipende dall’autore, dalla sua vita e dai suoi gusti, dall’altro il testo significa qualcosa perché fa riferimento a un sistema culturale riconoscibile e condiviso. Si tratta cioè di mettere insieme discorsi e strumenti diversi, sulla base dei principi di evoluzione, parentela e affinità, ma soprattutto di contaminazione, all’insegna della reciproca interconnessione e sostituibilità. [10]
Ciò che c’interessa, insomma, è che Jarmusch potesse leggere l’Orlando furioso in quel modo perché lo riceveva all’interno di una precisa tradizione e di un preciso contesto. Ariosto poteva essere letto come un laboratorio narratologico, perché così l’aveva letto, nella tradizione anglosassone, ben prima che il termine narratologia esistesse, Walter Scott, che gli aveva affidato proprio il compito di far da modello per la costruzione del racconto, nel tentativo di tenere insieme tempo della storia e tempo dell’individuo, cioè la complessità degli eventi simultanei e la singolarità delle vite individuali. All’inizio del XV capitolo di The Heart of Midlothian (1818), Scott rimandava all’autorità ariostesca per spiegare la tecnica narrativa del suo racconto. L’unico modo di tenere insieme quelle che un tessitore, un knitter, chiamerebbe le maglie sdrucite, dropped stitches, del suo tessuto è ricorrere alla tecnica di Ariosto, che interrompeva la storia di uno dei suoi personaggi per prendere quella di un altro fino a farli incontrare: [11]
Like the digressive poet Ariosto, I find myself under the necessity of connecting the branches of my story, by taking up the adventures of another of the characters, and bringing them down to the point at which we have left those of Jeanie Deans. It is not, perhaps, the most artificial way of telling a story, but it has the advantage of sparing the necessity of resuming what a knitter (if stocking-looms have left such a person in the land) might call our “dropped stitches;” a labour in which the author generally toils much, without getting credit for his pains.
[Come il digressivo Ariosto, mi trovo ora nella necessità di collegare i rami della mia storia, prendendo a narrare le avventure di un altro mio personaggio e portandole fino al punto in cui abbiamo lasciato quelle di Jeanie Deans. Non è probabilmente il modo più elegante di raccontare una storia, ma ha il vantaggio di risparmiare la necessità di riannodare quelle che un tessitore (se i magazzini hanno consentito a un simile lavoro di sopravvivere nel paese) chiamerebbe le nostre “maglie sdrucite”; un lavoro su cui generalmente l’autore si affatica per molto tempo, senza che ciò gli venga granché riconosciuto.]
Scott sta usando un linguaggio ariostesco, perché era stato proprio Ariosto a paragonare, all’interno dell’Orlando furioso, la sua tecnica narrativa all’operazione della tessitura in ben due luoghi del poema (II 30, 5-6 e XIII 81, 1-2):
Ma perché varie fila a varie tele
uopo mi son, che tutte ordire intendo…
Di molte fila esser bisogno parme
a condur la gran tela ch’io lavoro.
Si tratta, com’è noto, di due passi che sottolineano proprio l’abbandono di un personaggio a favore di un altro scenario, la prima volta Rinaldo per Bradamante, la seconda il castello di Atlante, dove si affannano Bradamante e Ruggiero, per l’assedio di Parigi. Proprio a questa tecnica narrativa Scott farà di nuovo riferimento alla fine del XVII capitolo dell’Ivanhoe, solo un anno dopo The Heart of Midlothian, per spiegare il meccanismo di interruzione e ripresa che presiede alla narrazione romanzesca: [12]
The occasion of this interruption we can only explain by resuming the adventures of another set of our characters; for, like old Ariosto, we do not pique ourselves upon continuing uniformly to keep company with any one personage of our drama.
[L’occasione di questa interruzione la possiamo spiegare solo con l’intenzione di recuperare le avventure di un altro gruppo dei nostri personaggi; dal momento che, come il vecchio Ariosto, non ci atteniamo al principio di stare continuamente in compagnia di ciascuno dei personaggi della nostra storia.]
Ariosto è colui che ha insegnato a gestire il tempo narrativo nella modernità, costruendo un racconto capace di rappresentare la simultaneità di varie storie sulla scena del mondo. Rendere conto della contemporaneità degli eventi e della varietà delle situazioni sarà possibile, nel romanzo moderno, solo grazie alla lezione dell’antico maestro ferrarese. La testimonianza di Scott è tanto più notevole quanto più, pochi anni prima, nel Waverley (1814), lo stesso Scott aveva rigettato il modello ariostesco come inadeguato rispetto alle esigenze narrative del romanzo moderno: al momento del passaggio di Edward dalla giovinezza all’età adulta, l’autore si sentiva in dovere di giustificarsi con le lettrici perché il suo libro non sarebbe stato «a flying chariot drawn by hippogriffs, or moved by enchantment» («un carro volante tirato da ippogrifi o mosso per incantamento»), con chiaro rigetto della materia cavalleresca in generale e ariostesca in particolare. [13] La svolta intercorsa tra il Waverley e l’Ivanhoe è dunque non solo ideologica e artistica, ma anche una revisione della tradizione, col passaggio da un inadeguato Ariosto cavalleresco a un modernissimo Ariosto narratore.
Jarmusch conosceva Scott? La questione, come ho già detto, non ha importanza. Quello che importa è che Ariosto, nella cultura anglosassone, può essere letto in un certo modo perché c’è un immaginario letterario che lo presenta e recepisce in un certo modo. Jarmusch agisce e lavora, insomma, all’interno di una tradizione che consente di leggere il poema ariostesco come laboratorio narrativo. Non c’era certo solo Scott in questa tradizione, ma ora, definito il punto di partenza, andiamo a vedere il contesto culturale.
3. Il contesto culturale: può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?
Il film di Jarmusch nasce in un contesto culturale particolarmente attento al problema delle coincidenze significative e alla teoria del caos. Nel 1979 il famoso matematico Edward Norton Lorenz aveva intitolato una conferenza tenuta all’American Association for the Advancement of Sciences «Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?» (Does the flap of a butterfly’s wings in Brazil set off a tornado in Texas?). [14] La frase è divenuta in seguito proverbiale, a indicare appunto le coincidenze casuali e significative. Ritorna, tanto per fare un esempio commerciale, nel film Jurassic Park di Steven Spielberg (1993), tratto dall’omonimo libro di Michael Crichton del 1990, dove il protagonista, il matematico e teorico del caos Ian Malcolm (interpretato da Jeff Goldblum), afferma: «Una farfalla batte le ali a Pechino e a New York arriva la pioggia invece del sole» (A butterfly can flap its wings in Peking, and in Central Park you get rain instead of sunshine). L’“effetto-farfalla” è diventato una branca della teoria del caos, ma ha anche prodotto ulteriori film di fantascienza, come The Butterfly Effect di Eric Bress e J. Mackye Gruber (2004), con i suoi sequel The Butterfly Effect 2 (2006) e The Butterfly Effect 3 (2009). Nel primo film della serie si trova la battuta «Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo» (The flutter of a butterfly’s wings can cause a hurricane on the otherside of the world), ennesima discendente della frase di Lorenz. Butterflies and Hurricanes è infine il titolo di un singolo del gruppo musicale britannico Muse, il quinto estratto dal terzo album studio Absolution, che venne pubblicato il 20 settembre 2003. Il mondo del cinema e della musica pop, inutile dirlo, costituiscono il contesto di riferimento di Jarmusch.
L’interesse per Ariosto nell’ambito della cultura americana, insomma, discende da una tradizione specificamente letteraria, come attesta il precedente di Scott, ma si colloca anche nell’ambito di una riflessione a più ampio raggio, come rivela il dibattito filosofico e matematico, con le sue ricadute nel cinema popolare. La ricerca resta ancora tutta da compiere, ma è significativo, credo, che Ariosto sia stato rilanciato sulla scena letteraria proprio dalla critica americana negli anni Settanta e Ottanta con una serie di sondaggi volti soprattutto a verificarne le potenzialità filosofiche. Fino a trenta anni fa, infatti, Ariosto era uno degli autori meno studiati tra i grandi classici della letteratura italiana – i motivi sono noti, De Sanctis e Croce lo avevano di fatto ridotto alle due grandi definizioni dell’ironia e dell’armonia, senza possibilità di nuove indagini e nuove letture. A partire dagli anni Novanta, invece, si verifica una riscoperta di Ariosto, che discende prima di tutto dall’arrivo in Italia, grazie agli studi di Zatti e di Ceserani, dell’elaborazione americana. Gli studi di Durling, Ascoli e Carne-Ross, avevano cambiato profondamente la ricezione del poema ariostesco, rivendicando la possibilità di letture narratologiche, sociologiche e psicologiche che fino ad allora in Italia erano state inibite. [15]
Già nel 1951, infatti, chiedendosi perché Ariosto fosse praticamente ignorato dalla critica anglo-americana, Carne-Ross invitava a riflettere sulle potenzialità filosofiche del suo discorso: [16]
Ariosto’s ‘irony’ is not a mocking or cynical scepticism; it is rather what De Gourmont calls un esprit ouvert à la compréhension multiple des choses, a certain emotional detachment from the situation in hand.
[L’‘ironia’ di Ariosto non è dovuta a scetticismo, sia esso canzonatorio o cinico; si tratta piuttosto di quello che De Gourmont chiama ‘uno spirito aperto alla comprensione multipla delle cose’, un certo distacco emotivo dalla situazione in atto.]
Piuttosto che insistere sul distacco emotivo dell’autore rispetto alla materia, qui sarà utile valorizzare la citazione da Remy de Gourmont, che apriva la lettura dell’Orlando furioso verso uno spazio filosofico, caratterizzato dalla considerazione della molteplicità del reale e dei punti di vista. Se pensiamo che l’articolo di Carne Ross è del 1951, che la teoria del caso e del caos si diffonde tra gli anni Sessanta e Settanta, e che il film di Jarmusch è del 1989, quest’ultimo starà dentro una storia culturale in maniera molto meno casuale e più motivata di quanto possa sembrare: non solo l’osservazione di Scott, insomma, ma il nesso evidente tra la citazione di de Gourmont proposta da Carne-Ross e le successive speculazioni su caos e caso, dai matematici fino a Jurassic Park, collocano il film di Jarmusch in una precisa tradizione e in un preciso contesto.
Si tratta, insomma, di partire dalla convinzione che il sistema di significati di una cultura proceda come una rete di relazioni tra saperi disparati, che non dipendono l’uno dall’altro, ma l’uno all’altro rimandano: come ha scritto Clifford Geertz, «se l’uomo, con Weber, è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste ragnatele e che perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato». [17] Da storici della cultura, anziché descrivere fenomeni e dati, bisognerà, secondo l’invito di Peter Burke, «far emergere i collegamenti fra attività diverse», [18] con lo scopo di mettere in rilievo l’esistenza di rapporti indipendentemente da contatti diretti e relazioni causali. Da qualunque punto si parta sarà possibile ricostruire l’insieme, perché la rete non ha gerarchie ma funziona solo in quanto tessuto di rimandi. L’operazione spetta al critico, naturalmente, perché, come spiegava Michel Foucault ben prima della nascita dei cultural studies, «l’ordine è, a un tempo, ciò che si dà nelle cose in quanto loro legge interna, il reticolo segreto attraverso cui queste in qualche modo si guardano a vicenda, e ciò che non esiste se non attraverso la griglia d’uno sguardo, d’un’attenzione, d’un linguaggio; soltanto nelle caselle bianche di tale quadrettatura esso può manifestarsi in profondità come già presente, in silenziosa attesa del momento in cui verrà enunciato». [19]
4. Caos e combinazione: An Academic Romance.
Alle spalle di Jarmusch c’è tuttavia, sullo sfondo del contesto culturale che abbiamo appena sommariamente descritto, un rilancio di Ariosto ben più recente. In un libro di grande successo nell’ambiente accademico anglo-americano, Small World di David Lodge (1984, cinque anni prima del film di Jarmusch; tradotto in italiano come Il professore va al congresso), [20] l’Orlando furioso funziona come subtesto per smascherare la costruzione narrativa e il sistema dei significati.
L’autore dichiara fin dall’inizio di essersi ispirato alla narrazione di tradizione romanzesca e cavalleresca: il sottotitolo del libro è infatti An Academic Romance. Tra i riferimenti possibili c’è di certo l’Orlando furioso. Il nome di Ariosto viene esplicitamente menzionato tra gli autori di riferimento della tesi di dottorato della bella studentessa da tutti cercata e desiderata, che guarda un po’ si chiama Angelica. [21] Poco più avanti Angelica ascolta una conferenza del Prof. Morris Zapp, che presenta il romance come «narrative striptease»: il piacere del testo discende dal fatto che il lettore viene trattenuto fino all’ultimo e la rivelazione incessantemente rimandata, con un meccanismo di provocazione che sta nel gesto stesso anziché nel suo effetto, nella lettura piuttosto che in ciò che essa provoca così come nel togliersi indumenti piuttosto che nello scoprire qualcosa o determinare una conseguenza. Il romance insomma è il fondamento di una moderna teoria della letteratura, in cui sono espliciti i riferimenti alle lezioni dei grandi maestri francesi degli anni Sessanta e Settanta, Roland Barthes,che aveva parlato di «piacere del testo», e Gerard Genette, che aveva descritto il senso stesso della letteratura, citando Borges, come «l’imminenza di una rivelazione che non si produce». [22] Il romanzo che più di ogni altro contiene stripteases, come mise-en-abyme di questo meccanismo, è naturalmente l’Orlando furioso, dove «Ariosto’s heroines for instance, are always losing their clothes and being gloated over by the heroes who rescue them». [23] Con sottile ironia, reificando la metafora in modo da compiacere il lettore, Lodge colloca Ariosto nella riflessione letteraria che discende dallo strutturalismo e dalla narratologia. Il riferimento diventa però più sottile e intrigante quando il giovane scholar Persse McGarrigle trova il professor Robin Dempsey nascosto nell’armadio della stanza d’albergo che dovrebbe essere di Angelica. Entrambi sono stati invitati lì da Angelica in persona: a Dempsey, però, Angelica ha detto che si sarebbero incontrati «like Ruggiero e Alcina». «She told me the story – Dempsey commenta – it sounded pretty sexy». [24]
L’Orlando furioso serve quindi anche qui come mise-en-abyme del meccanismo costruttivo del romanzo. L’inseguimento dell’oggetto perduto e l’incontro dovuto al caso sono i due elementi decisivi dell’intreccio di Small World. Tutti i personaggi, i vari studiosi e professori che vanno in giro per il mondo a convegni internazionali, si incontrano infatti all’aeroporto di Heathrow, dove la simpaticissima addetta al check-in Cheryl Summerbee si diverte a combinare i passeggeri a seconda delle sue intuizioni e dei suoi gusti: «In Cheryl Summerbee’s hands, seat allocation was a fine art, as delicate and complex an operation as arranging blind dates between clients of lonelyhearts agency». [25] Cheryl Summerbee è, in altre parole, una figura dell’autore: come Cheryl si diverte a combinare i passeggeri sull’aereo, così Ariosto e Lodge si divertono a combinare i loro personaggi nel romanzo. Quanto il gioco intertestuale sia importante ai fini dell’interpretazione, perché tutto è fondato su un caso che non è casuale ma gestito da un’accorta regia, si scopre solo molto più avanti, quando Cheryl Summerbee dichiara che una passeggera le ha consigliato alcune letture: la sua preferita è l’Orlando furioso, «it’s more amusing», dice. [26]
Anche qui, insomma, come in Mystery Train, ci troviamo di fronte, da un lato, all’esplorazione di una macchina narrativa, dall’altro, a un interrogativo di senso. Da un lato c’è il problema, di ordine narratologico, di come gestire la pluralità e la simultaneità della storia nel racconto; dall’altro lato c’è il problema, di ordine filosofico, del senso che discende dal caos e dalla casualità degli incontri. Sliding doors: se non avessi mancato quell’evento, quest’altro non sarebbe potuto succedere. Solo perché Orlando non l’ha raggiunta (evento mancato), Angelica può stare con Medoro (evento realizzato). Il sottotitolo del romanzo, An Academic Romance, smaschera chiaramente la matrice culturale e letteraria dell’operazione narrativa di David Lodge. Cinque anni prima era infatti uscito in America, presso Princeton University Press, il libro di Patricia Parker intitolato Inescapable Romance, il cui primo capitolo, The Errors of Romance, era dedicato proprio all’Orlando furioso. [27] Lodge ha più volte dichiarato di essere giunto all’Orlando furioso proprio attraverso il libro della Parker, ma alla fine l’Orlando furioso è diventato per lui sinonimo di romance, termine che egli opponeva a novel per sperimentare delle potenzialità narrative nuove: [28]
I then started to broaden out the generic intertextuality of it, to include not just the Arthurian story but the romance tradition to which the Arthurian stories belong, going back to classical Alexandrian romance, and forward to Renaissance epic romance. Again by a lucky chance I happened on Patricia Parker’s Inescapable Romance in our campus bookshop. It doesn’t usually stock rather esoteric, academic monographs like that, but there it was, in hardback, a new book. She deals with a number of Renaissance romance writers, and both Spenser and Ariosto particularly interested me. I had studied Spenser as a student, but I didn’t know very much about Ariosto so I got a translation of Orlando Furioso and read bits of it. I immediately saw all kinds of possibilities, and I began to get interested in the whole idea of romance as a type of narrative. I thought about writing a novel, deliberately alluding to the genre of romance, which would licence me to contrive all kinds of coincidences and twists in the story that might otherwise be too hard to swallow. Thus there’s a little epigraph from Nathaniel Hawthorne in the front of Small World, which says, “When a writer calls his work a Romance, it need hardly be observed that he wishes to claim a certain latitude, both as to its fashion and material, which he would not have felt himself entitled to assume had he professed to be writing a Novel.”
[Allora ho cominciato ad allargare i generici riferimenti intertestuali del romanzo, in modo da includere non solo le storie arturiane ma tutta la tradizione romanzesca cui le storie arturiane appartengono, risalendo all’antico romanzo alessandrino e raggiungendo il romanzo cavalleresco rinascimentale. Di nuovo per una circostanza fortunata mi capitò d’imbattermi nel libro Inescapable Romance di Patricia Parker nella libreria del campus – che di solito non ha saggi accademici, piuttosto esoterici, come questo, ma stavolta c’era, con la copertina dura, appena uscito. La Parker affronta vari scrittori rinascimentali, e sia Spenser sia Ariosto m’incuriosirono. Avevo studiato Spenser da studente, ma non sapevo granché su Ariosto, così mi procurai una traduzione dell’Orlando furioso e ne lessi dei pezzi. Subito mi resi conto della varietà delle possibilità, e cominciai a interessarmi all’idea del romance nel suo insieme come una specifica forma narrativa. Ho pensato di scrivere un romanzo, facendo di proposito riferimento al genere del romance, il che mi avrebbe permesso di ordire all’interno della storia ogni tipo di coincidenze e intrecci, che altrimenti sarebbe stato troppo difficile incorporare. Perciò in apertura di Small World c’è una breve epigrafe tratta da Nathaniel Hawthorne, che dice: «Quando uno scrittore chiama la sua opera una narrazione romanzesca, non si può che riconoscere che egli sta reclamando una certa latitudine in termini sia di stile che di contenuto, cui non avrebbe potuto aspirare se avesse dichiarato di scrivere un romanzo».]
La citazione in esergo da Nathaniel Hawthorne punta proprio a questo: [29] a specificare che il romance (romanzo cavalleresco), a differenza del novel (romanzo moderno), va in cerca di nuovi spazi narrativi, nuove potenzialità combinatorie e nuove formulazioni del racconto. Lodge sta chiaramente costruendo, a partire da qui, un romanzo ariostesco, che in inglese chiamerà appunto romance anziché novel. Ariosto funzionerà per tutto il romanzo come un detonatore che serve a far esplodere la latitudine del testo, cioè allargarlo dall’interno in più direzioni. Qual è il senso di questo allargamento? Prima di tutto c’è l’obiettivo di rappresentare un mondo senza più confini, in cui incontri e combinazioni sono facilissimi; in secondo luogo l’autore si propone di esplorare sul piano narrativo le potenzialità della combinazione casuale, esattamente come imponeva la riflessione filosofico-matematica allora dominante.
Se Jarmusch avesse letto oppure no Small World, o Inescapable Romance, è del tutto irrilevante ai fini di questo discorso: si tratta di ricostruire, infatti, una cultura, un’atmosfera intellettuale e un immaginario ambientale, anziché cercare fonti e provenienze. Pierre Bourdieu ha recentemente parlato di «campo», uno «spazio dei possibili, trascendente rispetto ai singoli agenti», che «agisce come una specie di sistema di coordinate comuni»: «fa sì che i creatori contemporanei, anche quando non si riferiscono consapevolmente gli uni agli altri, siano oggettivamente situati gli uni rispetto agli altri». [30] Innestandosi su una riflessione scientifica ed estetica che s’interroga sulle questioni del caos e del caso, delle coincidenze casuali e delle combinazioni possibili, dell’incontro e della perdita, delle condizioni dell’invenzione e di quelle della narrazione, Ariosto oggi viene a costituire un «campo», all’interno del quale le questioni individuate s’impongono, indipendentemente da relazioni precise, a chiunque si occupi, creativamente o analiticamente, dell’Orlando furioso.
Un film di oltre vent’anni fa costituisce quindi un’occasione non tanto per riscoprire un classico, quanto per verificarne le potenzialità e il senso nell’attualità, in relazione ai problemi conoscitivi e comunicativi del nostro presente. Come si racconta la storia senza appiattirla sulla necessaria linearità della narrazione? Che rapporto c’è tra gli eventi e il caso? Chi regola gl’incontri sullo scacchiere di un mondo apparentemente incontrollabile? La potenzialità delle combinazioni è fonte di dispersione e frustrazione o di occasioni e divertimento? Ariosto ha tanto da dire perché è un vero classico, e il classico ha la forza d’incontrarsi col mondo e di venire riletto nella storia: [31] non si tratta di costringerlo ad anticipare il nostro tempo nel suo, ma di riconoscere la sua presenza nel nostro. [32]
5. Letteratura come conoscenza.
A questo punto dobbiamo tirare le fila. Mystery Train, da cui siamo partiti, ha alle spalle non solo i romanzi di Scott e il dibattito degli anni Sessanta e Settanta su caso e caos, ma anche i libri ben più recenti della Parker e di Lodge. Li conosceva Jarmusch? Ancora una volta, lo ribadiamo, la domanda non ha importanza: Jarmusch vive e lavora in cui contesto culturale in cui l’Orlando furioso significa e rappresenta qualcosa, perché è stato letto, recepito, riusato e riproposto in un certo modo.
Ritorniamo però un momento all’inquadratura di Nicoletta Braschi con l’Orlando furioso in mano: si tratta dell’edizione Garzanti del 1974, come rivela inequivocabilmente la copertina verde con riquadro arancione. Potrebbe non essere un caso, allora, se si pensa che quell’edizione ha la prefazione di Edoardo Sanguineti. Era stato proprio Sanguineti, infatti, nel 1969, in collaborazione con Luca Ronconi, a presentare a un pubblico non certo di massa, ma comunque al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti, un’idea dell’Orlando furioso come laboratorio narrativo delle combinazioni possibili: nella chiesa di San Nicola di Spoleto, durante il Festival dei Due Mondi, l’Orlando furioso venne messo in scena con un apparato di macchine che portavano i cavalieri erranti attraverso il loro gioco di inseguimenti e fughe in uno spazio circolare che doveva rendere conto della sostanziale immobilità del meccanismo unita alla ripetibilità e perennità del movimento temporale, invitando il pubblico ad «attraversare certe sezioni analoghe, proposte contemporaneamente ma connesse in modo assolutamente libero», sì da portare in luce «il loro carattere di assoluta contemporaneità e simultaneità reciproca», come dichiarava Ronconi nell’intervista che accompagnava la stampa della sceneggiatura. [33] Per «tradurre in simultaneità di tempo quel suo romper le fila e riprenderle», diceva a sua volta Sanguineti nella stessa intervista, bisognava portare in primo piano sul palcoscenico «l’artificio tecnico su cui il poema è costruito», che produce sostanzialmente un effetto fondato su tre elementi, «il gioco, la perdita, il recupero continuo dei piani della storia». [34] Tutto centrato sulla macchina narrativa, lo spettacolo metteva in scena il poema dell’orchestrazione e della contemporaneità, della varietà degli eventi e della loro simultaneità, in modo da rendere lo spettatore «libero, per la prima volta nel teatro italiano, di raccogliere e montare alla sua maniera le tessere del puzzle che più gli garbano». [35]
[La macchina dell’ippogrifo nello spettacolo di Sanguineti e Ronconi]
Un anno dopo Italo Calvino pubblicava l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino. [36] Ad Ariosto Calvino era stato accostato fin dai tempi del Sentiero dei nidi di ragno, il suo primo romanzo, in una recensione di Cesare Pavese («c’è qui dentro un sapore ariostesco»). [37] Nella prefazione del romanzo aggiunta per l’edizione del 1964, il nome di Ariosto tornava come riferimento imprescindibile per la narrazione italiana dopo la guerra e il fascismo: istituendo un nesso tra il proprio romanzo e Una questione privata di Beppe Fenoglio, Calvino sottolineava il carattere insieme fantastico e realistico di quest’ultimo, «costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso». [38] Con Ariosto Calvino continuava a confrontarsi nel corso degli anni, inserendo un personaggio ariostesco, Bradamante, nel terzo romanzo della trilogia «I nostri antenati», Il cavaliere inesistente (1959), e due racconti ariosteschi, Storia dell’Orlando pazzo per amore e Storia dell’Astolfo sulla luna, nel Castello dei destini incrociati (1973). Ad Ariosto Calvino dedicava inoltre più tardi i saggi La struttura dell’«Orlando» (1974), Ariosto geometrico (1974) e Piccola antologia di ottave (1975). [39] Con la pubblicazione dell’Orlando furioso raccontato la sintonia poetica si faceva riflessione critica. Ariosto entrava nel sistema di riferimento obbligatorio di chi si occupava di Calvino. La fortuna americana di quest’ultimo favoriva l’americanizzazione di Ariosto di cui abbiamo parlato. Nel 1984 Calvino era invitato a tenere un ciclo di sei lezioni all’Università di Harvard per definire un promemoria per la letteratura del nuovo millennio: i valori enunciati da Calvino erano leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. Ariosto e l’Orlando furioso sono nominati solo due volte, nelle prime due lezioni, quelle su Leggerezza (a proposito del viaggio sulla luna) e Rapidità (a proposito degli scambi di oggetti magici), [40] ma i valori enunciati erano tutti facilmente leggibili come ariosteschi, in un ambiente culturale che aveva già provveduto a fare di Ariosto una chiave d’accesso alla modernità. L’Ariosto di Calvino, nel lungo percorso che va dal 1947 (data della recensione di Pavese) al 1985 (data della morte, alla vigilia delle mai pronunciate lezioni americane), funziona quindi insieme da stimolo e da compagno per l’americanizzazione di Ariosto. [41]
[Illustrazione di Grazia Nidasio per l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Milano, Mondadori, 2009]
[1] D. Beecher, M. Ciavolella, R. Fedi (eds), Ariosto Today : Contemporary Perspectives, Toronto, University of Toronto Press, 2003.
[2] Pubblico qui, ampiamente rimaneggiato per la nuova destinazione, debitamente diviso in paragrafi e fornito di note, il testo di una lezione che ho tenuto alla University of Oxford il 9 febbraio 2009, all’Università di Palermo il 21 maggio 2009 e all’Università per Stranieri di Siena il 17 aprile 2012. Ringrazio tutti i presenti nelle varie circostanze per l’ascolto, la discussione e le osservazioni. Un ringraziamento particolare va agli organizzatori delle lezioni, Nicola Gardini, Matteo Di Gesù e Giovanna Frosini (con Matteo Galiffa).
[3] L. Dällenbach, Le récit spéculaire. Essai sur la mise en abyme, Paris, Seuil, 1977, p. 18 (trad. it. di B. Concolino Mancini, Il racconto speculare. Saggio sulla mise en abyme, Parma, Pratiche, 1994).
[4] Cfr. U. Foscolo, Viaggio sentimentale di Yorick […] Notizia intorno a Didimo Chierico, in Id., Opere, V. Prose varie e d’arte, a cura di M. Fubini, Firenze, Le Monnier, 1951, p. 181; per i tarocchi e i cruciverba, E. Sanguineti, La macchina narrativa dell’Ariosto, in L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di M. Turchi, presentazione critica di E. Sanguineti, Milano, Garzanti, 1974, pp. li-lvii, a p. lv; per il palazzo di Atlante, I. Calvino, La struttura dell’«Orlando» (1974), in Id., Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, pp. 78-88 (poi anche in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, pp. 759-681); per il passo del cavallo, C. Bologna, La macchina del «Furioso». Lettura dell’«Orlando» e delle «Satire», Torino, Einaudi, 1998, pp. 114 e 118. Sulla struttura narrativa dell’Orlando furioso sono ormai classici gli studi di G. Dalla Palma, Le strutture narrative dell’«Orlando Furioso», Firenze, Olschki, 1984; S. Zatti, Il «Furioso» fra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990, pp. 9-37; e M. Praloran, Tempo e azione nell’«Orlando Furioso», Firenze, Olschki, 1999. Un’interessante lettura decostruzionista del poema, all’insegna dei giochi di cornice e specchio, è stata recentemente offerta da L. Berta, Oltre la Mise en Abyme. Teoria della metatestualità in letteratura e filosofia, pref. di G. Bottiroli, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 138-221.
[5] Si cita da L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di E. Bigi, Milano, Rusconi, 1982.
[6] E. Benveniste, Problemi di linguistica generale (1966), trad. it. di M.V. Giuliani, Milano, il Saggiatore, 2010, p. 39; G. Genette, Frontiere del racconto, in Id., Figure II. La parola letteraria (1969), trad. it. di F. Madonia, Torino, Einaudi, 1972, pp. 23-41; Id., Figure III. Discorso del racconto (1972), trad. it. di L. Zecchi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 73-76; C. Segre, Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi 1974, p. 7 (che discute le definizioni di fabula e intreccio di Sklovskij e Tomasevskij). Sul rapporto tra tecniche narrative romanzesche e cinematografiche è sempre obbligatorio il rinvio a S. Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film (1990), trad. it. di E. Graziosi, Milano, il Saggiatore, 2010.
[7] Il rapporto tra il film e l’Orlando furioso è stato recentemente discusso sul blog http://giacynta.blogspot.co.uk/2012/01/il-castello-del-mago-atlante-memphis.html (accesso effettuato il 4 aprile 2012): il 15 gennaio 2012 Grazia ha commentato «Il link all’Ariosto ci sta benissimo: gli incroci di destini, di luoghi e di fantasie sono quelli che rendono più bella la favola della vita», mentre giacy.nta ha replicato «Le analogie sono tante: la coppietta del primo episodio proviene dal lontano Oriente come Angelica e Argalìa; tutti i personaggi compiono dei percorsi (passi o giri perduti) a piedi o in macchina, uno dei personaggi dell’ultimo episodio viene abbandonato da una ragazza “in fuga” e come Orlando “impazzisce”…». Ricorderei almeno anche il legame simbolico, significativo nella struttura del film, tra la luna di Ariosto e la luna di Elvis Presley.
[8] Un altro segnale metatestuale che rinvia all’Italia e conferma l’importanza dell’Orlando furioso come chiave interpretativa è il titolo della canzone principale del film, Italien Walk di John Lurie e Nana Vasconcelos.
[9] Lo affermava in un’intervista del 1987 (in una conferenza stampa in Finlandia e pubblicata su una rivista di cinema finlandese, «Filmihullu», di cui si trova notizia online alla pagina web http://movies.groups.yahoo.com/group/jarmusch/message/362, vista il 4 aprile 2012) e lo ribadiva nel marzo 2002 in un’altra intervista rilasciata per la sezione Q&A per il dvd del film Down by Law (Q&A section of Criterion’s «Down by Law» DVD); lo confermava Roberto Benigni in un’intervista a Anna Maria Mori, in «la Repubblica», 4 giugno 1989, p. 23. Il nome di Ariosto torna ripetutamente nelle interviste di Jarmush in relazione a Benigni: «una volta ero a pranzo in una trattoria popolare a Roma con Roberto. C’erano lunghi tavoli dove ci si sedeva con altra gente. Ci siamo seduti con alcune persone in tuta blu, lavoravano nella strada là fuori, e Roberto gli parla, e iniziano a discutere di Dante e Ariosto e dei poeti italiani del ventesimo secolo. Ora, va’ nel fottuto Wyoming e va’ in un bar e fa’ cenno alla poesia, e ti troverai con un fucile puntato nel sedere» (intervista a Jonathan Rosenbaum per «Cineaste» del 1996, ora in Ludvig Hertzberg (ed.), Jim Jarmusch: interviews, Jackson, University Press of Mississippi, 2001, p. 160); «sa a memoria l’inferno di Dante e l’Orlando furioso di Ariosto», dichiarava nel marzo 2000 (Alex Simon, Jim Jarmush: Ghost story, in «Venice Magazine», marzo 2000: disponibile online alla pagina web http://thehollywoodinterview.blogspot.co.uk/2008/02/jim-jarmusch-hollywood-interview.html, vista il 4 aprile 2012). Tutte le traduzioni, salvo diversa indicazione, sono mie.
[10] Qui rimando solo, per uno sguardo d’insieme, all’introduzione di Michele Cometa al Dizionario di studi culturali, a cura di R. Coglitore e F. Mazzara, Roma, Meltemi, 2004, pp. 9-50, accessibile online alla pagina web http://www.culturalstudies.it/dizionario/dizionario.html.
[11] W. Scott, The Heart of Midlothian, ed. by Claire Lamont, Oxford, Oxford University Press, 1982, p. 158. Ha richiamato l’attenzione sul ruolo di Scott in relazione alla fondazione dei modelli narrativi della modernità attraverso il richiamo ariostesco R. Bigazzi, Le risorse del romanzo. Componenti di genere nella narrativa moderna, Pisa, Nistri-Lischi, 1996, pp. 29-30.
[12] W. Scott, Ivanhoe, Mineola (New York), Dover, 2004, p. 146. La traduzione è mia. La si può riscontrare, fra le altre, su W. Scott, Ivanhoe, trad. it. di M. Papi e C. Ghibellini, intr. di F. Marroni; con un saggio di M. Praz, Milano, Oscar Mondadori , 2007, p. 186 («Il motivo di questa interruzione può essere spiegato soltanto riassumendo le avventure di un altro gruppo di personaggi, perché, come insegna il vecchio Ariosto, non vogliamo insistere a tenere continuamente compagnia a ogni singolo personaggio del nostro racconto»).
[13] W. Scott, Waverley, ed. by Claire Lamont, Oxford, Oxford University Press, 1986, p. 24.
[14] Cfr. E. Lorenz, The Essence of Chaos, Seattle, University of Washington Press, 1993, pp. 14-15.
[15] Cfr. R.M. Durling, The Figure of the Poet in Renaissance Epic, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1965; D.S. Carne-Ross, The One and the Many: A Reading of Orlando furioso. Cantos 1 and 8, in «Arion», V (1966), pp. 195-234, e The One and the Many: A Reading of the Orlando furioso, in «Arion», New Series, III (1976), pp. 146-219; A.R. Ascoli, Ariosto’s Bitter Harmony: Crisis and Evasion in the Italian Renaissance, Princeton, Princeton University Press, 1987; S. Zatti, Il “Furioso” fra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990; R. Ceserani, Introduzione all’«Orlando furioso», in L. Ariosto, Orlando furioso e Cinque canti, a cura di R. Ceserani e S. Zatti, Torino, Utet, 1997, pp. 61-79.
[16] D.S. Carne-Ross, Introduction to Ariosto, in «Nine», published and edited by P. Russell, CXI (1951), pp. 113-125, a p. 122.
[17] C. Geertz, Interpretazioni di culture, Bologna, Il Mulino 1987, p. 41.
[18] P. Burke, Sogni, gesti, beffe. Saggi di storia culturale, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 194.
[19] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), trad. it. di E. Panaitescu, Milano, Rizzoli, 1978, p. 10.
[20] D. Lodge, Small World: an Academic Romance, London : Secker & Warburg, 1984 (trad. it. di M. Buckwell e R. Palazzi, Il professore va al congresso, Milano, Bompiani, 1990).
[22] Cfr. R. Barthes, Le Plaisir du texte, Paris, Seuil, 1973 (trad. it. di L. Lonzi, Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975), e G. Genette, Figure. Retorica e strutturalismo (1966), trad. it. di F. Madonia, Torino, Einaudi, 1969, p. 121. Si veda anche B. Arizti, Textuality as striptease: the discourses of intimacy in David Lodge’s «Changing places» and «Small world», Frankfurt am Main – New York, Peter Lang, 2002.
[23] Lodge, Small World, cit., p. 29. Dieci anni prima del romanzo di Lodge Sanguineti apriva il suo saggio sul poema ariostesco con la battuta, «un paradosso, non so se elegante, ma certo capace di suggerire, a suo modo, una sua verità», che «si potrebbe affermare che l’“attività strutturalista”, nel senso in cui, almeno, la definì Barthes nel ’63, l’ha inventata Ludovico Ariosto» (Sanguineti, La macchina narrativa dell’Ariosto, cit., p. li).
[24] Lodge, Small World, p. 56 (trad. it. p. 75).
[25] Ivi, p. 114 (trad. it. p. 144).
[26] Ivi, p. 260 (trad. it. p. 310).
[27] P. Parker, Inescapable Romance. Studies in the Poetics of a Mode, Princeton, Princeton University Press, 1979, pp. 16-53.
[28] R.H. Thompson, Interview with David Lodge, Birmingham, 15 May 1989, leggibile online al sito web http://www.lib.rochester.edu/camelot/intrvws/lodge.htm (accesso effettuato il 15 aprile 2012).
[29] N. Hawthorne, The House of the Seven Gables (1851), trad. it. di M. Manzari, La casa dei sette abbaini, Torino, Einaudi, 1993, p. Il punto di partenza della riflessione di Lodge è naturalmente F. Jameson, Magical Narratives: Romance as Genre, in «New Literary History», 2, 1975, pp. (di cui comparve subito una versione italiana: Le narrazioni magiche: il romance come genere letterario, Cosenza, Lerici, 1978), poi in Id., The Political Unconscious: Narrative as a Socially Symbolic Act, London, Methuen, 1981, 1986, pp. 131 ss. (trad. it. di L. Sosio, L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente simbolico, Milano, Garzanti, 1990, pp. 126-86). A monte c’è l’Essay on Romance, che – guarda un po’ – Walter Scott scrisse nel 1824 per l’Encyclopaedia Britannica, con la distinzione tra romance come «narrazione fittizia in prosa o in versi, il cui interesse s’impernia su fatti inconsueti e meravigliosi (marvellous and uncommon incidents)» e novel come narrazione fittizia i cui fatti vengono adattati al «corso ordinario delle vicende umane e alla moderna situazione della società (the ordinary train of human events, and the modern state of society)».
[30] P. Bourdieu, Ragioni pratiche (1994), trad. it. di R. Ferrara, Bologna, il Mulino, 1995, p. 51.
[31] Si dovrà parlare di «postmodernizzazione» di Ariosto? L’ha fatto con acume e provocatorietà R. Ceserani, Ariosto, il moderno e il postmoderno, in «Horizonte», 9, 2005/06, Trugbildenerisches Labyrinth – Kaleidoskopartige Effekte. Neurezeptionen des “Orlando furioso” von Ariosto, Herausgegeben von C. Klettke und G. Maag, pp. 27-44. Senza entrare nella discussione su quanto il postmoderno sia in rottura col moderno ovvero figlio del moderno, qui ci limiteremo a ricordare le categorie per cui, ad avviso di Ceserani, Ariosto può a buon diritto entrare in un orizzonte postmoderno: 1. i processi di contaminazione e pastiche; 2. la riflessione su verità e finzione; 3. l’attualizzazione del mito; 4. la disposizione su un piano; 5. la preferenza per la forma allegorica rispetto a quella simbolica.
[32] L’incontro e il caso è il titolo di un libro recente di Romano Luperini che si propone programmaticamente di «incrociare lo studio dell’incontro come elemento propriamente tematico dell’inventio con quello dell’incontro come modalità dell’intreccio ed elemento, invece, della dispositio» (R. Luperini, L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 7). Ariosto è nominato solo una volta, a p. 13, come campione della dialettica rinascimentale fra virtù e fortuna, per cui «il destino dell’uomo sta ancora nell’opposizione fra virtù e caso, fra valore del singolo e resistenza del mondo al suo desiderio di dominio» (p. 15), ma forse il suo poema non è troppo lontano da quegli autori che «ci parlano di un mondo in cui ogni individuo è isolato, il destino è diventato cosa privata, la dimensione della collettività, della storia e della vita pubblica si sta dissolvendo, l’uomo non è più in grado di controllare la traiettoria sociale della propria esistenza e la casualità sembra dominarla» (p. 35): non sono questi, appunto, i temi di Mystery train? Cfr. anche il cap. Dalla parte del moderno di G. Ferroni, Ariosto, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 415-30.
[33] Cfr. [G. Bartolucci], Un teatro dell’ironia (a colloquio con Luca Ronconi ed Edoardo Sanguineti), in Orlando furioso di Ludovico Ariosto, riduzione di E. Sanguineti, regia di L. Ronconi, a cura di G. Bartolucci, Roma, Bulzoni, 1970, pp. 13-23, alle pp. 15 e 17 (i corsivi sono dell’originale).
[34] Ibid.
[35] E. Capriolo, E adesso piazza chiama teatro (1969), ivi, pp. 117-21, a p. 120.
[36] Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1970.
[37] C. Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno, in «L’Unità», Roma, a. IV, n.s., 26 ottobre 1947, p. 3 (poi in La letteratura americana e altri saggi, a cura di I. Calvino, Torino, Einaudi, 1951, pp. 273-76; ora anche in C. Pavese, Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1967, pp. …).
[38] I. Calvino, Presentazione (1964) in Id., Il sentiero dei nidi di ragno, Milano, Mondadori, 1993, pp. v-xxv, a p. xxiii.
[39] Cfr. I. Calvino, La struttura dell’«Orlando» (1974), in Id., Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, pp. 78-88 (poi anche in Id., Saggi 1945-1985, cit., vol. I, pp. 759-68); Id., Ariosto geometrico, in «Italianistica», III (1974), 3, pp. 167-68; e Id., Piccola antologia di ottave (1975), in Id., Saggi 1945-1985, cit., vol. I, pp. 769-74.
[40] I. Calvino, Lezioni americane (1988), in Id., Saggi 1945-1985, cit., vol. I, pp. 627-753, alle pp. 649 e 658. Negli appunti preparatorî si trova una lunga riflessione sul viaggio di Astolfo sulla luna, ivi, vol., II, pp. 2967-70.
[41]«Intrise di spiriti ariosteschi», dice Corrado Bologna delle Lezioni americane (Bologna, La macchina, cit., p. 235). La fortuna critica del tema del Calvino ariostista è stata enorme, sia in Italia sia all’estero: cfr. almeno M. Corti, Il gioco dei tarocchi come creazione d’intrecci (1971), in Id., Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Torino, Einaudi, 1978, pp. 179-84; G. Falaschi, cap. V Italo Calvino, in Id., La resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976, pp. 96-151, alle pp. ; C. Ossola, Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 94ss.; S. Verdino, Ariosto in Calvino, in «Nuova Corrente», XXXIV (1987), pp. 251-58; L. Waage Petersen, Calvino lettore dell’Ariosto, in «Revue Roman», XXVI (1991), n. 2, pp. 230-45; G. Bertone, Italo Calvino. Il castello della scrittura, Torino, Einaudi, 1994, pp. 119-76; M. Hagen, La seduzione del cavaliere inesistente, in «Romansk Forum», XVI (2002), 2, pp. 875-85; L. Re, Ariosto and Calvino: The Adventures of a Reader, in Ariosto Today, cit., pp. 211-33; V. Bagnoli, La mappa del labirinto. L’Ariosto di Calvino, in Id., Lo spazio del testo. Paesaggio e conoscenza nella modernità letteraria, Bologna, Pendragon, 2003, pp. 61-113; M.V. Pugliese, Il fragile potere della scrittura: “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino, in «Italianistica», XXXVII (2008), 1, pp. 101-9. Sulla presenza e il funzionamento del modello ariostesco nella letteratura del Novecento si potrà vedere anche S. Jossa, Pazzia e finzione. Appunti sul modello ariostesco nella letteratura del XX secolo, in «Anticomoderno», 4, 1999, pp. 349-81.
[Immagine: Jim Jarmusch, Mystery Train (gm)].
quel grandissimo film che è Mistery Train!
Ho appena scoperto che Jovanotti è giunto alle mie stesse conclusioni (per altra via, credo)!
video: http://www.youtube.com/watch?v=iisxdnelmUI
testo: http://www.angolotesti.it/J/testi_canzoni_jovanotti_168/testo_canzone_battiti_di_ali_di_farfalla_1138463.html
A voi le conclusioni, ma mi sembrava giusto segnalare la cosa.
«Roberto! », s’illumina Jarmusch. «Ci siamo conosciuti trent’anni fa, a un piccolo festival a Salsomaggiore: eravamo in giuria, non sapevamo niente l’uno dell’altro, ci scambiavamo, in simil-francese, amori di cinema e letteratura. Io adoravo l’Ariosto (in Mistery Train, 1989, Nicoletta Braschi ha sottobraccio l’ Orlando Furioso , ndr ). http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/06/22/lincontro-eclettici48.html