di Daniela Brogi
L’opera d’arte contemporanea più preziosa del mondo è For the Love of God, di Damien Hirst, messa in vendita a cinquanta milioni di sterline. È stata esposta per la prima volta nel 2007, e si tratta di un teschio rivestito in platino e decorato con un pavé di ottomilaseicentouno diamanti puri, tra cui un diamante rosa a forma di goccia incastonato sulla fronte.
Quel teschio sfavillante fa pensare: sembra rovesciare il famoso proverbio latino «homo sine pecunia est imago mortis» (: l’uomo senza soldi è l’immagine della morte), perché qui invece il volto della morte indossa sfacciatamente il supremo valore (di allestimento e di mercato), ponendosi come pronuncia/performance assoluta di devozione al sacro.
Anche il cinema contemporaneo che racconta la finanza parla di questo connubio tra ricchezza e morte: il protagonista di Cosmopolis (2012) attraversa Manhattan sfilando nella sua limousine come se fosse dentro un carro funebre, e dà cibo alla noia acquistando opere d’arte. Il suo corpo, e l’ossessione con cui lo controlla, sono un’estensione spettrale del capitalismo, il cybercapitalismo, che ha tolto carne e sangue al denaro: «money has lost its narrative». Cronenberg costruisce attorno a questa idea un’allegoria vuota (e lo sa fare molto bene, al contrario del mediocre Arbitrage: N. Jarecki, 2012). La vertigine del nulla in cui sprofonda il protagonista corrisponde, formalmente, alla costruzione di una trama che smentisca l’uso della ricchezza come dispositivo narrativo. In questo senso, Cosmopolis sembra davvero fissare un punto di svolta del rapporto tra cinema e finanza.
Uno dei punti da cui ripartire invece potrebbe essere una battuta di Quinto potere (Network, S. Lumet): «esiste soltanto il multinazionale dominio dei dollari…governato dalle spietate leggi del business». Era il 1976, e i film dei due decenni successivi rappresenteranno soprattutto la parabola ascendente dell’alta finanza, tant’è vero che il genere privilegiato di racconto è quello del thriller, con tempi veloci, suspense, antagonismi espliciti, scene passionali: tutti codici che enfatizzano il denaro come affermazione vitale di potere: «The most erotic thing in their world was money», dice il trailer originale de Il volto dei potenti (Rollover, A. J. Pakula, 1981).
Il denaro come erotica trova il suo massimo suggello in Wall Street (O. Stone, 1987), nel personaggio di Gordon Gekko, ormai leggendario nei corsi di management di tutto il mondo, e interpretato da Michael Douglas, che non a caso cinque anni più tardi sarà il protagonista di Basic Instinct. Gordon Gekko è un eroe d’assalto, rapace; citando L’arte della guerra di Sun Tzu («ogni battaglia è vinta prima che sia combattuta»), trasforma il marketing in filosofia di vita, a cui affilia di prepotenza il giovane broker Bud Fox, affamato di soldi, sesso e potere – e pure qui investire nell’arte contemporanea, per esempio Keith Haring, è il riscontro sociale del prestigio. «Non c’è più nessuna nobiltà nella miseria, papà», risponde Buddy al padre sindacalista, esemplare dell’America buona e orgogliosa che lavora, per passare dalla parte di Gekko. Siamo in piena trama edipica, e alla fine – ma in effetti sono le scene più brutte – Gekko sarà sconfitto e punito con la galera; ciò che conta, tuttavia, è che i soldi guadagnati con il business fanno racconto e riempiono i cinema: sono storie interessanti, seducenti. Al 1988 risale Una donna in carriera (Working Girl, M. Nichols) – e intanto in Gran Bretagna, tra l’autunno 1989 e l’inverno 1990, andava in onda la serie tv Capital City, dedicata all’alta finanza inglese.
In piena ascesa materiale e simbolica del marketing, il denaro ha sex appeal (Proposta indecente è del 1993), ma spesso guadagna autonomia anche rispetto ai personaggi: non ha bisogno, spesso, di un physique du rôle per affermare la sua energia: così, in I soldi degli altri (Other People’s Money, N. Jewison, 1991) il discorso commovente pronunciato da Gregory Peck («un’azienda vale molto di più del prezzo delle sue azioni. È un luogo dove guadagnamo da vivere, dove incontriamo gli amici, dove riusciamo anche a sognare. È la trama del tessuto che tiene insieme la nostra società (…) qui ci sta a cuore la gente») dura l’istante di un’emozione vintage, pronta a sparire appena tocca la parola al cinico personaggio di Garfield, interpretato da Danny De Vito: «è troppo tardi per le preghiere (…) noi saremmo morti, esistono le fibre ottiche, la nuova tecnologia, e noi siamo indietro … chi se ne frega?».
Andando avanti, però, il plot della scalata aggressiva si inceppa e va in perdita, mentre arrivano, anche al cinema come nella realtà, i destini legati all’alta finanza esplorati dal punto di vista del fallimento: per esempio in Rogue Trader (1999, J. Dearden) film tratto dal romanzo Rogue Trader: How I Brought Down Barings Bank and Shook the Financial World di Nick Leeson (uno dei trader più spericolati: a lui si ispira anche Tommaso, il protagonista della storia narrata da Walter Siti in Resistere non serve a niente), che racconta il crack della multinazionale britannica Baring Banks . E ancora: American Psycho (di Mary Harron, una delle poche donne a girare un film sulla finanza, 2000). Il film, che è tratto dal romanzo omonimo (1991) di Bret Easton Ellis, è ambientato nel 1987 e racconta una storia ultranota: Patrick Bateman è un inappuntabile dirigente di una società finanziaria di Wall Street, che di notte dà fondo alle più perverse smanie omicide, compreso l’uso della motosega. È un thriller riuscito, doppiamente interessante rispetto al raffronto tra cinema e finanza, perché per un verso racconta l’edonismo degli yuppies anni Ottanta, e per l’altro verso anticipa il nichilismo sgomento a cui ci stanno abituando ultimamente gli operatori finanziari raccontati dal cinema – e penso anche al protagonista di Shame (S. McQueen, 2011, che ricorda American Psycho pure nella sequenza iniziale). «Non ci sono più barriere da attraversare e io non spero per nessuno un mondo migliore. Questa confessione non ha nessun significato» dice Patrick alla fine del film (pare una battuta di un romanzo di Walter Siti).
Che l’immaginario legato alla finanza stia cambiando, soprattutto a partire dall’attacco alle Twin Towers e per tutto il primo decennio del ventunesimo secolo, lo dimostra la fortuna stessa del cinema documentario impegnato nella denuncia del capitalismo selvaggio. Per esempio Enron: The Smartest Guys in the Room (A. Gibney, 2005, tratto dal libro omonimo del 2003 di Bethany McLean e Peter Elkind) racconta la bancarotta clamorosa (2001) della Enron Corporation, la compagnia texana che ha provocato la perdita di ventimila posti di lavoro e ottanta miliardi di dollari dei risparmiatori; In Debt We Trust (D. Schechter, 2007); in Italia ha più circolato Capitalism: A Love Story (M. Moore, 2009), ma il film che vale la pena di vedere è Inside Job (C. Ferguson, 2010, mai distribuito in Italia), che ha vinto l’Oscar 2011 come miglior documentario e racconta e spiega come la grande finanza statunitense abbia provocato il disastro del 2008, come avrebbe potuto esser evitato, e, tra le altre cose, come i principali responsabili del crollo abbiano malgrado tutto mantenuto le proprie ricchezze.
«L’anno scorso il quaranta per cento di tutti i profitti societari americani era costituito da proventi finanziari, non dalla produzione, o da qualcosa che avesse comunque a che fare con le necessità delle persone…io lo chiamo finanza dopata»: uscito di galera, Gordon Gekko torna a dar lezione, in Wall Street. Il denaro non dorme mai (O. Stone, 2010, ma ambientato nel 2008). «Greed is good», l’avidità funziona, e il gioco della speculazione non ha regole né tabù, come allude, con eccessivo didascalismo di maniera, il quadro di Goya Saturno che divora i suoi figli esposto nell’ufficio del capo della banca Churchill Schwartz, e fatto a pezzi nel finale del film. Anche Bud Fox, l’ingenuo broker del primo Wall Street, si affaccia in un cameo ai bordi del grottesco: ha una faccia ormai postumana, e ci informa di aver trasformato la compagnia dove lavorava il padre nella più aggressiva società di brokeraggio aereo del mondo. Debolissimo il finale del film, che prova a mettere una pezza etica con la scena in cui Gekko dice alla figlia «ma ora ho un nipote in arrivo, e spero mi consentirai di provare di nuovo a fare il padre». Il fatto è che la finanza non ha più vie d’uscita, né margini di pentimento e redenzione: o si è dentro o si è fuori, e il fascino ambiguo del male perde credibilità narrativa. Da questo punto di vista, è interessante il raffronto tra i due personaggi interpretati da Ben Affleck, a distanza di un decennio, in Un km da Wall Street (Boiler room, B. Younger, 2000) e in The Company Men (J. Wells, 2010): nel primo caso faceva l’istruttore spietato degli apprendisti broker («si tratta di fare il primo milione di dollari entro tre anni»), mentre nel secondo caso è un manager di successo licenziato e costretto a cambiar vita.
E in Italia? In Italia il cinema d’autore racconta i precari, ora da posizioni sentimentali, ora privilegiando il grottesco. L’alta finanza è un fantasma, anche in senso narrativo. Nessuno – e il discorso vale pure per la letteratura, salvo poche eccezioni come in parte L’età dell’oro, di Edoardo Nesi, o Walter Siti – nessuno ha raccontato con serietà l’onnipotenza del denaro, la cupidigia senza oggetto di cui parla il cinema americano, conferendo respiro epico e drammatico alle storie raccontate: pensiamo a Margin Call (J. C. Chandor, 2011), dove i protagonisti dialogano di integrazioni di investimenti, indici di volatilità, modelli di stima sbagliati, in scene talvolta troppo verbose, ma che hanno tuttavia una tenuta shakespiriana. Oppure preleviamo, sempre dal medesimo film, una battuta come questa, praticamente impensabile – per la serietà con cui viene detta – in un film italiano: «la gente vuol vivere con le sue macchine e le sue ville di lusso. Quindi tu sei necessario per loro..fanculo le persone normali». Fa impressione dirlo, ma è così: il racconto serio della ricchezza non esiste, tranne pochi isolati casi, come Io sono l’amore (L. Guadagnino, 2009, dove però i ricchi sono trattati come personaggi da romance, mai mentre maneggiano il denaro vero, e sono ridicolmente capaci di dire «abbiamo licenziato troppi operai, pensa alle loro famiglie!»), il docufilm Il pezzo mancante (G. Piperno, 2011, sulla famiglia Agnelli), Il gioiellino (A. Molaioli, 2011, ispirato al crack Parmalat), o L’industriale (G. Montaldo, 2011, da cui basta prelevare una battuta che fa ironico contrasto con quella appena citata di Margin Call: «scalano giornali, comprano squadre di calcio, l’unica cosa che non fanno è aiutare la gente che lavora», per capire la zavorra moralistica che puntualmente filtra il racconto). I ricchi ci sono, ma rimangono per lo più maschere comiche, tant’è vero che l’unico cinema che li racconta è quello dei Vanzina, padre e figli. Come se in America la finanza fosse stata raccontata soltanto da Una poltrona per due (Trading Places, J. Landis,1983). Ma l’America è il paese che sulla banconota da un dollaro ha stampata l’effigie del primo presidente; noi abbiamo messo sulle banconote scrittori, scienziati, esploratori, musicisti: il vettore identitario del prestigio, in termini di autorappresentazione, è la cultura. Che quando diventa puramente un feticcio, senza essere sostenuto dalle istituzioni e dalla vita materiale, rischia di fare più danni che altro.
[Questo articolo è uscito sul numero 27 di «alfabeta2», in edicola e in libreria in questo mese]
[Immagine: Damien Hirst, For the Love of God (dbr)].
Molto interessante, in specie questa svolta rappresentata da Cosmopolis, soprattutto se si pensa quanto il denaro come motore narrativo e simbolo fosse importante nel romanzo ottocentesco, cioè nell’archetipo di ogni narrazione (film e fiction americane della fine del XX secolo inclusi).
si, se qualcuno volesse farsi un bel quadro introduttivo dei cambiamenti radicali, prima di tutto a livello finanziario, che hanno coinvolto il sistema Italia negli ulitmi 30 anni, e come questo processo abbia stravolto profondamente anche il piano antropologico (di cui grazie al presente articolo se ne riscontra l’assenza), si possono leggere ad esempio, sul versante saggistico, Luciano Gallino: “Finanzcapitalismo” (Einaudi, 2011) e “L’impresa irresponsabile” (Gli Struzzi, 2010); mentre su quello narrativo, come aveva accennato la professoressa Brogi, di Walter Siti “Resistere non serve a niente” (Rizzoli, 2012). Se siete appassionati dell’argomento come me, questi tre libri da soli, per cominciare, risponderanno a molte delle vostre domande, tanto a quelle tecnico empiriche, quanto a quelle esistenziali. Buona lettura a tutti.