cropped-tumblr_mcjvnsJcoz1qz4yqio1_1280.jpgdi Rino Genovese

Naturalmente la crisi c’entra. Come c’entra la politica di austerità europea. Se il Pd non si fosse a lungo appiattito, quasi nascosto dietro il governo Monti, se non avesse mancato di determinazione nell’assumersi la responsabilità di una linea di politica economica progressista, che non significasse soltanto tasse su tasse a deprimere l’economia reale ma ridistribuzione del reddito e ripresa della domanda, se avesse fatto cadere Monti “da sinistra” andando alle elezioni nella primavera o almeno nell’ottobre 2012 (come Stefano Fassina a un certo punto aveva proposto), beh, il risultato sarebbe stato probabilmente diverso. E non staremmo qua a ragionare del successo oltre le aspettative di Grillo, di elezioni anticipate a breve, della riedizione di un qualche governo tecnico, o – ipotesi certo più allettante nel marasma, ma anche difficilmente praticabile – di un connubio tra il centrosinistra di Bersani e i grillini al senato.

Neppure staremmo a discutere di che cosa sia questo singolare fenomeno, così nuovo e insieme così antico nella storia italiana, che porta il nome di un comico. Perché qui è il punto: il grillismo, con tutto il suo 25,5%, è qualcosa d’inedito o qualcosa di vecchio? Se la crisi non avesse morso, il suo risultato elettorale sarebbe stato più contenuto, d’accordo: ma che un movimento del genere si sia potuto affermare non fa parte, forse, della storia italiana profonda?

L’Italia è il paese che in meno di cento anni ha conosciuto una quantità di fenomeni politici completamente stravaganti secondo i canoni della politica europea moderna. Tutti, in una misura o nell’altra, hanno fatto scuola. Si tratta, nell’ordine, del dannunzianesimo-fascismo, del qualunquismo-laurismo, del leghismo-berlusconismo, infine del grillismo. Certo, tra questi movimenti ci sono più differenze che punti di contatto – e anche la loro capacità d’influenza è stata diversa da caso a caso (vedremo alla prova il grillismo, ultimo arrivato). Ma se un trait d’union si può trovare tra questi “magnifici quattro”, è dato proprio dal loro carattere originariamente antipolitico. Bisogna intendersi su questo: in realtà si tratta di fenomeni politici a tutti gli effetti, che tuttavia sorgono con una forte valenza ideologica contro la “classe politica” (per usare il termine a suo tempo introdotto da Gaetano Mosca), e possono essere interpretati, nel lessico di Vilfredo Pareto, come episodi di circolazione delle élites.

Oggi molti si affannano a identificare il parlamentare grillino (da dove viene? che cosa pensa? che attività svolge? e così via): però sono proprio persone comuni dell’Italia di oggi – insegnanti, liberi professionisti o magari precari, disoccupati – alla ricerca di qualcosa che ritengono di avere trovato nel duo taumaturgico Grillo-Casaleggio. Non diversamente a Parma, prima roccaforte grillina: il sindaco Pizzarotti non proviene da una famiglia dell’élite cittadina (come alcuni pensano), era un semplice programmatore di computer impiegato in una banca, con un passato da studente in un istituto tecnico: come Grillo, del resto, che prima di diventare un comico era un ragioniere. Bene, persone come queste, del tutto rispettabili, grazie al loro “non-partito”, hanno trovato posti di relativo prestigio in una società completamente bloccata come quella italiana.

Con il fascismo, invece, e prima con il dannunzianesimo politico-militare, persone molto meno rispettabili – combattenti scornati dall’esperienza della guerra, sindacalisti rivoluzionari risentiti contro il movimento operaio e la sua direzione troppo moderata, talvolta veri e propri soggetti criminaloidi – avevano trovato la loro occasione nell’impresa di Fiume e, successivamente, negli attacchi squadristici. In ambedue i casi la funzione del leader carismatico – D’Annunzio o Mussolini – era stata determinante. Con tali personaggi siamo ancora nella storia relativamente “alta” dei discorsi da un balcone (D’Annunzio a Fiume fu l’iniziatore di questo cerimoniale di comunicazione politica centralizzante e in se stesso plebiscitario), che conoscerà poi una singolare evoluzione (o involuzione) verso il monologo televisivo e finanche il “blog”: tutte modalità comunicative che permettono a uno solo di tenere banco. È certo che la circolazione o ricambio delle élites, che movimenti del genere permettono, ne costituisce il movente sociale primordiale. Ma è vietato – vietato anzitutto dalla forma di comunicazione, la stessa che Internet e il “blog”, usati in un certo modo, confermano e moltiplicano – che il rapporto autoritario tra un capo e un insieme di supporters, o una corte più o meno adorante, sia messo in questione.

Qui è necessaria una parentesi. È lo stile della comunicazione politica a fare la cosa che chiamiamo populismo. Il populismo, di per sé, non ha alcun contenuto preciso: la sua peculiarità sta nel confondere incessantemente la distinzione destra/sinistra (oppure conservatori/progressisti) su cui si regge la politica democratica. Perciò possono esserci, ci sono e ci sono stati, populismi di destra e di sinistra. Anche se il nocciolo duro della comunicazione populistica è sempre di destra, consistendo proprio nel rapporto che s’instaura tra un leader e un popolo – o, per meglio dire, una folla ridotta al seguito di un capo più o meno carismatico, dalle doti più o meno stregonesche. Così i populismi (compreso quello storico nella versione russa, per certi versi affascinante, di cui Lenin fu al tempo stesso critico ed erede) sono intrecciati sia con gli inizi sia con la fine dei totalitarismi novecenteschi: nel senso che sono un loro presupposto, con i nazionalismi estremi del primo Novecento, e anche uno degli esiti cui mettono capo. Il fascismo e il nazismo, sconfitti in Europa, emigrano in forma appena riverniciata – eppure quanto sideralmente distante – nell’Argentina del generale Perón. I regimi del cosiddetto socialismo reale, dopo la caduta dell’impero sovietico, hanno conosciuto un’evoluzione, più che verso la democrazia, verso un rinnovato nazional-populismo. Ma il populismo può svilupparsi anche su basi regionali: richiamo identitario di una particolare comunità perfino solo inventata, come nel caso italiano della Lega Nord. I populismi insomma sono vari, e in varia misura la loro modalità di comunicazione può fare da componente di un discorso politico. Il loro tratto comune, però, è dato dal rapporto autoritario e paternalistico tra un capo e un popolo.

Ora, ritornando all’argomento principale, la storia italiana è costellata da fenomeni politici fondati sulla revoca della distinzione destra/sinistra, o sulla loro confusione deliberata. Così un aspetto tipico della retorica populista – la polemica contro le élites dirigenti, e in sostanza, come si è visto, a favore di una qualche élite emergente – è in Italia un vero e proprio Leitmotiv, un refrain ovunque orecchiato, titolo d’onore di un certo discorso pubblico, sia politico sia giornalistico. Quelli che oggi si agitano contro la “casta”, i suoi privilegi, la sua corruzione vengono da lontano. Senza sapere che c’è qualcosa di peggiore della corruzione – e sono i movimenti anti-corruzione.

Nell’Italia repubblicana le danze furono aperte dal commediografo e umorista napoletano Guglielmo Giannini, con l’ “Uomo Qualunque” e gli attacchi alla nascente “partitocrazia” (la sua lista ottenne il 5% e trenta deputati alla Costituente del 1946). Proseguirono con l’armatore Achille Lauro, ancora napoletano, che mescolò il qualunquismo gianniniano con una buona dose di peronismo (Lauro, con la sua flotta, aveva avuto rapporti diretti con l’Argentina) e un revanscismo monarchico adattissimo a un paese diventato da poco una repubblica: agitando il tutto, come in uno shaker, con l’intuizione preberlusconiana di un’unione tra calcio e politica (fu, al tempo stesso, sindaco della città e presidente della sua squadra di calcio), insieme con quella preleghista, a parti rovesciate, di un’identità del Sud da far valere contro il Nord predatore.

Negli stessi anni cinquanta del Novecento anche in Francia brillò l’astro di Pierre Poujade, ex “ragazzo di Vichy” divenuto cartolaio, alla guida di un esercito elettorale di commercianti e artigiani in rivolta contro il fisco e il parlamentarismo. Ma il poujadismo fu un movimento fugace. E de Gaulle – a sua volta originale combinazione di tradizione bonapartista e democrazia liberale, non priva di tratti populistici – riuscì a riassorbirlo nella Quinta repubblica di tipo presidenziale. La peculiarità del qualunquismo italiano consiste invece nel suo fissarsi, lavorando sottotraccia lungo tutto il periodo democristiano e oltre: da Giannini e Lauro fino al neopopulismo berlusconiano, o a quello più tradizionale della Lega, venuti fuori grazie a Tangentopoli, la quale retrospettivamente appare più un’apoteosi del qualunquismo (anche in salsa dipietrista) che una semplice lotta alla corruzione. Così la caratteristica propria del populismo italiano, nell’ampia gamma dei populismi mondiali, sta nella capacità di trasformare un elemento retorico propagandistico – ingrediente essenziale nel cocktail della comunicazione populistica ma ancora soltanto un ingrediente – in una specie di basso continuo o tema ricorrente, riuscendo a presentarlo come un contenuto politico positivo. La polemica contro il fisco, contro le “lentezze” parlamentari, contro i politici e i loro amici che “mangiano”, e per conseguenza la proposta di sostituire alla politica la semplice amministrazione delle cose (una sorta di “socialismo degli imbecilli” che lascia impregiudicato il quadro delle sperequazioni sociali e dei rapporti di potere esistenti), mentre ci si costituisce a propria volta in una élite o addirittura, come nel caso del Berlusconi del 1994, si fa già parte della stessa – sono tutte caratteristiche che proiettano il qualunquista italiano in una specie di extraterritorialità.

La distinzione destra/sinistra non è semplicemente confusa, come in qualsiasi populismo, quanto piuttosto assunta come una non differenza, facendo sì che il qualunquista sia di destra e di sinistra, fissandolo in una posizione che lo fa stare di qua e di là allo stesso tempo. Il qualunquismo così può essere sempre nuovo, sempre al di là di se stesso – al di là della corruzione in cui esso stesso magari finisce con l’incappare, ma da cui si rigenera spostandosi appena un poco, e quindi eternizzandosi.

Consiste in questo, in sostanza, il passaggio dal leghismo-berlusconismo al grillismo. Chi ha votato prima per l’uno e poi per l’altro si è collocato, senza soluzione di continuità, dentro l’eternizzazione tipica del populismo-qualunquismo italiano. Si pensi anche alla qualunquisticità sempiterna del comico. Fin dai tempi di Giovenale (e, più indietro, da quelli di Aristofane) la satira ha avuto un contenuto conservatore. Giannini, Berlusconi, Grillo sono infatti tutti, in modi diversi, uomini di spettacolo, a modo loro dei satirici. Tra questi, nonostante inclinasse più a sinistra che a destra, può essere inserito Coluche, il comico francese di origine italiana che nel 1981, minacciando di presentarsi alle presidenziali ed essendo piuttosto su nei sondaggi, fece passare dei bruttissimi momenti ai politici d’oltralpe. Ma Coluche si ritirò dalla contesa, messo sotto pressione e spaventato dal suo stesso successo (morirà pochi anni dopo in uno strano incidente stradale), non senza avere incassato, tuttavia, l’appoggio di intellettuali come Bourdieu, Deleuze, Guattari, desiderosi di poter mettere in scacco il sistema.

In Italia, invece, il sistema politico democratico deformato è in scacco già da vent’anni a causa del berlusconismo di governo e di opposizione, senza che ancora si riesca a intravedere un correttivo. Grillo è ora il nome dell’ennesimo capitolo di una storia perenne da narrare gobettianamente come autobiografia della nazione. Ritenere che quello grillino sia un movimento di indignados, come si legge in un manifesto post-elettorale firmato tra gli altri da Barbara Spinelli e Salvatore Settis, significa non averlo capito. Tra berlusconismo e grillismo – differenza essenziale – c’è il passaggio dalla comunicazione televisiva a quella tramite Internet, con tutte le potenzialità di interattività, o pseudointerattività, implicate dal nuovo mezzo: ma ciò a cui il grillismo assomiglia di più è proprio il berlusconismo (e a un certo antiberlusconismo alla Di Pietro che ne è stato il riflesso speculare). Se il neopopulismo italiano ha preso una piega anti-magistrati, ciò dipende dal suo carattere originariamente privato, di difesa degli interessi di uno solo; ma alla lunga questo è stato un fattore di debolezza che lo ha reso quasi ossessivamente monotematico; mentre un movimento che in partenza non soffra di un handicap del genere potrebbe meglio attingere a quell’ampia “zona grigia” da cui il qualunquismo trae nutrimento. Lo stesso rapporto servo-padrone, svincolato dagli interessi immediati di quest’ultimo, si presta meglio a essere compreso dentro un antielitismo risentito. Ciò rende il duo taumaturgico Grillo-Casaleggio più pericoloso, sulla carta, dello stesso Berlusconi, che non ha mai potuto spingersi al di là del proprio interesse privato. Ma al tempo stesso, proprio perché non cementato da questo interesse, il movimento grillino potrebbe rivelarsi effimero. La partita è appena agli inizi, e non si sa come potrà svilupparsi. Giannini in breve tempo perse qualsiasi influenza sui propri deputati che divennero, per la maggior parte, laurino-monarchici, mentre i suoi voti furono poi riassorbiti dalla Democrazia cristiana. Un’aggregazione informe, scaturita da un risentimento sociale che ha difficoltà a farsi politico fino in fondo, è esposta al rischio dell’autodissoluzione.

Resta il fatto che il neoqualunquismo grillino “2.0” è una rivoluzione passiva preventiva nei confronti di quelle forme di democrazia partecipativa che si stava appena cercando di sperimentare. Gli autentici sconfitti delle recenti elezioni – e forse ancora non se ne rendono conto – sono gli amici e compagni che troppo frettolosamente hanno pensato di spedire in soffitta le forme della democrazia rappresentativa. Non che non ci sia il problema di trovare una risposta alla crisi della rappresentanza – ma la passivizzazione messa in atto dal grillismo nei confronti della “cittadinanza attiva” suona come una replica beffarda a chi, da apprendista stregone, giocava con il fuoco minacciando d’incendiare la casa. Quali le procedure, quali le regole certe della partecipazione democratica se la ciberdemocrazia (come qualche entusiasta della rete l’ha chiamata) è l’opacità di un rapporto tra un capo, o un guru, e una massa imprecisata di followers che, anziché controllori, risultano controllati?

[In uscita, con altri interventi sull’argomento, in “Il Ponte”, 4, aprile 2013]

[Immagine: John Brosio, State of the Union (2011) (gm)].

 

23 thoughts on “Una teoria del caos. L’Italia fra Grillo e Berlusconi

  1. Condivido molti spunti di questa analisi. Però credo che in fondo Genovese sottovaluti una delle (ricorrenti, purtroppo) ragioni di fondo da lui stesso enunciate all’inizio della riflessione, e cioè che questa società italiana è completamente bloccata, e che i partiti hanno attivamente prodotto l’esclusione dei cittadini non provenienti dalle élites (o per essere più polemici e riprendere il filo populista, dalle dinastie — politiche, professionali, accademiche, mafiose, e sempre più raramente industriali — che occupano i vertici del paese) dalla partecipazione attiva alla vita pubblica e alle istituzioni rappresentative. In questo i partiti di sinistra non si sono differenziati significativamente dalle formazioni populiste di destra come PDL e lega. E il doppio problema dell’irrisolto conflitto d’interessi e della mancata riforma elettorale in senso rappresentativo sono due punti chiave di questo fallimento di democrazia attivamente prodotto in modo trasversale dai partiti. Non stupisce, dunque, che molti elettori abbiano indirizzato il loro voto di febbraio verso l’unico movimento che si è posto in conflitto diretto con la configurazione, i meccanismi, i riti di una democrazia bloccata e che — piaccia o no — ha creato affettività sociale portando migliaia di cittadini anche nelle piazze, fuori dalla rete, e ha portato cittadini normali, la società con i suoi pregi e i suoi difetti in Parlamento. Ma questo è un immenso problema di fallimento di democrazia rappresentativa: possibile che solo attraverso formazioni “anomale” ma ricorrenti, come sottolinea Genovese, i cittadini di questo paese possano illudersi di trovare rappresentazione istituzionale?

  2. « Se il Pd non si fosse a lungo appiattito, quasi nascosto dietro il governo Monti, se non avesse mancato di determinazione nell’assumersi la responsabilità di una linea di politica economica progressista, che non significasse soltanto tasse su tasse a deprimere l’economia reale ma ridistribuzione del reddito e ripresa della domanda, se avesse fatto cadere Monti “da sinistra” andando alle elezioni nella primavera o almeno nell’ottobre 2012 (come Stefano Fassina a un certo punto aveva proposto), beh, il risultato sarebbe stato probabilmente diverso ».(Genovese)

    Ma in queste parole non c’è già l’ammissione implicita di quanto sia saltata la distinzione destra/sinistra? E allora perché far scomparire la “malattia” della sinistra e della democrazia rappresentativa che autorappresenta (quasi) solo se stessa?
    Scusi, Genovese, ma il suo pur documentato articolo mi pare un esempio di uso pubblico della storia abbastanza strumentale e mirato a un obbiettivo contingente: non tanto interrogare (come faceva Pezzella nell’articolo da me linkato: http://www.sinistrainrete.info/politica/2659-mario-pezzella-populismo-ed-elezioni.html) ma, semplicemente e rudemente, sputtanare il “grillismo” riducendolo semplicemente al solito, “eterno”, populismo.
    Ci parli almeno dei limiti del grillismo dopo aver esposto bene e fino in fondo i limiti della sinistra, che ancora si pretende tale, pur facendo le “non scelte” che lei ha elencato.
    Il grillismo è cresciuto proprio perché la distinzione destra/ sinistra è saltata *nei fatti*. E per abbandono irresponsabile e suicida da parte della stessa sinistra anche dei resti di quella sua visione idealistica del mondo appena verniciata con un po’ di marxismo scolastico. I seminatori di “populismo” (o di “incazzatura” poco politicizzata) vanno cercati innanzitutto nelle sue fila tra gli “inciucisti” di professione.
    Questa sua difesa a spada tratta della distinzione destra/sinistra mi pare inefficace e tardiva…
    E poi non è che solo la satira ha un contenuto conservatore. I conservatori hanno anche la faccia seria o seriosa di Bersani, di Monti e di tanti altri…
    Bel polverone in un momento in cui avremmo bisogno di distinguere…
    I bei buoi con i loro bei marchi di destra e di sinistra sulle natiche sono però scappati. E occhio, tra i suoi ‘se’ ne manca uno cruciale: e se Bersani si accordasse con Berlusconi?…

  3. Beh, ma allora è tutto chiaro, il termine populista è l’ultimo baluardo che le attuali classi dominanti hanno per conservare il loro potere dietro l’ambiguissima dicotomia sinistra/destra, era questo che ci voleva dire l’autore, non potendo argomentare concretamente, si lanciano anatemi, che poi mi paiono abbastanza bidirezionali.
    S’ode a destra uno squillo di tromba che dice “sei della casta” ed a sinistra risponde lo squillo del “sei populista”: questa sì che è alta politica, e dopo questo pezzo le idee si sono chiarite ulteriormente, andrebbero bene fino alla seconda elementare, anzi, mi voglio rovinare, financo la terza elementare!.

  4. quando l’intellettuale di sinistra capirà quello che sta succedendo, sarà troppo tardi e si ritroverà a riscrivere una storia diversa (come se niente fosse), o magari sempre la stessa storia dalla notte dei tempi. Prestare l’orecchio, essere un po’ più curiosi, ogni tanto potrebbe portare a qualcosa di buono. E invece trovo che ci si nasconde dietro le parole, e si racconta un fenomeno cercando sempre il suo riscontro nel passato: perché tutto ritorna e non c’è mai niente di nuovo.
    Ma lo vedete o no quante cose stanno cambiando? non è ancora chiaro che, non il “grillismo”, ma il mondo digitale sta trasformando il nostro modo di stare al mondo? ma ve la ricordate la tv degli anni novanta? Fino a quindici anni fa non sapevamo neanche cosa fosse internet e ora si comincia a parlare di democrazia partecipata, di cittadini che entrano attivamente nella gestione del potere, di crisi della rappresentanza, di nuovi modelli di democrazia.
    Che sia meglio o peggio lo vedremo tra qualche anno. Ma come si fa a dire che non c’è niente di nuovo e che sappiamo già come finisce?

  5. Il populismo è molto pericoloso, lo è anche da una forza come quella berlusconiana che del populismo fa da anni da apripista anche a fenomeni come il grillismo che sono, ha ragione Genovese, l’altra faccia del berlusconismo (del resto molti votavano per il cavaliere e oggi per Grillo). Dei pdl non sopporto il loro continuo ricorso alla motivazione: il popolo lo vuole, ci hanno votati in tanti..la democrazia non è fare il volere dei più che hanno votato in un modo, no la democrazia salvaguarda la libertà di tutti tramite severi principi costituzionali che, se si vanno a scardinare, portano dritti dritti alla dittatura…hitler fu votato regolarmente dalla maggioranza di tedeschi rimbecilliti dalla sua retorica revanscista! Ma perché non studiare la storia? Inoltre il programma Gea di Casaleggio, per chi l’ha visto, è semplicemente aberrante!

  6. Per Gregorio: è democrazia partecipata rispondere ai diktat emanati da un computer e non poter dissentire, non parlare con la stampa, andare alle conferenze stampa con gli occhi bassi, nel timore di dire qualcosa che possa essere contestata dai capi, questa è democrazia? O computercrazia?!

  7. Per Cristina Luli.
    Quello che lei dice è vero. Da non sottovalutare. Se ho dato questa impressione, è perché non si può dire tutto in un articolo. Ma il fatto che il paese sia diviso per clan, cosche e quant’altro, che sia un paese profondamente élitista (solo il conflitto di classe degli anni migliori parve per un momento porre in secondo piano quest’aspetto), e che questa sia la causa fondamentale del ricorrente populismo-qualunquismo – un paese votato tutt’al più alla modernizzazione, non a una modernità piena -, non va certo dimenticato.

    Per Ennio Abate.
    Sbagliare politica, favorendo il populismo-qualunquismo, non è la stessa cosa che confondere deliberatamente la distinzione destra/sinistra, come fa il populismo-qualunquismo. Del resto tutto dipende dal giudizio che si dà del Pd. Per me è un partito insufficiente, spurio, esso stesso frutto indiretto del populismo che imperversa in Italia da vent’anni, ma è un partito di centrosinistra. Se fosse mai potuto andare al governo da solo (come sarebbe accaduto nel resto d’Europa), l’avremmo criticato “da sinistra” per la sua politica (come facciamo per il Ps francese o per la Spd), non avremmo detto che è uguale alla destra della signora Merkel o, quando c’era, di Sarkozy. (Ovviamente questo vale qualcosa se si pensa che una sinistra di governo ci possa e ci debba essere, e non si sta là ad attendere la rivoluzione proletaria…). Veda, Abate, l’Italia ormai da sola non uscirà più dalla sindrome populista in cui è finita – per la ragione che un’uscita dal populismo non c’è (l’Argentina lo dimostra). Il berlusconismo ha deformato il sistema politico nel profondo. Prova ne sia anche il Pd, che ha al suo interno forze che ovunque in Europa sarebbero tra loro alternative. La tendenza al compromesso di basso livello è da mettere sul conto di questa deformazione: si tende al compromesso quando si dispera della possibilità di battere l’avversario. E la cosa altamente drammatica è che il populismo appare davvero imbattibile, perché, come si è visto, si sposta e si riproduce continuamente, è capace di clonarsi. Non si tratta semplicemente della destra tecnocratica di Monti (che è poca cosa, ma diventa una “grande” per via dell’impasse che c’è in Italia e per gli agganci europei che ha); si tratta di qualcosa di più grave, della distruzione del sistema politico. In questa situazione c’è solo il “pilota automatico” di cui ha parlato Draghi, non la politica. Ma la cosa ancora più drammatica è che, con la crisi e l’Europa com’è congegnata adesso, il populismo può solo espandersi. L’Italia, anziché essere “salvata” dall’Europa, rischia di fare scuola ancora una volta, come fu con il fascismo.
    L’articolo di Mario Pezzella (che è un mio amico) lo condivido quasi per intero. Sono in disaccordo sulla “democrazia insorgente”, cioè su quelle soluzioni democratiche “dal basso” che dovrebbero far da argine all’ascesa dei populismi in tutta Europa. Dove si intravede in concreto qualcosa di simile? La proposta di Pezzella è quella di un ultraminoritarismo. Sembra già un’utopia riuscire a insediare in Europa, attraverso le procedure rappresentative, governi in grado di correggere un po’ la deriva spingendo verso un’Unione Europea di tipo federale; figuriamoci una democrazia partecipativa come quella auspicata da Pezzella!

    Per Gregorio.
    Il grillismo è un fenomeno nuovo, solo che al tempo stesso è anche vecchio. Modernizzazione senza modernità. Tipico dell’Italia.

  8. Caro Genovese,
    non potendo cambiare il PD, non potendo cambiare l’UE, a questo punto bisogna cambiare popolo. Che ne dice dei finlandesi?

  9. Mi pare che l’analisi di Genovese contenga molti spunti interessanti; e che meriti una riflessione ulteriore. Che il “grillismo” sia un fenomemo di radice populista è innegabile. Non penso però che vada semplicisticamente ricondotto, come Genovese fa, a una dimensione per certo versi essenzialista, come la categoria del qualunquismo italiano; categoria che è insieme parasociologica e parapolitica con un portato di significato ovviamente deteriore. Forse molto più interessante e meritevole di approfondimento è il rispecchiamento con il Berlusconismo, anche questo punto d’attacco però andrebbe sottoposto ad un verifica critica.
    In realtà il modo migliore di iniziare a discutere e ragionare sul “grillismo” sarebbe quello di dare un’occhiata ai flussi elettorali. Come evidenziato da molti osservatori per oltre un quarto la provenienza elettorale del voto al M5S è di centrosinistra. Nelle grandi città la percentuale di elettori provenienti dal centrosinistra raggiunge il 60% del voto a Grillo. A me pare che questa osservazione empirica revochi in dubbio il ragionamento di Genovese sul grillismo come erede del berlusconismo. Come il voto del Mezzogiorno ha dimostrato pur avendo perso in termini assoluti più voti, l’insediamento sociale del PDL si è mostrato molto meno sensibile al richiamo di Grillo rispetto a quello del centrosinistra.
    In aggiunta, se stiamo a un vecchia lezione sempre attuale, per cui per conoscere il tuo avversario politico ne devi studiare le basi sociali, sarebbe utile ragionare sulla composizione sociale del grillismo. La quale risponde perfettamente al canone populista: dentro c’è di tutto, dai professionisti agli operai, dagli imprenditori ai precari. Ma proprio questo elemento evidenzia a mio avviso che c’è un sovrappiù di domanda politica che è appunto orizzontale tra i ceti, stavo per dire le classi, sociali. Ne accenna Genovese all’inizio del suo intervento: la crisi c’entra. Eccome se c’entra. Cos’è il populismo, ogni tipo di populismo, se non la risposta più immediata e diretta alla crisi, cioè al timore del declassamento sociale dei ceti medi. Quale fu la base di massa del fascismo se non la piccola borghesia terrorizzata dalla paura della proletarizzazione? E la base sociale del qualunquismo non furono coloro che sotto il fascismo erano riusciti a ricavarsi un piccolo solido benessere sociale minacciato dalla repubblica parlamentare? Io direi allora che nel grillismo c’è il precipitato della crisi di sistema del paese. Ma questo piuttosto che fare del M5S una forma di berlusconismo sotto altre vesti, magari non immediatamente proprietarie, ne chiarifica il ruolo anche di recettore delle domande sociali scatenate dalla crisi doppia del sistema sociale e di quello politico. In questo senso Grillo è un figlio del tempo della rete come Berlusconi è figlio della sua creatura : la televisione spazzatura. La differenza sta nel retroterra: l’Italietta affluente degli anni ’80 per Berlusconi, l’Italia declassata al tramonto del berlusconismo per Grillo. Quindi mi pare di poter dire che il grillismo è interamente il prodotto della crisi economica e sociale che in Italia è pari se non superiore a quella di Grecia e Spagna e che si somma alla crisi del sistema politico senza sbocco.
    In realtà dentro il grillismo c’è anche un sovrappiù di domanda sociale che consiste nella richiesta di integrazione nella democrazia rappresentativa in ragione di forme di partecipative come ha colto bene Genovese. C’è calata dentro anche tutto quanto si è mosso in temine di partecipazione e aspirazione di governo diretto dello spazio pubblico, non nei termini farseschi di un Casaleggio, ma di un tentativo di forare l’autoreferenzialità del sistema politico con le questioni che attengono alla vita materiale, qualcuno direbbe al comune degli uomini. Il voto sull’acqua pubblica è forse solo il più evidente esempio di questa richiesta imposta alla politica ( al Pd in primo luogo) subìta,e poi sottoposta a tentativi di svuotamento dell’esito del referendum. Quello che si è mosso contro l’austerità in ogni paese europeo, quelli mediterranei in primis, e persino negli USA ( che non è proprio stato inutile ai fini della rielezione di Obama e al suo rinnovato discorso pubblico) non è secondario che in Italia non abbia avuto sbocco se non nell’inutile gazzarra del 15 ottobre 2011. Qui hanno ragione i Wu Ming: Grillo prospera sulla rovina dei movimenti. Il loro fallimento politico ha consentito a questo comico in disarmo e blogger di parassitare i loro claims, svuotarli politicamente e utilizzarli come testa d’ariete e catena sequenziale contro il sistema politico italiano in crisi di transizione da almeno un ventennio e completamente chiuso in un guscio autoreferenziale di cui il porcellum è il sintomo più evidente.
    In conclusione, certo il grillismo è un esperimento di populismo, ma è cresciuto in un brodo di cultura preparati da molti soggetti politici e intellettuali dai cui il cleavage tra destra e sinistra è stato revocato in dubbio ( il Pd prima maniera non è forse nato implicitamente sul presupposto che il topos della politica moderna fosse la soluzione, politicamente neutralizzata, dei problemi che resettava la distinzione destra/sinistra?). Tuttavia non c’è da essere molto sicuri che l’accezione di populismo – essendo quella di qualunquismo un sottoprodotto nazionale di quella categoria -sia necessariamente sempre da associare al grado zero della politica. Forse servirebbe, dentro la crisi che sconvolge la società europee, ipotizzare un progetto politico capace di costruire un repertorio di risposte politiche alle algide argomentazioni dei sacerdoti della governance di cui Monti è il mesto esponente in Italia. Varrebbe forse la pena riflettere sulle parole di Ernesto Laclau che nella sua “ La ragione populista” dice: “ Non c’è intervento politico che sia in qualche misura populista. Naturalmente non tutti i progetti politici sono populisti alla stessa misura; ciò dipende dalla catena sequenziale che unifica le domande sociali”. In fondo se si andasse indietro nel tempo, all’esperienza dei grandi partiti di massa che costruirono la repubblica italiana si scoprirebbe un’elevata capacità di unificare domande sociali che potrebbe persino renderli sospetti di populismo inconsapevole. Un po’ di questo populismo allora potrebbe essere utile per neutralizzare il mostro bicefalo Grillo/Casaleggio ma prima più necessariamente il mostro della governance, cioè della politica senza stato e senza popolo dell’austerità. E ricostruire la sinistra che manca in Italia da un paio di decenni.

  10. Per Mariateresa.
    Non tutto quello che esce dal M5S è cosa buona e giusta. Non mi interessa difendere politicamente qualcuno, ma provare a capirlo.
    Per Rino Genovese.
    Il fatto di sentirsi élite è un fenomeno vecchio; e, d’altra parte, il fatto di semplificare quello che non si ha voglia di conoscere (o che magari fa paura) è ancora più vecchio, eppure sempre di moda. Ogni tanto bisognerebbe sporcarsi le mani e vedere che si trova, invece di specchiarsi in quello che sappiamo già. Anche questo è tipico dell’Italia.

  11. Quello di Raffaele Cimmino è proprio il genere d’intervento che uno desidererebbe da un “forum” come questo. Sì, c’è un aspetto del mio discorso che può apparire “essenzialistico” (legato a una specie di destino dell’Italia): però io preferisco chiamarlo antropologico-culturale. Una storia di lunga durata precipita, alla fine, in un dato per sua natura non immodificabile, ma molto difficilmente modificabile: un “carattere” italiano, appunto, nel senso di una diffusa antropologia (del resto spesso evidente anche negli interventi in questo “blog”). Se partiamo dall’analisi storica di Gramsci – prima la Controriforma al posto della Riforma, poi il Risorgimento come rivoluzione passiva, e ancora il fascismo – vediamo che tutta questa “passivizzazione” della vita sociale viene a depositarsi in una determinata antropologia. La stessa tendenza al risentimento, più che al conflitto sociale aperto (colpisce, nell’Italia odierna, la quasi completa assenza di movimenti sul tipo degli “indignados”), può essere ascritta a questa antropologia intesa come lunga durata sedimentata.
    Avrei detto che finanche un terzo degli elettori grillini potesse provenire dal bacino del centrosinistra, mi consola apprendere che si tratterebbe solo di un quarto! Il punto non è questo, comunque: cadere nella trappola è diverso dal collocarsi stabilmente dentro la nebulosa populista leghista-berlusconiana, prima, e adesso grillina.
    Il riferimento a Laclau. Su questo autore pesa il fatto di essere argentino e di vedere un po’ tutto sotto la specie del peronismo. Laclau appare indifferente alla questione del rapporto autoritario-paternalistico che il populismo stabilisce tra un capo e un popolo. Anche l’uso che fa di Gramsci è molto discutibile, perché il nazionale-popolare di Gramsci – anche se, in una lontana stagione, fu criticato dagli operaisti come populistico – è più un tentativo di risposta al populismo, e alla teoria élitista, che un collocarsi in esso. La questione è sempre quella del rapporto tra governanti e governati: come si struttura questo rapporto? Nel senso di una riduzione della differenza o in quello di una sua conferma, oppure addirittura in un aumento, nel passaggio da un’élite a un’altra? È la questione democratica per eccellenza.
    Infine, è vero che tatticamente il Pd avrebbe potuto inglobare alcune delle istanze populistiche, o di protesta, se avesse seguito un’altra politica, non appiattita sul governo Monti. È quello che è mancato. Con Veltroni (e magari ancora nel prossimo futuro con Renzi) il Pd era l’imitazione di un certo stile comunicativo berlusconiano in senso lato; poi, con Bersani, vero e proprio eroe anti-populista, all’opposto. L’unica possibilità consisterebbe, mi pare, nel suscitare una tale passione politica da trasfigurare il populismo diffuso in una politica di sinistra. Una specie di quadratura del cerchio.

  12. @ Genovese

    L’unica possibilità consisterebbe, mi pare, nel suscitare una tale passione politica da trasfigurare il populismo diffuso in una politica di sinistra. Una specie di quadratura del cerchio. (Genovese)

    Impossibile quadratura. Secondo me, Genovese, lei si aggrappa vanamente alla distinzione destra/sinistra, pur riconoscendo tra le righe («Per me è un partito insufficiente, spurio, esso stesso frutto indiretto del populismo che imperversa in Italia da vent’anni») quanto essa sia saltata. Lasci perdere chi dice che « è uguale alla destra della signora Merkel». Parta dal dato che non fa e non può più fare «una politica di sinistra».
    Quanto a Pezzella, neppure io vedo la sua “democrazia insorgente», ma glielo citavo perché mi pare abbia una visione meno ossessiva della sua sul populismo, pur vedendone i rischi.
    Evitando di tenere in primo piano solo questi (finendo per rinculare in una sorta di idealizzazione del PD), ci si può interrogare con più elasticità sul possibile, come mi pare faccia Revelli in questa intervista, da cui ho stralciato passaggi per me significativi:

    http://www.sinistrainrete.info/politica/2671-marco-revelli-democrazia-senza-partiti.html

    Questa crisi di fiducia nei partiti rischia di intaccare anche la fiducia nelle istituzioni che, relativamente al Parlamento, si attesta su un misero 8 per cento. Comprendiamo subito che in una democrazia parlamentare come la nostra, laddove il Parlamento dovrebbe essere il vero sovrano, il sovrano è in realtà completamente sfiduciato. Fenomeno che in Italia, come detto, tocca livelli parossistici, ma è generale ed esteso a tutto l’Occidente. Negli anni Sessanta e Settanta, nonostante fossero anni di contestazione, di lotte sociali e di conflitti, la fiducia nelle istituzioni era altissima e toccava picchi del 70 per cento. Il mondo è cambiato ma troppo spesso chi ragiona “di” politica e “in” politica non registra questo cambiamento. Avverte il disagio, si accorge che le cose non funzionano ma come se ci si fosse allontanati da un modello che prima o dopo potrebbe riprendere funzionare: la democrazia dei partiti. Al contrario, quel modello è finito. Finito come è finita la grande impresa: come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti. Soggetti che, beninteso, non scompaiono ma i partiti di oggi hanno una parentela lontanissima con i loro progenitori.

    La fine di questo modello non significa tout court fine della democrazia e il passaggio a una forma autoritaria o dittatoriale Ciò a cui assistiamo non è la pura e semplice estinzione di ogni forma di partito che lascerà spazio solo a una terra incognita abitata da individui da un lato e istituzioni dall’altro. È casomai una metamorfosi: i partiti non scompaiono di punto in bianco, ma diventano una cosa diversa da ciò che avevamo in precedenza conosciuto.

    Oggi le oligarchie non sono più legittimate da un rapporto di fedeltà stabile. Esattamente come le imprese si sono ramificate e delocalizzate in filiere lunghe nei territori e al tempo stesso si sono concentrate in alto, con vertici globali e incontrollabili da chiunque (persino dagli azionisti, non solo dai dipendenti), così i partiti si sono trasformati in strutture più leggere simili a aggregati di gruppi di potere, spesso caratterizzati da logiche affaristiche, che galleggiano su un elettorato liquido e non più caratterizzato da una fedeltà di lungo periodo. Questo elettorato sceglie quasi giorno per giorno a chi dare il proprio consenso, seguendo logiche sempre più mediatiche.

    Pierre Rosanvallon propone di chiamare “controdemocrazia” una democrazia diversa da quella dei partiti, per nulla “antipolitica”, dove elettorato che non si illude più di poter governare attraverso i propri rappresentanti cerca di porre un argine, attestandosi su una linea difensiva. In sostanza, se non ci possiamo più aspettare che i nostri governanti ci rappresentino, possiamo però difenderci da loro. I politici di professione sono visti come nemici potenziali che con le loro decisioni possono danneggiarci. È una sorta di democrazia giudiziaria, dove i cittadini cercano una tutela giurisdizionale contro in ceto politico di potenziali criminali. Dentro questa logica – il «dobbiamo difenderci dai rischi che arrivano dall’alto» – c’è sicuramente un pezzo di populismo.

    Più che di antipolitica, ci troviamo spesso di fronte a forme nuove di pratica politica in un contesto di democrazia mutato, proprio perché non più mediato dai partiti. Smetterei di usare il termine in modo spregiativo, perché rischiamo di non capire nulla rispetto ai processi in atto. subpolitica è invece un concetto introdotto da Ulrich Beck, non per sminuire il valore di quest’altra politica, ma per sottolinearne il carattere basilare.

    Che cos’è, dunque, la subpolitica?

    Marco Revelli: È la politica della vita, il luogo dove si affrontano i problemi che riguardano la sopravvivenza degli uomini: i grandi problemi etici, il problema degli stili di vita, il problema del consumo energetico, i beni comuni. Su questi temi la politica dei partiti non ha molto da dire. Al massimo – pensiamo al referendum sul nucleare – subisce il problema. I recenti referendum hanno mostrato che 27 milioni di italiani sono andati a votare fuori dagli schemi di partito, ma soprattutto hanno dimostrato che una certa forma della politica, quella che vorrebbe ancora il partito al centro della scena, è anacronistica e inefficace.

    Grillo non è un fenomeno folcloristico. I protagonisti della politica partitica lo trattano con sufficienza come se fosse folclore. Grillo è un sintomo, non certo la causa della crisi e proprio per questo va preso con estrema attenzione. Ha sicuramente tratti populistici, ma nella prevalenza è questa politica nuova che sgorga e cerca le sue forme, Starei attento, molto attento a questo secondo aspetto.

    Si sono inceppati i meccanismi di produzione di un noi, nel passaggio dalla solitudine di un “io” a alla condivisione di un “noi”. Un’apocalisse del senso che rende vuoti tutti i troni, da quelli secolari fino a quelli spirituali. I luoghi si sono dissolti nei flussi. È un horror vacui, quello che ci coglie. Proprio perché si avverte che la rottura di questi meccanismi di produzione di un senso condiviso ricade in termini di una conflittualità molecolare. Non ci sono più conflitti che organizzano il campo, ma una diffusa competitività aggressiva che rende inoperanti tutti i meccanismi di decisione collettiva e ha colpito, in particolare, i partiti. Ma non solo i partiti. Non è diverso per i sindacati, non è diverso per le imprese e non è diverso per la Chiesa.

  13. Tenterò di essere meno sintetico e spero più chiaro.
    Il mio brevissimo intervento precedente voleva sottolineare la sloganistica che era presente nell’articolo proposto. Dire che populista è chi non riconosce la differenza tra destra e sinistra è, mi mi pare non dire nulla. Magari qualche osservatore obiettivo potrebbe giungere alla conclusione che effettivamente le formazioni schierate a sinistra hanno una pratica ed un programma politico analogo: sarà populista dire “il re è nudo”, o sarà invece populista chi spaccia per un contenuto di sinistra un contenuto che è invece di destra?
    Perchè, se rimaniamo prigionieri degli slogan, alla fine facciamo sparire dalla politica i suoi contenuti, fare politica diventa sapersi vendere in un certo modo, avere buone doti di trasformismo, tutto in definitiva finalizzato ad autoperpetuarsi sul palcoscenico politico-parlamentare.
    E dire che esistono gli ingenui come me che pensano tuttora che fare politica significa avere programmi finalizzati all’interesse generale e la loro gestione coerente ed efficiente.

  14. Il populista Giuliano Amato dice che:

    “Quando tanti giovani arriveranno alla pensione dopo uno ‘slalom tra diversi lavori si troveranno con una pensione miserabile con cui non potranno vivere e si troveranno a dormire in auto’. Lo ha detto Giuliano Amato a una lezione alla Luiss mettendo in guardia da una ‘possibile rivolta che non sara’ pacifica come quella dei Cinque stelle’.”

    Domanda: nell’auto di chi?

  15. Su «Il Sole 24» di domenica 24 marzo si legge un articolo di Remo Bodei dal titolo « Il realismo anti-populista di Machiavelli» (qui: http://it.scribd.com/doc/132118670/Bodei-su-Machiavelli-e-Il-Populismo). Se è facile condividerne la prudente conclusione sul “populismo” che qui riporto:

    « Di norma, è associato all’idea di una degenerazione della democrazia e visto come uno spettro o, al contrario, come una calamita che attrae tutti gli scontenti e gli indignati. Ma è sufficiente demonizzarlo, esaltarlo o banalizzarlo? Non sarebbe meglio esaminarlo più a fondo, tenendo conto della linea di faglia che si è aperta tra il “popolo” e le élite, della crisi della rappresentanza tradizionale e della connessa, tormentata transizione da una democrazia dei partiti a una democrazia del pubblico? Anche questa analisi sarebbe realismo»

    un’altra tra le affermazioni significative dell’articolo, questa:

    «Nei Discorsi Machiavelli descrive una situazione che ricorda, per analogia, quella che stiamo vivendo in Italia. A Firenze – scrive – dopo la cacciata dei Medici, venuto meno un governo ordinato e peggiorando di giorno in giorno le condizioni della città, i “popolari” ne attribuivano la colpa alle ambizioni e alla corruzione dei “signori”. Non appena, tuttavia, uno di loro giungeva a occupare un’alta magistratura e cominciava a procurarsi gradualmente idee più adeguate sulla realtà, finiva per abbandonare i pregiudizi e le astrazioni con cui si era affacciato alla vita pubblica. Agli occhi dei popolari, tale mutamento lo rendeva però un traditore: «E come egli era salito in quel luogo e che ei vedeva le cose più da presso, conosceva i disordini donde nascevano ed i pericoli che soprastavano e la difficultà del rimediarvi. E veduto come i tempi e non gli uomini causavano il disordine, diventava subito d’un altro animo e d’un altra fatta: perché la cognizione delle cose particulari gli toglieva via quello inganno che nel considerarle generalmente si aveva presupposto»

    mi pare davvero discutibile. Perché, se non interpreto male, Bodei sembra dire che le «idee più adeguate sulla realtà» siano prerogativa esclusiva di chi occupi «un’alta magistratura», che solo da lì si vedano le cose in modo “giusto” e che, di conseguenza, i “contestatori” ( i «popolari») si scaglino alla cieca contro i “signori” quando li accusano di ambizioni e corruzione e hanno, sempre o quasi, torto.
    La soluzione “illuministica”, allora, sarebbe andare a vedere. Si capirebbe – come diceva Machiavelli – che «i tempi e non gli uomini causavano il disordine» e sarebbe più facile diventare «subito d’un altro animo».
    Attualizzando: se si potesse andare a vedere, tutti riconoscerebbero che le «idee più adeguate sulla realtà» ce l’hanno i governanti o chi sta più addentro all’«alta magistratura» (allo Stato).
    Allora, scherzando per farci coraggio in tempi così difficili, si potrebbe aggiungere: perché mandare solo uno o qualcuno del «popolo» a vedere? Almeno per un attimo mandiamoci tutto il popolo. Aprirebbe gli occhi. Ed eviteremmo accuse infondate ai governanti e ai “contestatori” rinsaviti ogni accusa di tradimento. Tutti c’inchineremmo disingannati e sopporteremmo senza più mugugni i “sacrifici” (precariato, disoccupazione, tagli alla spesa pubblica, spese militari, ecc.) impostici non per cattiveria ma in ossequi alla “realtà” dei tempi.
    Questa visione di Bodei aggira “filosoficamente” le ragioni vere ( e non immaginarie) della conflittualità tra “signori” e “popolari” (tra i partiti attuali e “noi”).
    Insomma, le «idee più adeguate sulla realtà» ce l’hanno solo i governanti? Mi piacerebbe sentire l’opinione di Genovese e di altri.

  16. Forse, Bodei è una persona intelligente che ha detto una sciocchezza, o una persona profonda che ha detto una banalità. Se poi l’ha detta perché ci crede o l’ha detta perché vuole o deve dare una mano al PD persuadendo i grillini al suicidio di massa governativo tipo Rev. Jones, questo lo sa lui e francamente non me ne importa un gran che.
    Se voleva dire che è più facile fare casino che governare, non c’era bisogno di tirare in ballo Spinoza, Hegel, etc.
    Se voleva dire che i grillini sono inesperti e pasticcioni, bè, bastava mettere il link alla trattativa con Bersani, dove si vedeva lontano un chilometro che i due sventurati non rispondevano di sì a Egidio/Bersani solo perché da un canto Grillo li ha fatti giurare sulla tomba del gatto che dicevano di no, e dall’altro perché Egidio/Bersani, brava e sincera persona, brillava per una capacità di comando e una autorevolezza inferiore a quella del salumiere medio quando sei indeciso tra carne salada e bresaola.
    Quanto sopra, affogato nel sugo filosofico e culturale senza riguardi per il colesterolo del lettore, si concludeva per Bodei in un conto assai salato: facciamo un bel governo PD+transfughi grillini, e tutto andrà meglio.
    Problemino, sfuggito a Machiavelli, Spinoza, Hegel, Weber (assenti giustificati) e a Bodei (privo di giustifica, torni accompagnato dai genitori): a condurre gli italiani e l’Italia nel trappolone mortale dell’euro e della UE è stato, in primissima fila, il PD, che su questo “sogno” (così lo sentirono chiamare le mie incredule orecchie dall’On. Boccia) ha scommesso la vita sua, e purtroppo anche mia, tua, nostra…
    Va bè che Bodei sta in America e se ne può altamente infischiare, ma la cosa effettuale è questa qui e non altra, direbbe Machiavelli.
    Se il detto Bodei ritiene che il sogno-trappolone euro/UE sia un bel posto in cui vivere e morire, lo dica apertis verbis, e gli daremo il bentornato nella realtà, razionale o meno: Bodei dice che squadra che vince non si cambia, e dunque PD forever. E’ una posizione chiara e coraggiosa, bravo Bodei.
    Se invece ammonticchia nomi illustri per concludere che il populismo non sa usare la forchetta, ma tutto sommato sarebbe meglio “esaminarlo più a fondo” (forse per vedere se, metti caso, vince sul serio e distribuisce finanziamenti di Stato anche alle università) ma non favella della effettualità italiana, ad es. i governi tecnici imposti dagli UFO della UE, del FMI, etc., la disindustrializzazione, la disoccupazione che s’inciela, le imprese e i negozi che danno l’addio ai Monti, la gente che realisticamente si spara, si impicca, si dà fuoco per motivi connessi, affermeremo “provocatoriamente”, parafrasando “il grande storico Bernard Groethuysen”: “Fare i pesci in barile, che allegria!”
    E forse, “Anche questa analisi sarebbe realismo”.

  17. Se Bodei o altri hanno voglia di fare del realismo, propongo loro un tema interessante: questo recentissimo scambio a distanza tra il Ministro degli Esteri del Lussemburgo, celeberrimo paradiso fiscale timoroso che qualcuno, dalle parti di Francoforte, gli inCipri il nasino, e il leader dell’opposizione socialdemocratica tedesca:

    «“Germany does not have the right to decide on the business model for other countries in the EU,” Foreign Minister Jean Asselborn told Reuters. “It must not be the case that under the cover of financially technical issues other countries are choked.” “It cannot be that Germany, France and Britain say ‘we need financial centers in these three big countries and others must stop’.” That was against the internal market and European solidarity, and “striving for hegemony, which is wrong and un-European,” he said. […]

    » On Tuesday, Joachim Poss, deputy leader of the main opposition Social Democrats in parliament, said the EU must insist on reforms in other financial centers guilty of “tax dumping” in the euro zone such as Luxembourg, Malta and Ireland. Responding to Asselborn’s comments, Poss said: “In the long term no business model can be tolerated in a market economy that circumvents fair competition. Of course Luxembourg belongs to the group of problem countries.” German politicians have stepped up their attacks on tax evasion ahead of federal elections in September.»

    http://www.reuters.com/article/2013/03/26/eurozone-cyprus-luxembourg-germany-idUSL2N0CI1FW20130326

  18. Dal brano di Machiavelli non si ricava alcun contributo alla discussione intorno al populismo: semmai circa l’essere competenti o non esserlo. È una tipica idea dei teorici dell’autonomia della politica (di cui Machiavelli è l’illustre antesignano) quella che la vuole una tecnica a sé, di cui bisognerebbe apprendere i segreti. Dunque il fiorentino si limita a dire che, una volta presi dalla specificità e complessità dei problemi, perché finalmente arrivati nella “stanza dei bottoni”, i “contestatori” cessano di essere tali e sono denunciati dai loro compagni come “traditori”. Abate ricorderà l’accusa che da sinistra veniva mossa a Nenni (a cui risale l’espressione “stanza dei bottoni”) negli anni sessanta: quella di essersi “imborghesito” a causa della sua collaborazione con la Dc nel centrosinistra dell’epoca. Beh, si tratta di questo.
    Che la cuoca possa occuparsi degli affari dello Stato, o che almeno la differenza tra i governati e i governanti possa essere ridotta, dipenderebbe da due circostanze entrambe utopiche: la prima sarebbe che la cuoca fosse sempre meno “incompetente” (cioè esperta delle cose politiche) e la seconda che gli affari del governo diventassero sempre più semplici e trasparenti, nel senso di un deperimento dello Stato. Purtroppo Lenin, che enunciò questi princìpi, seguì poi una politica del tutto diversa. Per riprenderli, in una certa misura, uno come Pierre Rosanvallon propone le giurie popolari sull’operato degli eletti, una proposta di democrazia partecipativa che può vivere, però, solo insieme con la democrazia rappresentativa, e che presupporrebbe un cambiamento costituzionale. Ma la fanfaluca (tipicamente italiana) intorno alla fine della distinzione destra/sinistra non va certo in questa direzione.
    E qui veniamo al populismo. Affinché se ne possa parlare, sono necessarie due condizioni: la prima è che sia “imballato” il motore della politica democratica, appunto la distinzione destra/sinistra; la seconda è che ci sia un rapporto autoritario-paternalistico-miracolistico tra un capo e un popolo. Il tipo puro del populismo è quindi il peronismo, in cui le due condizioni risultano concentrate al massimo grado. (Qui non posso ripercorrere la storia dell’Argentina, ma sarebbe interessante farlo). Dunque uno come Mao era populista? La risposta è sì e no: lo era come lo sono stati tutti i protagonisti dei totalitarismi novecenteschi, che sono fenomeni a sé, ma hanno avuto indubbi tratti populistici, soprattutto ai loro inizi.

  19. @ Genovese.

    La cuoca (noi) non ha potuto occuparsi degli affari dello Stato perché – potremmo dire semplificando – nel frattempo gli affari dello Stato si sono complicati. Ma non casualmente o “naturalmente”. Temo che chi in quegli affari ha da sempre avuto le mani in pasta, anche vedendo i rischi che le cuoche se ne occupassero in modi diversi e poco rispettosi delle regole stabilite (dai professionisti del potere…), si è dato fin troppo da fare per complicarli.
    E le cuoche oggi si trovano a fare i salti mortali, a prendere cantonate, a strepitare a vuoto. Resta il problema che non si rassegnano a cucinare solo con gli ingredienti che gli vogliono passare i vari governanti (e i partiti in genere). Specie in tempi in cui il rifornimento a loro viene drasticamente tagliato, mentre ai cuochi esperti o di prestigio (tipo militari, burocrati, manager, banchieri) non solo non viene toccato ma rimpolpato.
    Resto dell’avviso che populismo e distinzione destra/sinistra sono diventati concetti da maneggiare con il massimo di cautela e con coraggio per vedere fino a che punto sono logorati e inservibili e fino a che punto no; e, soprattutto, se non nascondano delle sorprese ( che – attenzione – possono essere anche cattive…).

    Su un altro blog un’amica, in risposta al mio commento al testo di Bodei (sopra) mi ha obiettato ironizzando: «Ma, poiché la moltitudine è incapace di operare dei distinguo ed è facile trascinarla nella faziosità, allora le «idee più adeguate sulla realtà» le avranno solo i governanti?, come provocatoriamente chiede Ennio. Direi proprio di no, anzi, abbiamo visto tutti il brillante lavoro di devastazione fatto dai cosiddetti tecnici!!»

    Ho replicato: Allora, le «idee più adeguate sulla realtà» le hanno solo i governanti e i loro tecnici? Mi pare importante insistere, perché qui si nasconde un enorme e irrisolto problema storico, che ha riflessi anche in questo dibattito sul “grillismo”.
    La mia amica aggiungeva saggiamente :« Parla Bruto e la folla lo sostiene, parla Antonio e la folla va in delirio. Eppure i due oratori sono diversi: Bruto cerca di sedare le passioni mentre Antonio cerca di eccitare proprio quelle e con maggiori risultati» e conclude: « la moltitudine è incapace di operare dei distinguo ed è facile trascinarla nella faziosità».
    È vero. Oggi vediamo i vari Bruto e Antonio anche in TV. E allora?
    L’unica possibilità, dunque, che la folla (o le masse o la moltitudine), non sia faziosa e appoggi o combini qualcosa di buono, visto che da sola è come un bambino che ha assoluto bisogno della guida di un adulto, starebbe nello scegliere ( o indurla a scegliere) una guida buona e non cattiva?
    È, lo si comprende bene, la posizione classica di Lenin: per combinare qualcosa di buono nella storia (allora una rivoluzione che si voleva “proletaria” o socialista) ci vuole un partito di “scienziati della rivoluzione”, un’avanguardia che sa come stanno veramente le cose e riesca a farlo capire almeno ad una sezione della folla (o masse o moltitudine).
    Dall’altra, finite sullo sfondo o riprese in particolari momenti, ci sono le posizioni illuministiche, sia pur con qualche tentennamento “protestante”, di Kant: l’illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla minorità, la quale è da imputare all’uomo stesso. O quelle, facilmente liquidate ( dallo stesso Lenin che pur ne riconosceva i meriti), di Rosa Luxemburg (e , in un contesto storico più lontano e diverso, dello stesso Spinoza o dei “romantici” del primo Ottocento), che avevano fiducia nella “creatività” delle masse.
    Il dilemma tra queste due posizioni resta, per me, aperto e non è liquidabile con una scelta unilaterale.
    Perché è vero che solo con lo strumento del partito che conosce prima come stanno le cose (fornito di teoria) Lenin ha fatto la rivoluzione nella Russia zarista, ma è vero anche che quella rivoluzione non è riuscita ad essere “proletaria” né ad “estinguere lo Stato”; ed è venuto fuori un qualcosa, l’URSS da Stalin fino a Gorbaciov, che alcuni vedono solo come una degenerazione autoritaria della rivoluzione (un po’ come capitò alla Rivoluzione Francese con Napoleone) e altri vedono come “un’altra cosa”, l’unica realisticamente possibile e dunque – hegelianamente (ciò che è reale è razionale) – da accettare, liberandosi dall’”utopia” (“proletaria” o d’altro tipo e in fondo assimilabile a quaclosa che ha a che fare con la religione o le religioni, anche “laiche”), che al massimo sarebbe un contorno del tutto secondario della storia.
    Com’è vero che la “creatività” dei movimenti dura poco e presto – vedi ‘ 68 – la loro immaginazione va , sì, al potere, ma ben depurata, neutralizzata e portata lì, trasformisticamente, da pentiti o semi-pentiti del movimento stesso.
    Se poi qualcuno ha scovato la quadratura del cerchio, la spieghi. Ma dare addosso al “populismo” o mettersi a tappare i troppi buchi della barca detta “di sinistra” proprio non va.

  20. @genovese.
    Per la percentuale di voti andati a Grillo bisogna intendersi sui termini : siamo un un quarto di voti della sinistra, se si intende per sinistra l’area elettorale che ha come riferimento il Pd e/o la sinistra radicale; è corretto parlare di un terzo se si intende il voto proveniente dall’intera area del centrosinistra. Il tema dei rapporto tra govenanti e governati chiama il causa la crisi della rappresentanza. Il rapporto tra rappresentanti e rappresentati si pone in tutta la sua drammatica criticità dal momento che il problema di fondo della democrazia in Europa, per stare a noi, è lo sfarinamento della rappresentanza sotto i colpi di maglio della governance; è così che il capo dello stato custode della Costituzione si permette il lusso di ignorare il risultato elettorale per realizzare ad ogni costo il “suo” disegno politico. Mai come oggi, nel tempo della governance, la rappresentanza diventa, per dirla con il grande giurista liberale Hans Kelsen, una finzione giuridica. Quella finzione che invece aveva trovato corpo, sangue e nervi nei grandi partiti di massa che hanno sostanziato l’impianto parlamentare della democrazia parlamentare con il compromesso socialdemocratico ( avente il keynesismo come propria costituzione materiale). Incontestabilmente il grande progetto europeo si è rivelato la testa d’ariete del neoliberismo che ha abbattuto il modello socialdemocratico europeo che ha gevernato “i trenta gloriosi” surrogandolo con la governance che, come ha dimostrato la vicenda greca, pone tra parentesi la democrazia rappresentativa. Considerando che con l’esperimento del governo Monti in Italia si è costruito e sedimentato nel discorso pubblico un polo dialettico tra governance e populismo, meriterebbe semmai di essere meglio indagata la categoria del populismo, che invece nell’accezione datagli dal senso politico diventa “una forma di stigmatizzazione priva della minima eleborazione teorica”, per dirla con André Taguieff. Insomma l’eccezionalità dei tempi richiede di sottoporre a un vaglio critico ulteriore le categorie che abbiamo agito e che fanno parte della nostra cassetta degli attrezzi. Pena la totale autoreferenzialità e la neutralizzazione di ogni discorso politico che si dica di sinistra.

  21. D’accordo con Cimmino. La situazione potrebbe cambiare solo se ci fossero, insieme, impetuosi movimenti sociali e una sorta di rifondazione socialdemocratica, che spingesse i partiti della sinistra europea a una riforma di se stessi nel senso della democrazia partecipativa. In assenza di queste due cose, c’è l’avvitarsi reciproco di un’élite tecnocratica con il populismo: l’una e l’altro si tengono per mano, l’una è il riflesso dell’altro. Perciò la linea è (sarebbe) quella della lotta su due fronti: contro questa élite (quella dei Draghi e dei Monti, oltre che della Merkel) e contro le tentazioni euroscettiche e fascistoidi.
    Napolitano avrebbe fatto meglio ad andare via in anticipo. Tra le due possibilità – rinviare Bersani alle camere con un governo di minoranza, o dare l’incarico a un altro (che sarebbe potuto essere uno meno sgradito ai grillini) – ha scelto di non scegliere. Ha cioè innestato il “pilota automatico”, quello di Draghi. Paradossale, ma non tanto, che a Grillo lo stallo in fondo vada bene: nessun governo, ossia la permanenza del governo Monti dimissionario, significa appunto l’avvitarsi reciproco del populismo e della tecnocrazia europea.

  22. Il M5S: un’altra stampella per i padroni

    Egregio direttore,

    Può essere utile per determinare l’esatta natura sociale del M5S, di cui Grillo e Casaleggio sono, più che i rappresentanti, i proprietari, riferire, a distanza di un anno da questo articolo, un episodio significativo e rivelatore del modo in cui questo movimento reazionario e neoqualunquista persegue il consenso e la rappresentanza di certi settori del mondo imprenditoriale. Mentre i mass media starnazzavano sui ‘processi’ e sulle espulsioni di questo o quell’esponente del M5S, Roberto Casaleggio, ‘patron’ di questa formazione politica che finge di essere ‘anti-politica’, ed ospite di riguardo del sinedrio ultracapitalistico di Cernobbio, dove è stato oggetto della benevola attenzione di Mario Monti, il Casaleggio, dicevamo, ha incontrato a Milano, il 5 marzo scorso, una rappresentanza padronale di piccoli e medi imprenditori guidata da Arturo Artom, industriale di primo piano, coordinatore del consorzio di imprese Confapri (un acronimo che riassume la denominazione quanto mai pomposa e pretenziosa di “Conferenza permanente di esperti delle Attività Produttive Italiane per un Rinascimento italiano”) ed aperto sostenitore del M5S. Lo scopo dell’incontro è stato quello di illustrare ai rappresentanti di questo settore del capitalismo italiano i pregi e l’appetibilità del programma economico messo a punto, e spacciato come una ‘rivoluzione’, dalla premiata ditta “Grillo & Casaleggio”. Un programma economico che vale alcune decine di miliardi di euro, ovviamente da trasferire nelle tasche degli imprenditori, giacché prevede l’abolizione dell’Irap (34 miliardi), l’abolizione dell’Imu sui capannoni (3 o 4 miliardi) e, come se non bastassero quelli or ora citati, ulteriori provvedimenti di “abbattimento della pressione fiscale” sulle imprese.
    Orbene, la prima cosa da osservare è che questo programma non è alternativo, ma identico o complementare a quello del governo presieduto da Matteo Renzi e a quelli dei governi che lo hanno preceduto (da Prodi a Berlusconi, da Monti a Letta). La riduzione dell’Irap è sempre stata una costante sia delle richieste della Confindustria sia della gestione governativa; la novità è che il M5S, nel suo ardore antioperaio e filo-padronale, la radicalizza portandola alle estreme conseguenze. L’abolizione dell’Irap significa infatti la cancellazione dei 34 miliardi di euro che oggi finanziano ciò che resta della sanità pubblica dopo i tagli brutali inferti a questo fondamentale settore dei servizi sociali dai governi prima ricordati. Se poi si domanda quale sia la copertura finanziaria di questo provvedimento, il M5S, nel suo viscerale odio contro il pubblico impiego, contro la classe operaia e contro lo Stato sociale, risponde nello stesso modo di Carlo Cottarelli, commissario, pagato 700 euro al giorno, di quel “macello sociale” correntemente nominato, nel linguaggio dell’Impero adoperato dai suoi servi in livrea, come “spen-ding-riviù”. “Chiusura delle aziende improduttive e in crisi” e abbattimento dell’occupazione nel settore pubblico e nei servizi, accompagnati, per non più di due anni, da un “salario di cittadinanza” di 600 euro: questa è la proposta strategica che il M5S ha confezionato per i lavoratori pubblici e privati. Non può quindi sorprendere che vi siano settori padronali interessati a questa offerta avanzata da un partito che ha raccolto il 25% dei voti e che non nasconde le proprie ambizioni di governo. Quello che, peraltro, merita di essere rilevato è il progetto di Casaleggio, che consiste nel tentativo di aggregare attorno ad un programma antioperaio e antipopolare una corrente organizzata del mondo padronale, una sorta di Confindustria parallela. Il progetto è lo stesso di quello a suo tempo perseguito dalla Lega Nord: creare, cioè, un blocco sociale avente come proprio asse strategico la piccola e media impresa. Non a caso, con la presa di posizione favorevole alle cosiddette ‘macroregioni’ lo stesso Grillo ha chiaramente esternato la sua continuità e contiguità con il progetto reazionario e secessionista della Lega Nord, di cui si prefigge di raccogliere il testimone. Nello stesso incontro di Milano Casaleggio ha così motivato la credibilità di questo disegno di potere: “La sfida futura sarà tra noi e il Pd e un collasso di Renzi può aprire davvero la via a un nostro governo monocolore, l’unico che ci interessa”.
    Ciò di cui occorre prendere nota, tralasciando per il momento il problema della sua credibilità o del suo velleitarismo, è allora il progetto che caratterizza il M5S: dare vita, nel quadro di una crisi economica mondiale che vede la progressiva emarginazione di vasti settori dell’apparato industriale italiano dal mercato mondiale, nel mentre una crisi storica di egemonia delle classi dirigenti vede l’inarrestabile sgretolamento degli apparati politici e istituzionali, ad una repubblica antioperaia e antipopolare fondata sulla centralità e sulla intangibilità del profitto capitalistico. Un progetto che ricorda molto da vicino il periodo più nefasto che abbia conosciuto il nostro paese nel secolo scorso.

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