di Claudio Giunta
È difficile pensare a un saggio meno attuale di Le due culture di Charles Snow, che alla fine degli anni Cinquanta accese una discussione infinita mettendo l’uno contro l’altro due tipi umani che sino ad allora avevano abbastanza pacificamente convissuto, a volte addirittura collaborato: quelli che leggono Amleto e quelli che sanno qual è il secondo principio della termodinamica. Rileggendo il libretto si constata che la distinzione non era granché più sottile: da un lato la genia degli scienziati, che «ha il futuro nel sangue», dall’altro quella degli umanisti, i quali «pretendono che la cultura tradizionale costituisca la totalità della ‘cultura’, come se l’ordine naturale non esistesse» e, «per natura luddisti», «nutrono un particolare disinteresse per gli uomini loro fratelli» (sic). E si respira l’aria di certi vecchi film in bianco e nero: con la guerra fredda, la paura che gli ingegneri sovietici facciano le cose più in fretta degli ingegneri americani, le high tables dei college inglesi in cui i letterati (teste Snow) trattano con una certa sufficienza i loro colleghi scienziati. Oggi sono rimaste solo le high tables, ed è molto probabile che qui il rapporto si sia invertito, e che siano gli scienziati a guardare con sufficienza i loro sotto-finanziati, non-attrattivi, obsoleti colleghi umanisti. Ma al di là di queste un po’ oziose questioni di prestigio, è il tema in sé che mi pare abbia perso centralità. La mia copia del libro di Snow ha una bella prefazione di Ludovico Geymonat che avverte: «Nessuno può essere, oggi, così cieco da non rendersi conto che l’esistenza di due culture, tanto diverse e lontane una dall’altra quanto la cultura letterario-umanistica e quella scientifico-tecnica, costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà». Felice l’epoca – verrebbe da commentare – in cui erano questi i problemi che potevano mettere in crisi «la nostra civiltà».
Le due culture di Snow apparteneva al genere difficilissimo del pamphlet, un genere in cui per cento pagine si fanno considerazioni ordinate tutte a un medesimo obiettivo. L’obiettivo di Snow era sintetizzabile nella frase ‘Le scienze dure sono più importanti delle scienze umane’; o nella frase ‘La cultura scientifica dovrebbe essere apprezzata più di quanto non si faccia di solito’; o nella frase ‘Solo le scienze applicate ci possono salvare’. Il rischio di ogni pamphlet, come di ogni ragionamento a tesi, è duplice. Da un lato una visione caricaturale degli avversari (Snow non aveva in mente degli umanisti, aveva in mente degli idioti); dall’altro la cecità rispetto a tutto ciò che potrebbe mettere in discussione l’assunto che s’intende provare, e quella fiducia smodata nelle proprie idee che porta ad essere incautamente ottimisti («La disparità tra ricchi e poveri […] non durerà a lungo. Qualunque cosa, nel mondo che conosciamo, sia destinata a sopravvivere fino all’anno 2000, certo non sarà questa disparità. Una volta che l’espediente per diventare ricchi è conosciuto, come lo è ora, il mondo non può più continuare a vivere mezzo ricco e mezzo povero. Non può proprio andare avanti così». Dove l’espediente sarebbe il buon uso della tecnica: mai fare previsioni, mai).
Le tre culture di Jerome Kagan appartiene invece al genere ‘saggio di sintesi’, o ‘saggio-visione’, ed è insomma uno di quei libri che vengono scritti verso la fine della vita da studiosi che hanno dato contributi importanti all’interno della loro disciplina, ma hanno letto molto anche al di fuori di quei confini, e ora vogliono provare a comunicare a un pubblico più ampio la loro visione del mondo. In passato era soprattutto un genere da filosofi. Oggi che la spiegazione dell’Intero non sembra più stare in cima ai loro pensieri, il testimone è passato ad altre categorie che sono o presumono di essere più in sintonia con lo Zeitgeist: fisici, economisti, psicologi, biologi. Kagan è appunto uno studioso di psicologia, il che spiega perché, nel suo libro, la parte relativa alle scienze dure sia un po’ sacrificata, quella relativa alle scienze umane sia ridotta al minimo, e quasi tutto lo spazio se lo prenda la terza cultura, cioè quelle che si chiamano sinteticamente scienze sociali. Questo squilibrio si avverte non solo se si guarda alla quantità, al numero delle pagine, ma anche se si guarda alla qualità dell’argomentazione. Le molte pagine che Kagan dedica alla psicologia e alle discipline confinanti sono piene di osservazioni interessanti, la gran parte delle quali ruota attorno al problema cruciale del rapporto tra natura e cultura (cos’è innato e cos’è costruzione sociale? Cos’è ‘umano’ e cos’è frutto dell’educazione?), problema che Kagan affronta con grande equilibrio e soprattutto – come non accade in troppi petulanti contributi ‘umanistici’ sul medesimo tema – alla luce di abbondanti dati sperimentali. Ma le cinquanta pagine dedicate alle scienze dure e all’economia sono poco più che aneddotiche. E le cose vanno peggio con le humanities perché, non diversamente da Snow, Kagan ne ha una visione talmente riduttiva da rendere impossibile qualsiasi argomentazione o contro-argomentazione sensata. Per Snow gli umanisti erano quelli che avevano letto Amleto. Dal canto suo, Kagan ritiene (p. 259) che alla domanda «Quali sono le funzioni dello studio umanistico?» gli umanisti contemporanei risponderebbero «Fornire prospettive divergenti sulla condizione umana e creare oggetti belli». Un’idea che non si saprebbe bene come prendere (Kagan pensa ai romanzieri? Ai pittori? Certo non agli storici, filologi, paleografi, archeologi, linguisti che nelle università svolgono un lavoro non meno esatto e non meno scientifico dei loro colleghi fisici e biologi), ma che contribuisce a spiegare il tono millenaristico di una sintesi come questa: «Il mondo moderno ha disperatamente bisogno dei suoi Swift, Kant, Goya, Shaw, Beckett o Eliot per provocare una popolazione passiva, alla deriva in una nave senza una direzione chiara, che chiacchiera dell’ultimo episodio dei Soprano». Il senso degli studi umanistici – si potrebbe dire se si accettasse questo gioco – sta precisamente nel favorire l’attitudine contraria: quella che porta a diffidare di ogni esigenza di «direzione chiara», e che per esempio accoglie come una benedizione il fatto che un essere umano che vive oggi possa godere insieme di Kant, di Goya e dei Soprano. Ma non bisogna accettare questo gioco.
Il capitolo finale, Tensioni attuali, parla dell’equilibrio fra le tre culture nell’università, e ne parla con intelligenza, ma contiene considerazioni di un buon senso così cristallino da rasentare il senso comune. Non è colpa di Kagan: qualsiasi discorso sull’istruzione superiore che tratti di questioni generali corre il rischio di ripetere cose già note, e su cui siamo tutti d’accordo. Solo i sovversivi riescono ad essere veramente interessanti, ma di solito hanno anche torto. Invece Kagan ha quasi sempre ovviamente ragione: quando sostiene che la biologia può fornire dei buoni protocolli d’indagine alle scienze sociali (no alle infatuazioni per le certezze delle scienze dure); quando osserva che una storia del banjo non dovrebbe avere lo stesso credito di un corso sui fondamenti della fisica (no alla completa destrutturazione dei curricula); quando, coll’autorità dell’esperto, assicura che nessuna mappa genomica abolirà mai il libero arbitrio, per cui se un adolescente si ubriaca e poi sfascia la macchina in un incidente non ci sono scuse, è colpa sua: oggi invece «le autorità scolastiche e gli amici condividono la colpa per avergli permesso di bere fino a ubriacarsi e poi di guidare un’automobile». Insomma, il corredo genetico non è predittivo quanto all’uso o al non uso dell’etica della responsabilità: è un sollievo saperlo.
Dove Kagan ha forse torto, dove forse il suo buon senso non funziona, è su una delle questioni fondamentali del libro, e cioè sul modo in cui i rappresentanti delle tre culture dovrebbero provare a colmare il gap che li separa. Scrive Kagan: «L’ovvio bisogno di una maggiore comprensione reciproca fra i membri delle tre culture potrebbe essere soddisfatto almeno in parte dalle collaborazioni, sia all’interno che all’esterno dell’accademia, da insegnamenti condivisi e da libri scritti a più mani da rappresentanti di tutti e tre i gruppi». A stringerla in una parola, questa è la famosa interdisciplinarità (in italiano popolare interdisciplinarietà, con una e in più piovuta da chissà dove), cioè la saggia raccomandazione di studiare un oggetto, un’epoca, un problema, facendovi convergere tecniche diverse, elaborate in campi del sapere diversi. Ora, almeno in campo umanistico, il richiamo all’interdisciplinarità assomiglia un po’ a un truismo, perché è una cosa che, al livello più alto degli studi, si è sempre fatta. Interdisciplinarità significa qui, in sostanza, ‘ricerca di qualità’. Si tratta allora di creare degli studiosi capaci di farla, questa ricerca di qualità, e non è affatto detto che l’interdisciplinarità programmata, la contaminazione decisa a tavolino, sia la strada da percorrere se si vuole raggiungere quest’obiettivo. Le occasioni d’incontro tra specialisti di discipline diverse sono ovviamente una ricchezza. Ma queste occasioni si creano all’interno di ottime università, popolate da ottimi docenti e da ottimi studenti: la ricerca di alto livello (aka interdisciplinarità) nasce su questo terreno, non altrove. Pensare – come si fa sempre più spesso – di saltare direttamente all’ultimo passaggio e fare ‘ricerca interdisciplinare’ è un buon modo per incoraggiare il velleitarismo e la chiacchiera. Sul fronte della formazione, questo significa che, prima di promuovere collaborazioni tra esperti di discipline diverse e la scrittura di libri in équipe, l’università dovrebbe continuare a curarsi della buona salute delle singole discipline e della buona qualità degli studiosi che la professano. Formare dei bravi linguisti, o dei bravi storici, o dei bravi paleografi: questo è un obiettivo sensato; ‘formare dei nuovi Max Weber’ è un’idea seducente, ma non funziona (ma è, ripeto, un’idea diffusa: una sua variante spericolata si ritrova per esempio nel libretto di Toby Miller Blow Up the Humanities, Philadelphia, Temple University Press 2012, che propone di somministrare agli studenti «a blend of political economy, textual analysis, ethnography, and environmental studies», in modo da farli diventare degli agguerriti media critics: ma certo).
In definitiva, l’impressione è che la debolezza di libri così diversi come quello di Snow e quello di Kagan stia nel tema ancor prima che nello svolgimento del tema. Da un lato, le ‘culture’ così intese sono organismi troppo mobili e complicati perché se ne possa dare una descrizione sintetica. Dall’altro, predicare le contaminazioni è inutile perché – là dove si danno le condizioni opportune, e non altrove – queste si sviluppano per conto loro. Infine, colmare il divario fra le due o tre culture, oltre che irrealistico, è assurdo, perché dobbiamo precisamente a questo divario, a questa differenziazione di ruoli, buona parte del progresso tecnico-scientifico che rende meno spiacevole, meno insicura e meno breve la vita moderna; così come gli dobbiamo tante splendide opere d’arte, e tanti bei libri sulle opere d’arte. Anziché adoperarsi per colmare il divario che le separa, le tre culture dovrebbero continuare a crescere e raffinarsi nella massima libertà, e talvolta, altrettanto liberamente, conversare tra loro. Almeno fino a quando gli specialisti della quarta, l’informatica, non decideranno che è ora di piantarla.
[Questo articolo è uscito sul Domenicale del «Sole 24 Ore», 10 marzo 2013].
[Immagine: Massimo Iosa Ghini, Sede dell’IBM, Roma (gm)].
“Dall’altro, predicare le contaminazioni è inutile perché – là dove si danno le condizioni opportune, e non altrove – queste si sviluppano per conto loro. Infine, colmare il divario fra le due o tre culture, oltre che irrealistico, è assurdo, perché dobbiamo precisamente a questo divario, a questa differenziazione di ruoli, buona parte del progresso tecnico-scientifico che rende meno spiacevole, meno insicura e meno breve la vita moderna; così come gli dobbiamo tante splendide opere d’arte, e tanti bei libri sulle opere d’arte. Anziché adoperarsi per colmare il divario che le separa, le tre culture dovrebbero continuare a crescere e raffinarsi nella massima libertà, e talvolta, altrettanto liberamente, conversare tra loro. Almeno fino a quando gli specialisti della quarta, l’informatica, non decideranno che è ora di piantarla.” (Giunta)
Che moltissime contaminazioni fatte passare per interdisciplinari siano velleitarie e confusionarie non ci piove. Lo ammettiamo. Ma che “là dove si danno le condizioni opportune, e non altrove – queste si sviluppano per conto loro” è tutto da dimostrare. Campa cavallo che l’erba cresce… sempre più “specialistica” ed elitaria.
Dov’è questa “massima libertà”? Quanti ne usufruiscono? Quanti vengono danneggiati da essa? Vecchi problemi, molto fastidiosi e sorvolati non solo da Snow ma da tutta la “compagnia universitaria” cosmopolita globalizzante….
Non ho letto il libro; posso pertanto limitarmi a una considerazione sulla interdisciplinarita’, che mi sta particolarmente a cuore, in quanto sogno per gli studi letterari un approccio non troppo distante da alcune basi delle scienze sia dure sia sociali (lavoro di squadra, importanza dei dati, distinzione di descrizione e interpretazione, applicabilita’ dei risultati e replicabilita’ degli esperimenti) di cui sento fortemente il bisogno.
Sono d’accordo che e’ necessario prima che ogni disciplina sia solida, e che ci siano le basi concrete per aprire alla collaborazione tra diversi dipartimenti o centri di ricerca. E pero’ anche il fattore della curiosita’ individuale ha un suo peso: basterebbe leggersi qualcosa di antitetico ai propri paradigmi per restarne illuminati o, al contrario, respingerli con motivazioni. Per me e’ stata illuminante la lettura di Popper, un filosofo mai preso in considerazione agli studi letterari, particolarmente refrattari alla tradizione della filosofia analitica, rispetto a quelli della filosofia continentale.
E in Popper ho anche trovato la risposta di questo ‘prurito’ tutto umanista a una impostazione scientifica: e’ un problema profondo, riconducibile all’epistemologia soggettiva (soggetto conoscente vs. oggetto da conoscere) che le soggiace, a differenza dell’espistemologia oggettiva (insieme delle teorie che competono per rispondere a delle ipotesi formulate a partire da problemi di natura varia) che invece attiene alle scienze.
A volte ho l’impressione che, da un certo punto di vista, gli studi letterari (con eccezioni quali filologia, linguistica testuale, semiotica) siano lontane secoli dai piu’ rudimentali requisiti scientifici.
Commento inattuale.
Bè, forse dipenderà dal fatto che gli studi umanistici si interessano, o dovrebbero interessarsi, della natura umana, e gli studi scientifici no.
Che ci dicono la biochimica o la fisica su come condurre la vita, ripartire le risorse, onorare i morti, educare i figli, etc.? (Per tacere del *perché* fare queste ed altre cose). Non ci dicono, giustamente, un tubo, perché si occupano di tutt’altro.
A parte che non è vero che non ci sono scienze che in qualche modo si occupano della “natura umana” (ammesso che si riesca a definire con un’accettabile grado di precisione cosa significhi tale espressione), o che almeno tentino di occuparsi di essa, è però corretto dire che al nucleo cosiddetto duro delle scienze non interessano un granché tali cose: per la fisica – “l’uomo” è “matter in bulk”, un corpo costituito di molecole che interagisce con il resto dell’universo in un modo molto ben definito e abbastanza ben compreso; per la biologia sarà un insieme di cellule, tessuti e organi altamente organizzati in cui c’è unanime consenso nel dire che si verifichino fenomeni riconducibili a proprietà emergenti e così via.
Nel loro ambito (molto ben definito) tutto si può dire tranne che le scienze non siano efficaci.
Detto ciò, neanche io ho letto i libri citati dall’articolo, ma vorrei precisare che in genere chi si occupa professionalmente di scienza è solitamente anche interessato (almeno un po’) alle “Humanities”, alle arti, alla musica. Certo non in modo tale da ipotizzare necessariamente collaborazioni interdisciplinari, ma non si può dire che lo scienziato sia totalmente avulso e indifferente a letteratura, storia, poesia… nel passato – portando a esempio proprio la fisica – si danno casi grandi scienziati anche un po’ filosofi (Heisenberg), un po’ poeti (Schroedinger), un po’ musicisti (Einstein).
E’ vero invece, molto spesso, il contrario, per quanto sembri anacronistico: i risultati effettivi delle scienze in genere non interessano molto a chi si occupa di letteratura, poesia, storia (almeno in parte), e politica. Manca forse anche la volontà – o l’occasione, o la richiesta – di presentare le scienze in modo un po’ più rigoroso di quello solitamente divulgativo, cosa che invece succede nei paesi di tradizione “analitica”, all’interno dei curricula universitari stessi.
Che poi non si debbano forzare arbitrariamente convergenze e contaminazioni tra scienze e studi umanistici mi sembra abbastanza ovvio, e non capisco neanche perché si dovrebbe farlo. Neanche a livello metodologico, per quanto possa essere interessante vedere dove portano questi tentativi. E’ ovvio che la filologia romanza non ha molto da dire sulle supernove, così come la chimica sulla poetica di Montale. Questo non significa che non ci si debba conoscere reciprocamente – certo non a livello specialistico -, come argomenti, metodi e risultati. Non lo ritengo un modo di procedere molto saggio: i modi di vedere le cose sono molti, ma in fondo il mondo è uno solo.
In quanto alla quarta cultura (l’informatica), io ho le mie opinioni, e non la penso per niente equipollente alle altre due (o tre): ne vedo spesso, nel contesto di questi argomenti, un’azione in termini di confusione e scarso rigore – cose tra di loro in qualche modo collegate -, laddove non si limiti solo a supporto strumentale (in questo senso utilissimo) alla ricerca e alla diffusione di risultati.
Caro @Castiglione, io mi sono dibattuto a lungo nel problema: ma in un’epoca di scienza, tecnologia, psicologia e sociologia a che serve la letteratura? E’ un mio amore particolare e inutile, quasi un’ubbia privatistica? Words words words? Insomma, prendevo (e prendo) terribilmente sul serio la scienza moderna.
Leggi leggi, ho cominciato a capire che la risposta non l’avrei trovata per la semplice ragione che era la domanda che non reggeva. Contrapporre soggetto e oggetto è precisamente un assunto della scienza moderna: è un paradigma, fondamentale per la modernità, ma è pur sempre un paradigma, in cui siamo entrati, da cui magari prima o poi usciremo, da cui ogni tanto, e per fare certe cose, è bene uscire (ecco, magari non per verificare l’efficacia di una cura per il cancro). Insomma: lo svilimento del coté soggettivo della conoscenza è il correlato necessario di una concezione obiettivata della conoscenza, quanto pertiene al soggetto ci sembra irrazionale proprio perché solo la “realtà” là fuori sembra razionale. Questo è un mondo strano, in cui una realtà esterna stabile e sensata è percorsa da tante monadi impazzite e scisse, per cui la conoscenza non metodica è solo una forma volgare di proiezione della propria interiorità infondata sul mondo.
Forse conviene provare a tenere un po’ tutto insieme.
Infine, la ricostruzione oggettiva dei fatti può facilmente slittare dal buon senso filologico all’edificazione di un sistema un po’ totalitario: anche l’oggettivismo ha le sue passionacce irrazionali e inconfessabili.
Io sono troppo giovane per averlo potuto verificare de visu, magari è un mito, ma non si dice che qualche decennio fa ci sia stata una vera e propria ubriacatura strutturalista della critica? Forse quanto auspica lei allora c’è già stato. Io non metto becco sugli effetti prodotti sull’accademia, ma nella scuola ha fatto più danni dello storicismo che pretendeva di combattere (certo, la colpa è anche in gran parte della scuola e degli insegnanti). Chi ha ragione? Chi dice che il mondo, e la nostra Italia in particolare, non è ancora abbastanza razionale o chi dice che lo è o lo è stato anche troppo?
Caro @Buffagni, posso farle compagnia nella sua inattualità?
@ Ferrero. Dice molte cose condivisivibili. Non solo gli scienziati leggono letteratura, ascoltano musica, ecc.., scrivono anche libri, più o meno divulgativi, in cui spiegano il contributo che la loro disciplina dà alla conoscenza del mondo (pure della “natura umana”: se non è definibile non vuol dire che non ci sia qualcosa che chiamiamo uomo e che dunque ha, con tutte le cautele del caso quando si ricorre a questa parola, una “natura”). Se le discipline scientifiche fossero solo aumento positivo delle conoscenza, basterebbero gli articoli accademici.
Però sul lamento solito che gli umanisti italiani la scienza manco se la filano… pure questo è un luogo comune.
Verifichi lei stesso: http://www.youtube.com/watch?v=vJlvrQ0OD3A
Caro Daniele,
parlo di definizioni in merito alla natura umana in quanto tutti sappiamo che un prerequisito fondamentale per incominciare a fare scienza è, dopo aver capito bene di cosa si sta parlando (diciamo circoscrivere il problema) proprio quello di definire quanto meglio si può gli “oggetti” sottoposti a indagine. Solo in questo senso. Il che non vuol dire che ciò non si possa fare nelle scienze umane, ma confesso di non aver le competenze per addentrarmi su questo terreno. Come non vuol dire che non si debba parlare di “natura umana” nel senso da te evidenziato (ti do del tu perché ci siamo conosciuti qualche settimana fa, a un seminario su Habermas), ci mancherebbe! Tra l’altro mi sembrava anche di averlo detto, o almeno suggerito.
Sui luoghi comuni: guarderò il filmato, appena posso. Io però parlo anche per esperienza personale: magari non è (del tutto) vero che gli umanisti italiani non se la filano (la scienza), ma indubbiamente spesso pensano che sia inattingibile, forse perché difficile. Colpa in primis degli scienziati? Probabilmente. Ma esiste il modo di venirne a capo, come ho anche detto. Senza per forza ricorrere alla divulgazione da best-seller. Sempre se interessa, ovviamente.
Caro Alberto (scusa il precedente lei, mi ricordo di te, ma ogni tanto fatico a scegliere tra i vari gradi del continuum formalità-informalità, tanto più se, come nel nostro caso, l’e-conoscenza ha intrecciato una rapida conoscenze nel mondo reale: e mi trovo indeciso tra i “gentile”, “caro”, nomi, cognomi, titoli vari, il tu e il lei…),
sì la menzione della “natura umana” stava dentro un discorso più ampio, non avrei dovuto ridurlo così, perdonami.
Io credo che il dibattito pubblico avrebbe tutto da guadagnare se chi vi partecipa esercitasse l’arte del discernimento. A volte invece vedo che troppi non resistono alla vogliuzza di togliersi il sassolino dalla scarpa e pur di polemizzare fanno di tutta l’erba un fascio (il riferimento non è a questo blog).
Per dire, un conto è ricostruire storicamente la squalifica della scienza da parte dell’idealismo crociano, un conto applicare quello schema anche all’Italia di oggi, specie se oggi gli umanisti che lottano sul campo sono soprattutto gli insegnanti, che fanno i conti, spesso impotenti, con la progressiva marginalizzazione della cultura umanistica nelle priorità dei ragazzi (sì, anche la matematica dicono che non serve: ma credo che sulla chimica, la fisica e l’informatica raccoglieremmo opinioni diverse); quegli stessi insegnanti che, semmai, conoscono poco la scienza non per spocchia, ma per malinteso senso d’inferiorità (“non posso arrivarci…”). Questa cosa, però, credo che nasca proprio dal fatto che oggi i discorsi veritativi, quelli forti, sono quelli scientifici, cioè questo pensano istintivamente tutti. Molto banalmente, si può provare a chiedere a dieci passanti presi per caso: è più vero il risultato di un esperimento scientifico o un canto della Commedia? Sappiamo già quale sarà la risposta.
Il discorso vale anche per l’atteggiamento verso la scienza: un conto è vedere i pericoli insiti nel dispiegarsi della tecnica, un altro è prendersela con la scienza tout court e rimpiangere un passato idilliaco che mai è esistito.
Io credo che gli umanisti facciano resistenza forse un po’ più di altri solo perché percepiscono più acutamente il carattere “distruttivo” della conoscenza scientifica (non è un merito, si nasce e ci si accultura secondo certe predisposizioni). Preciso che uso il termine come lo usava Leopardi, che con il razionalismo cartesiano ha fatto eccome i conti, e non l’ha rifiutato (però non l’ha nemmeno abbracciato fideisticamente). Smitizzare il mondo ha i suoi costi psicologici. Ecco, sapere, come dicevi tu, che l’uomo è un “corpo costituito di molecole che interagisce con il resto dell’universo in un modo molto ben definito e abbastanza ben compreso”, qualche frizione psicologica la crea. (Almeno in chi lo prende seriamente. Molti altri continuano allegramente a vivere al centro dell’universo).
Ma, detto ciò, ignorare la scienza non si può e non si deve, proprio da parte di chi crede che la letteratura e l’arte siano forme di conoscenza e non di svago o di effusione sentimentale.
Per concludere: Nietzsche diceva che gli uomini dovrebbero possedere due cervelli, uno con il quale ragionare scientificamente e uno con il quale ragionare poeticamente.
Forse è solo un modo per tagliare la testa al toro, è il “ma anche” del Veltroni-Guzzanti. Però mi pare un principio di buona tolleranza.
Caro @ Lo Vetere, grazie per il suo commento articolato. Provo a rispondere, chiarendo che credo di essere d’accordo con lei piu’ di quanto non appaia, dato che mi auguro una integrazione che permetta di riconciliare momento soggettivo e momento oggettivo nello studio della letteratura (il suo “provare a tenere un po’ tutto insieme”).
E infatti, non mi auguro che si passi a un paradigma scientifico (o parascientifico, dato che la scienza e’ cosa seria) per la letteratura, ma solo che un momento sistematico, analitico e descrittivo (intersoggettivo, se ‘oggettivo’ non piace) preceda e renda verificabili o almeno disputabili le intuizioni del critico. Puo’ darsi che ci sia stata un’ubriacatura strutturalista (io sono troppo giovane, quando sono nato si era in pieno decostruzionismo), e pero’ non mi sembra che i risultati dello strutturalismo siano stati mai messi in discussione: anzi, a tuttora, per fare un esempio, la teoria della poesia articolata da Riffaterre in Semiotica della poesia e’ la piu’ illuminante ed esplicativa (in senso quasi scientifico) che abbia letto finora, tanto che la applico senza problemi su altri testi.
Lo strutturalismo non e’ stato superato (nel senso di riassorbito e trasceso), ma solo respinto, dato che e’ stato fatto un processo alle intenzioni, una critica ontologica anziche’ metodologica. Io credo che tantissime debolezze della critica attuale (che puo’ avere travisato il decostruzionismo trasformandolo da metodo di confutazione a esercizio di liberta’ narcisistica, di nichilismo rampante) potrebbero essere sanate con un robusto ‘sistema’, sempre in progress, che dia ai discorsi sulla letteratura (parlo quindi di critica e non di letteratura) una rintracciabilita’ che farebbe piu’ democratica la critica stessa. Ma e’ un discorso complesso, e forse meglio sarebbe proseguirlo in sede privata.
Infine: i danni non li fanno le discipline, ma gli entusiasti dell’ultima ora che le applicano come e quando non dovrebbero… credo che qui, alla base, ci sia anche un forte problema di comunicazione nell’accademia, un’incapacita’ di divulgare senza stravolgere; ma sono solo ipotesi.
Caro @Castiglione, ricordo la sua “Critica della critica” su Poesia2.0 e il suo invito alla trasparenza e a una fondazione diciamo dialogica della critica: bisogna dar ragione di ciò che si dice.
Io allora osservai che ciò era molto giusto e condivisibile, non tanto per una sorta di traslazione della trasparenza e verificabilità scientifica (o anche politica) nel campo letterario, quanto perché riflettere (tra sé e con gli altri) sui presupposti del proprio stesso pensare e dire o scrivere è il modo migliore per affinarsi e approfondire la propria capacità di comprensione. Credo che siamo d’accordo entrambi che la conoscenza debba essere antidogmatica (il “nichilismo rampante” che non le piace, e che non piace neanche a me, credo che ci stia antipatico proprio perché dogmatico).
Capisco anche il senso – metodologico – di distinguere il momento analitico e descrittivo da quello valutativo e interpretativo, se ciò significa proprio quel fornire prove delle proprie affermazioni.
Io però non posso seguirla oltre, sempre che lei voglia andare oltre (dal suo secondo commento mi pare di capire di no), perché credo che la letteratura parli innanzitutto di quello che Buffagni diceva qui sopra. Insomma, il tema che ci interessa è sempre quello del Senso (nostro, del mondo, del dolore, dell’universo fatto di quanti o stringhe o non so che altro) ed è questa priorità che fonda il resto (anche i metodi), non viceversa. Dunque, in fondo, non credo che nel campo di quelle che fino a qualche decennio fa si chiamavano le “scienze dello spirito” sia sempre così facile distinguere il testo e le sue strutture profonde dal contesto che dà a quel testo senso, né che sia così facile distinguere comprensione e interpretazione. (Anche io mi fermo qui, perché è impossibile in questa sede andare oltre questi brevi e apodittici cenni. Se vuole e crede, Giunta può darle il mio indirizzo).
Io certo porto in tutto questo la mia personale sensibilità di insegnante, che ha come primo problema da affrontare quello di far capire che la letteratura serve, ha un senso e dà senso.
Ma, come dicevo, che nel nostro campo soggetti e oggetti siano meno facilmente disinguibili che nel campo delle scienze dure non significa che possiamo dire quello che ci pare: ma in questo anche la prospettiva alla quale più mi sento vicino, quella ermeneutica (ermeneutica, non neoermeneutica o decostruzionista), è d’accordo, perché il testo, in un certo modo, si impone nel dialogo e costruire castelli d’aria su di esso significa molto semplicemente non dialogare con quel tu, ma usarlo come un volgare strumento per fargli fare quello per cui non è nato.
Poi, temo che anche questi ragionevoli discorsi scambiati tra me e lei si scontrino (in strada, ma a volte anche sui blog) con il fatto che le parole e la natura discorsiva dell’essere umano possono essere usate non per incontrare l’altro ma per sopraffarlo (per litigare, per sfogarsi, per dirgli che è uno scemo che non ha capito niente) e che purtroppo anche questo fa parte del gioco crudele cui giochiamo. Avrò un bel ripetere allo studente che della poesia, del racconto storico, delle parole del politico (eh, pure di quelle, o soprattutto di quelle) non ha capito molto e che le sta sovrainterpretando a proprio uso e consumo: se lui o lei non avrà già una qualche predisposizione all’ascolto, le orecche non potrò certo stappargliele io. Purtroppo.
Saluti