di Francesco Scarabicchi
Valeria
In un sabato di luglio del 2001, a Sirolo, sotto un sole cocente, la luce del mattino portò, verso le dieci, Valeria Moriconi che scese dalla piccola jeep con i capelli incendiati, vestita di bianco, ridente. Le rammentai l’incontro di molti anni prima, a Jesi, la “splendida città”, per Il sipario ducale di Paolo Volponi messo in scena da Enriquez, nel ’76. Sedemmo ad un tavolino del Caffè all’aperto, su quel balcone d’Adriatico, sotto gli occhi di molti che sostavano sorridendo, salutando, osservando. Parlava appassionata, rispondeva alle domande che si concentravano, tutte, sulla sua infanzia. L’ascoltavo tentando di immaginarla negli orti e nel giardino della sua casa, al mare, a scuola, tra il natale e l’afa estiva, vivida, curiosa, eccitata, assorta. Non dissimile dalla signora che sorseggiava un the, gesticolava con abile eleganza, si ravviava i capelli, agitava il ventaglio, toccava tutto con gli occhi. Tre ore felici, intense, piene di cose, di parole, di anni attraversati come da un treno, affacciati ai finestrini di quell’esistenza piena quant’altre mai e integralmente assaporata senza risparmio. Ci salutammo camminando verso la balaustra.
Rimasi fermo a vederla andar via, fare manovra, sparire dopo la chiesa di San Nicola. Scorrevo gli appunti sul taccuino, dal ’53, con Lattuada, Emmer, Mattoli, al ’57, con Eduardo De Filippo, dal ’60 con Franco Enriquez al ’65, con La locandiera, e poi La bisbetica domata, Il gabbiano, Le mosche, La buona persona di Sezuan, La vita che ti diedi, Hedda Gabler, Emma B. vedova Giocasta, La veneziana, Filumena Marturano, Trovarsi, La rosa tatuata, Medea, Prima della pensione, I figli della lupa. I titoli annotati danno conto di quel sentimento espresso in uno scritto redatto probabilmente per i suoi quarant’anni di teatro, scandire “la vita” attraverso “le scelte” affermando il talento. Date, luoghi, nomi, situazioni, emozioni. Sfoglio il notes e mi accorgo che seguo il filo invisibile di una biografia d’attrice e di donna che a settant’anni è ancora una creatura d’amore, appassionata, in preda al desiderio di essere, di fare, di interrogare. “Ho lavorato con tutti i grandi registi italiani e continuerò a lavorare con tutti i giovani registi italiani.“
Indomita guerriera della bellezza e della dedizione, incapace di arrendersi, di fermarsi. Solo la morte avrà ragione di lei, ma fino ad un certo punto perché basta l’occasione di un libro – Come in uno specchio, a cura di Franco Cecchini e con un saggio di Anna T.Ossani, edito da QuattroVenti di Urbino nel 2008 – a restituircela nella sua plurale integrità inesauribile mediante le voci del tempo offerte alle interviste rilasciate e agli interventi di circa quarantotto anni di attività (1957-2004). Se si considera la mole di un lavoro del genere (413 pagine), i “film” di un percorso intramato, coerente e conseguente che il volume – fisicamente e graficamente bello, compatto, compiuto e il cui titolo richiama un film di Bergman del ‘61 – consente di visionare, oltre agli inserti fotografici impaginati come capitoli iconografici paralleli ai testi, ci si rende conto che l’universo della scena di Valeria Moriconi è stato legato dalla necessità di volgere al presente le forme della classicità del teatro per verificarne, ogni volta, la presenza viva, pulsante, la misura contemporanea e quindi destinata all’umano d’ogni “qui e ora” dell’epoca. La messe prodigiosa dei materiali, il ricomporsi, attraverso lei stessa, di un destino d’arte, stabilisce il ruolo che la Moriconi ha avuto nel cuore della cultura italiana di mezzo secolo, la sua tenace determinazione a cogliere in flagrante la realtà, ad interrogarsi sui labirinti degli uomini, grandezze, miserie, dubbi, paure, ansie, brividi, sintomi, cadute, resurrezioni. Cecchini ha disegnato un prezioso itinerario di pedinamenti secondo l’ordine cronologico, un’ “inchiesta” alla quale Valeria ha partecipato in prima persona, offrendo passaggi e corridoi sotto le spoglie degli “incontri” segnati da stazioni di sosta in cui gli occasionali interlocutori, interrogandola, hanno permesso a lei di rivelarsi nella sapienza e nell’ironia, nella finzione e nella verità.
Sibilla
“Ultimi sonni”, potrei intitolare questi miei sonni di dodici, quattordici ore la notte senza risveglio. Anche di giorno del resto terrei sempre gli occhi chiusi. Deriva dal mio enorme stato di debolezza, neppure il braccio ho più la forza di alzare. Fosse, fosse la fine!” E’ il 29 dicembre del 1959, Sibilla Aleramo ha ottantatré anni (Rina Faccio, il suo vero nome, era nata ad Alessandria nel 1876) e morirà il 13 gennaio del 1960 dopo le ultime parole, sul Diario (Feltrinelli), tracciate il giorno 2. Su quei battiti estremi si chiude l’esistenza di “una donna” (parafrasando il suo libro più importante del 1906), a Roma, nella clinica Villa Speranza, alla Pineta Sacchetti, dove era entrata il 19 dicembre, alle ore 19. Scende verso la soglia e scompaiono piano tutti gli anni fin lì, i nomi, il mondo attraversato, la storia; i libri, gli amori (Giovanni Cena, Cardarelli, Papini, Dino Campana, Quasimodo, fino all’ultimo, il poeta Franco Matacotta – nato a Fermo nel 1916 e spentosi a Nervi nel 1978 – quando lei aveva già sessant’anni e Franco venti), si annulla la puntuale cronologia che scandisce le età del tempo che l’hanno vista viva.
E’ molto vecchia, non somiglia più a Rina né a ciò che è stata fra i due secoli che l’hanno ospitata come inquilina inquieta, da quando lasciò Porto Civitanova dove si era trasferita con la famiglia nel 1881 (suo padre là dirigeva la filiale milanese di una vetreria). Collabora, in quegli anni, con articoli e cronache mondane, ad alcuni giornali regionali (“L’Ordine” di Ancona e “La sentinella” di Osimo). Nel 1892 subisce una violenza sessuale da un impiegato della fabbrica paterna, Ulderico Pierangeli, che sposerà nel gennaio del 1893; nel 1895 nascerà il figlio Walter, figura che occupa molte pagine del diario e che Sibilla visiterà spesso ad Ancona dove, medico, viveva. Solo nel ’33 lo rivedrà dopo aver abbandonato, sulla fine del febbraio 1902, la casa del marito. Ancona 5 novembre 1947: “Ritrovo mio figlio dopo una decina d’anni che non ci si rivedeva.”; in treno fra San Bendetto ed Ancona, 17 maggio 1949: “Non ero più passata dopo la guerra per questa linea. Civitanova è stata molto battuta nella zona presso la stazione, ove mio padre eresse, più di sessanta anni fa, la fabbrica di vetro ora distrutta […]”; Ancona, 21 settembre, mattino: ”Impressione profonda ieri percorrendo nella macchina di mio figlio il quartiere di rovine sulla collina a piè del Duomo. Ancona ha perduto il settanta per cento sotto i bombardamenti. […] Dinanzi al panorama del mare, in una luce raggiante tutti i poveri relitti ai miei piedi di case che furono di misera gente parevano una sinistra allucinazione.”; 1959, Ancona 29 maggio, mattino: ”Arrivata ieri sera alle sette, alla stazione c’era mio figlio con il suo dolce sorriso […]”.Quando avvia il Diario di una donna (1945, Roma, 21 gennaio, sera ) ha sessantanove anni e, dinanzi a lei, “lo spettro della perfetta indigenza”.
Tutto il suo sentiero è costellato di necessità da quando lasciò “[…] la casa maritale (senza portar via nulla!)” L’orologio di Sibilla batte il tempo dei giorni e lascia che quegli istanti cadano senza rimedio, irripetibili, come le ore di tutti. Il suo mondo l’ha preceduta pian piano e lei ha paura perché sente che si compie l’ora del distacco verso cui si approssima nell’umiltà severa di una dignità che illumina lo spazio bianco del silenzio e della pagina.
[Immagine: Sibilla Aleramo (mg)].
Francesco, che scrittore che sei! Grazie.
Grazie per aver evocato queste due straordinarie immagini femminili, due donne d’arte e d’amore, colte, intelligenti, illuminate e illuminanti.
Grazie per aver evocato letture e palcoscenici di un altro secolo.
Grazie per averlo fatto proprio in questi giorni in cui, per dar voce ai temi urgenti del quadro politico – economico del nostro Paese, si dimentica di dare voce alle donne