cropped-Belomorkanal.jpgdi Gian Piero Piretto

[Qualche mese fa è uscito un libro molto interessante: La vita privata degli oggetti sovietici. 25 storie da un altro mondo (Sironi, 2012), scritto da Gian Piero Piretto, che insegna Cultura russa e Metodologia della Cultura visuale all’Università degli studi di Milano. Come spiega il titolo, si parla di venticinque oggetti sovietici di uso comune che hanno abitato per decenni la vita materiale e quotidiana dei cittadini russi – la metro, per esempio, o le sigarette, la reticella per la spesa, il pesce essiccato accanto alla vodka, i barattoli coi cetrioli.

Il libro sta conquistando letture e consensi: se lo merita e cammina bene da solo. Tuttavia ho pensato che valesse la pena di riproporlo su LPLC – e ringrazio l’autore e la casa editrice. Si presenta qui la prima parte dell’introduzione, che può servire, oltre che a farsi un’idea dell’opera, a evitare il rischio di un fraintendimento. La vita privata degli oggetti sovietici, infatti, non è un testo destinato unicamente a slavisti ma, come dimostrano anche le pagine che riprendiamo, è un testo tanto bello quanto utile anche per un pubblico non specialista. Da un lato è un saggio di teoria delle cose: la biografia degli oggetti è una forma e una scelta di restituzione della vita a cui quegli oggetti appartengono e che producono; in tal senso, è molto interessante la ripresa della categoria lotmaniana di “byt”, anche per misurarne la distanza dalle teorie benjaminiane degli oggetti come produttori di eccitazioni, di seduzione auratica. Dall’altro lato, La vita privata degli oggetti è anche uno strumento importante per misurarsi più seriamente con la pratica dei Visual Studies: potrà essere utile, insomma, oltre che ai lettori di cose russe, anche a chi sta per scrivere una sceneggiatura, o una scena narrativa, o si occupi degli oggeti in poesia, o voglia guardare meglio un film; o, più semplicemente, desideri “navigare” tra le immagini con maggior consapevolezza (dbr)]

Gli oggetti russo-sovietici che saranno protagonisti di queste pagine non sono soltanto quelli che sull’onda dell’Ostalgie[1] o del rimpianto per l’impero socialista perduto hanno trovato oggi una nuova vita in mostre d’arte, cataloghi di design o volumi retrospettivi,[2] musei commemorativi o negozi di souvenir. Il loro inserimento in spazi culturali istituzionali, mostre, volumi, gallerie, aree commerciali ha defunzionalizzato molti di loro e li ha trasformati in pezzi da esibizione, non necessariamente caricandoli dello status di objet d’art, ma privandoli della loro aura primigenia e attribuendo loro responsabilità che, spesso, non sono in grado di affrontare o sopportare. Il filosofo russo-tedesco Boris Groys ci viene in aiuto per addentrarci in questo mondo:

Cercando arte moderna nei musei di oggi, si deve tenere in conto che ciò che si vedrà esibito come arte sono, soprattutto, frammenti di design defunzionalizzati. […] Arte è design che ha perso la sua funzione perché la società che forniva ragione alla sua esistenza ha subito un collasso storico, come l’impero Inca o la Russia sovietica. [3]

Il complesso problema della ri-auratizzazione di una cosa, opera d’arte o semplice oggetto che provenga da un’esperienza di quel genere, dall’orinatoio di Duchamp in poi ha caratterizzato i nostri tempi e, con particolare veemenza, coinvolge oggi operazioni che vanno dalle stimabili e importanti quanto delicate, salvaguardia della memoria, risemantizzazione, riterritorializzazione fino alle più basse forme di riproduzione e mistificazione commerciale.

Anche un’apparentemente innocua operazione di recupero mercantile o museale di oggetti, cibi, stili del passato socialista deve oggi essere presa in considerazione sul fronte del valore che l’investimento nostalgico di cui può essere investita acquisisce. Definiamo dunque con Svetlana Boym le due macro modalità di concezione della nostalgia politico-sociale:

La nostalgia restauratrice pone l’accento sul nostos e cerca di ricostruire la dimora perduta e colmare i vuoti di memoria. La nostalgia riflessiva è incentrata sull’algia, sul desiderio e sulla perdita, sul processo imperfetto del ricordo. La prima categoria […] caratterizza i revival nazionali e nazionalistici in tutto il mondo. […] La nostalgia restauratrice si manifesta nella ricostruzione totale di monumenti del passato, mentre la nostalgia riflessiva si sofferma sui ruderi, sulla patina del tempo e della storia, sui sogni di un altro luogo e di un altro tempo. [4]

Ciò a cui dedicherò la mia attenzione, alla luce di queste considerazioni, sono semplici e quotidiane cose la cui rilevanza è consistita non tanto nello stile o nella forma che le ha caratterizzate, quanto nella dinamicità del rapporto diretto con i fruitori. Al punto da trasformarle in complici o compagni di strada, talvolta nemici giurati, del cittadino sovietico nei diversi periodi dell’esperimento socialista.

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Boris Michajlov, Red Series, 1968-1975; Portabicchiere con effigie di Lenin

Alla percezione e alla fruizione esercitate da parte del portatore e del costruttore di quella cultura si aggiungeranno qui lo sguardo e l’esperienza in prima persona dello straniero scrivente che, nel corso di alcuni decenni, ha frequentato, vissuto, subito e amato il Paese in questione fino ad arrogarsi il diritto di intervenire nel merito di quali oggetti possano essere ritenuti responsabili e indicatori della costruzione del discorso culturale, della storia della quotidianità, della gestione delle emozioni. Il tutto, per dirla con Foucault, “tra formazioni discorsive e non-discorsive, fra saperi, non necessariamente codificati, e comportamenti sociali, più o meno istituzionalizzati sul piano politico, giuridico ed economico”.[5] Alle posizioni di chi ha, a tutto tondo e senza sconti, sperimentato i lati luminosi e quelli oscuri dell’esperimento sovietico accosterò la mia storia personale, fondata sullo studio di quella cultura ma anche sulla pratica di vita quotidiana e di condivisione delle esperienze. Con la distanza emotiva, intellettuale ed estetica che può caratterizzare uno straniero che vive la soglia più che l’intérieur di uno spazio culturale, con la partecipazione fatta di decenni di ritorni, soggiorni, presenze e contatti. Con quel tanto di ironia, acquisita anche sul campo per non soccombere e non indulgere in reazioni estreme alle provocazioni e alle lusinghe del paese dei Soviet. Con l’intenzione, modesta e consapevole dei propri limiti, di aggiungere qualche spunto alle micro-storie relative all’Unione Sovietica per contrastare la convenzionalità e i luoghi comuni della grande narrazione e garantire una pur minima attenzione a “sguardi e visualizzazioni non occidentali”.[6] Ancora, raccogliendo e facendo propria la posizione di Boris Groys rispetto allo studio dell’arte contemporanea, evitando l’approccio spettatoriale dell’estetica e privilegiando quello più sociologico della poetica.[7] Fermo restando che non saranno oggetti d’arte le cose di cui mi occuperò e che le dimensioni della quotidianità e della funzionalità resteranno dominanti su quelle della bellezza e della contemplazione, come il costruttivismo russo aveva auspicato nei lontani anni Venti.

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Papirosy Belomorkanal; M20 Pobeda

Per “cosa” intenderò quel manufatto che implica la presenza di un legame affettivo o relazionale tra prodotto e soggetto, mentre il termine “oggetto” sottintende tra le due parti in questione una dimensione di puro possesso. Scrive Remo Bodei nel suo recente trattato sulla vita delle cose:

Nasce il “quarto regno” degli oggetti e diventa possibile immaginarli “non più come strumenti protetici, prolungamento del corpo o della mente, ma come ‘altri’ da noi, come strumenti partner; essi assomigliano sempre più a organismi autonomi e il mondo degli oggetti assomiglia sempre più a un quarto regno, da affiancare al regno minerale, vegetale e animale”. Si tratta, per fortuna, di un quarto regno che non teme l’estinzione della specie e la conseguente diminuzione della biodiversità. [8]

Proprio dal concetto di oggetto che diventa soggetto, protagonista, e viene contemplato per se stesso e diventa cosa prendo le mosse per tracciare una sintetica storia del rapporto tra uomo e cosa nella storia della cultura materiale sovietica, prima di procedere con le “biografie” di un certo numero di cose.

La rivoluzione [d’ottobre] doveva operare un cambiamento fondamentale nelle interazioni più quotidiane con il mondo fisico degli oggetti: il passo verso il superamento del distacco tra Cose e gente che era caratteristico della società Borghese, il passo verso la conquista di un nuovo contatto attivo con le cose nella società sovietica, un’innovativa reificazione della gente e personificazione delle cose. Oggetti intesi come protagonisti nel rimodellamento del mondo. [9]

Così scrive Bill Brown riferendosi al testo chiave di Boris Arvatov del 1925, relativo all’importante problema della nuova cognizione dell’oggetto nella società sovietica, quando il potere bolscevico lottava contro il dilagare della Nuova Politica Economica (NEP), le cui istanze di recupero di modalità filistee e capitaliste inducevano in tentazione i giovani comunisti e mettevano a repentaglio i dettami di sobrietà, spartanità ed equilibrio che il costruttivismo proclamava. Una vera e proprio lotta contro l’imborghesimento di ritorno e il culto del possesso di oggetti superflui fu indetta a tappeto. La mai morta pošlost’ (volgarità banale e triviale compiaciuta di sé), [10] caratteristica della Russia ottocentesca zarista, tornava a dominare sul nuovo byt, le regole comportamentali e di mentalità che segnavano la quotidianità innovativa che il potere sovietico promuoveva sull’onda della rivoluzione. Secondo la definizione di Jurij Lotman,

byt è il consueto scorrere della vita nelle sue forme pratico-reali; byt sono le cose che ci circondano, le nostre abitudini e il nostro comportamento quotidiano. Il byt ci sta intorno come l’aria, e, come succede per l’aria, ci accorgiamo che esiste soltanto quando manca o è inquinato. [11]

A questa determinazione accosto quella più recente di Svetlana Boym che considera il byt come componente materiale dell’esistenza in opposizione filosofica al bytië, sfera dello spirito.[12] Concetto di particolare importanza per la nostra trattazione, visto che coinvolge l’ambito della cultura materiale che il potere sovietico intendeva dotare di una componente ideologica, se non spirituale in senso stretto.

Raccogliendo i dettami dell’avanguardia e traducendoli in discorso politico, oltre che artistico, la Russia sovietica lanciava segnali per un nuovo inizio, per la trasformazione del vecchio uomo in uomo nuovo. La rivista satirica “Krokodil” (Il coccodrillo), che settimanalmente con le sue copertine e i suoi articoli stigmatizzava comportamenti obsoleti e politicamente scorretti, dedicò più di un’illustrazione al problema. Quella che segue risale al 1930 e mette in scena un borghesuccio sovietico che, nonostante la NEP fosse stata messa fuori legge e il primo piano quinquennale già stesse procedendo, nella sua stanza ancora traboccante di kitsch e paccottiglia risponde al monito del partito proferendo: “Sbarazzarsi delle cose inutili? Ma se ho soltanto lo stretto necessario”!

Krokodil

Krokodil, 1930

Il personaggio in questione incarna l’atteggiamento che caratterizza l’atteggiamento esistenziale borghese: passività assoluta, mancanza di vitalità, energia, attività, nella relazione con gli oggetti e in assoluto. Il rapporto dei borghesi con le cose consisteva, al massimo, nell’ organizzazione, disposizione e contemplazione delle stesse in uno spazio dato. Come avrebbe sostenuto Baudrillard:

l’interno-tipo borghese è patriarcale: è l’insieme sala da pranzo e stanza da letto. I mobili, diversi per funzione, ma fortemente integrati, gravitano attorno al buffet o al letto centrale. Si rivela una tendenza all’ accumulazione, a occupare lo spazio, a chiuderlo. Funzionalità univoca, inamovibilità, presenza imponente e etichetta gerarchica.[13]

Ma, ricorda ancora Bodei, “perfino nei ceti sociali più umili, la pletora di mobili, batterie da cucina e suppellettili non è considerata come un semplice insieme di oggetti funzionali”.[14] E anche nella Russia post-rivoluzionaria, vinta non senza fatica la violenza iconoclasta, il gusto per la devastazione delle suppellettili del Palazzo d’inverno, resa con tanta efficacia da Ejzenštejn nel suo Ottobre, (i “forti suoni di vita di una creatura nuova” di cui parla Canetti),[15] fu necessario intervenire pesantemente per convincere i proletari della bontà del nuovo gusto e del nuovo stile.

Persino Majakovskij dovette scagliare i suoi roboanti versi contro l’atteggiamento passatista che molti sedicenti comunisti erano riluttanti ad abbandonare. E statuette, soprammobili, paralumi con frange e festoni erano entrati di conseguenza nel mirino del discorso politico. Addirittura il samovar, oggetto simbolo dalla Russia ottocentesca, come si vedrà dettagliatamente nel capitolo a esso dedicato, era finito fuori legge per l’idea di intimità domestica che incarnava da secoli e che continuava a suggerire.

Il samovar
Bolle con un fischio,
Il grammofono cigola una romanza,
Due
Compagni comunisti
Si sono seduti a
Una partita a Préference,
Picche e cuori,
Abiti e carte,
Il rituale
È rispettato in toto.
Da uno scaffale,
Per la buona sorte e la felicità
Tre
Elefantini di porcellana
Ci osservano.[16]

Quello che l’Unione Sovietica si sforzava di fare era “eliminare quella spaccatura tra Cose e persone che era caratteristica della società borghese”,[17] intervenendo sul processo di produzione (allora finalizzato all’esclusivo consumo individuale) che nel mondo del capitale non prevedeva alcun contatto fisico tra la borghesia e la produzione di beni materiali.

galosce
Gomma Trust Mosca. Le galosce con il marchio del triangolo, 1925

Vecchio retaggio del mondo della proprietà terriera in cui, tra padroni e “anime” (così venivano definiti i contadini nella Russia della servitù della gleba) era inesistente e in cui il latifondista spesso ignorava l’entità stessa della sua tenuta, la natura di coloro che vi lavoravano e le specificità di ciò che veniva coltivato, raccolto, prodotto. Il Giardino dei ciliegi di Čechov (1904) bene ritrae questa realtà: l’oggetto-giardino per la famiglia dei proprietari esiste esclusivamente in variante estetico-emotiva. La padrona, seppur indebitata fino al collo, trova “volgare” che si pensi di venderlo e lottizzare il territorio per costruirvi villette. Solo il vecchio cameriere di casa cita le ciliegie in chiave di produzione e reddito, ma come retaggio di un passato perduto e scordato: “Allora si conoscevano i trattamenti”. “E adesso che fine hanno fatto i trattamenti”? “Dimenticati. Nessuno se li ricorda”. [18]

Il ruolo dell’artista costruttivista nella produzione non avrebbe dovuto essere quello di un designer di oggetti di uso comune ma piuttosto quello di ingegnere della produzione stessa. Per il lavoratore della produzione, il processo di produzione stesso diventa lo scopo della sua attività. [19]

Princìpi che trovano applicazione anche nei molti manifesti che, tra propaganda politica e pubblicità commerciale, venivano realizzati anche con il contributo di artisti impegnati quali Majakovskij e Rodčenko per il Mossel’prom, l’agenzia commerciale sovietica nata per controbattere il dilagante commercio privato sorto grazie alle concessioni della Nuova Politica Economica (NEP). Uno fra i tanti, in cui architettura, produzione, beni di consumo e stile-grafica-linea dialogano con particolare efficacia.

Sullo skyline delle fabbriche in piena attività, come testimonia il fumo che esce dalle ciminiere, si staglia l’edificio costruttivista sede del Mossel’prom. In primo piano, in ordine volutamente sparso e caotico, le cose prodotte dallo stato sovietico, in immagini e parole: scatole, flaconi, pacchetti. Cacao, caffè, cioccolata, lamette, sigarette ecc. E l’immancabile slogan, ideato da Majakovskij, Nigde krome, kak v Mossel’prome (In nessun posto se non al Mossel’prom).


[1] Così è definita in Germania la nostalgia per l’Ost (Est), inteso come Repubblica Democratica Tedesca, e per le sue modalità esistenziali, il suo stile, la sua cultura, le sue specificità identitarie di paese socialista.

[2] Ulrich Ralf, Hedler Ernst, SED. Schönes Einheits Design, Taschen, 2008; DDR Design. East German Design. Design de la RDA 1949-1989, Taschen, Kőln-London-Madrid 2004; Velikonja Mitja, Titostalgia. A Study of Nostalgia for Josip Broz, Mediawatch, Ljubljana 2009; Idov Michael (a cura di), Made in Russia. Unsung Icons of Soviet Design, Rizzoli International, New York, Paris, London, Milan 2011; Zuseva V., Sovestkij stil’. Vremja i vešči, AST, 2012.

[3] Groys Boris, Going Public, Sternberg Press, Berlin 2010, p. 54. Le traduzioni dagli originali inglesi, francesi e russi sono mie.

[4] Boym Svetlana, Ipocondria del cuore: nostalgia, storia e memoria, in Boym, Lubonja et altera, Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo, Bruno Mondadori, Milano, 2003, pp. 1-88, qui p. 49.

[5] Foucault Michel, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 234.

[6] Elkins James, Visual Studies. A Skeptical Introduction, Routledge, London-New York 2003, p. 39.

[7] Groys Boris, Op. cit., p. 10.

[8] Cf. Bodei Remo, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 80..

[9] Brown Bill, Thing Theory, in “Critical Inquiry”, Vol. 28, No. 1, Things, (Autumn, 2001), pp 1-22, qui p. 10.

[10] Straordinaria è la definizione-lettura che offre Vladimir Nabokov nelle sue Lezioni di letteratura russa, Garzanti, Milano 1995. Al pubblico inglese propone la traslitterazione del termine russo come posh-lust (una sorta di libidine del triviale).

[11] Lotman Jurij, Vvedenie: byt i kul’tura, in Besedy o russkoj kul’ture. Byt i tradicii russkogo dvorianstva (XVIII – načalo XIX veka), Iskusstvo, Sankt-Peterburg 1994, pp. 5-16.1994, qui p. 10.

[12] Boym Svetlana, Common Places: Mythologies of Everyday Life in Russia, Harvard U.P., Cambridge, Massachusetts 1994, p. 83.

[13] Baudrillard Jean, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2007, p. 19.

[14] Bodei Remo, Op. cit., p. 73.

[15] Canetti Elias, Massa e potere, Rizzoli, Milano 1972, p. 16.

[16] Majakovskij Vladimir, Idillija, in Sočinenija v trech tomach, Chudožestvennaja literatura, Moskva, 1965, Vol II, pp. 338-340, qui p. 340..

[17] Arvatov Boris, Byt i kul’tura vešči (k postanovke voprosa), in Al’manach proletkul’ta, Moskva 1925: 75-82. Tr. Ingl. Everyday Life and the Culture of the Thing (Toward the Formulation of the Question), in “October 81”, Summer 1997: 119-28, qui p. 121..

[18] Čechov Anton, Il giardino dei ciliegi, in Teatro, Garzanti, Milano 1989, pp. 449-514, qui p. 461.

[19] Kiaer Christina, “Into Production!”: The Socialist Objects of Russian Constructivism, http://eipcp.net/transversal/0910/kiaer/en

[Immagine:  Papirosy Belomorkanal (dbr)].

 

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