di Pietro Bianchi
La storia dei tentativi di portare la psicoanalisi sul grande schermo sono innumerevoli. Il primo risale addirittura ai primissimi anni della scoperta freudiana. Siamo nel 1926 e Georg Wilhelm Pabst con la collaborazione di Karl Abraham e Hanns Sachs (Freud rifiuta di collaborare) gira I misteri di un’anima, un film che si pone esplicitamente il compito di rappresentare le teorie della nascente psicoanalisi. La storia si svolge come un caso clinico e narra le vicende della nevrosi del chimico viennese Martin Fellman e del suo incontro con il Dr. Orth che riesce facendogli ricordare i propri traumi passati a guarirlo. Rimozione, complesso di Edipo, castrazione, sogni: il film mescola tutti gli ingredienti che ci aspetteremo da una buona divulgazione della psicoanalisi. Tuttavia Freud si affrettò subito a disconoscere il lavoro del grande regista tedesco e in una lettera ad Abraham scrisse: “io non scorgo la possibilità di poter rappresentare le nostre astrazioni dal punto di vista grafico in modo rispettabile”. Aveva ragione? Quali sono le difficoltà di tradurre in immagini una disciplina così sfuggente e singolare come la psicoanalisi? È possibile vedere la psicoanalisi?
Che la faccenda sia particolarmente insidiosa lo dimostrano i molti e celebri registi che si sono cimentati nell’impresa… e gli scarsi risultati ottenuti. Il Freud di John Houston non è nulla più che un diligente biopic, la BBC tentò la strada dello sceneggiato su Freud negli anni Ottanta con pessimi risultati, persino un peso massimo del cinema (e apparentemente così “psicoanalitico”) come Hitchock quando incluse esplicitamente la psicoanalisi nei propri film fece tra le sue opere meno ispirate (Spellbound e Marnie). Ma ci furono anche il lacaniano Benoît Jacquot con il suo Princesse Marie, Faenza su Jung, recentemente A Dangerous Method di Cronenberg, le Confidences trop intimes di Leconte, i riferimenti di Moretti e Allen. Eppure pare sempre che qualcosa nel mettere in scena quell’esperienza già così straniante e teatrale che è lo studio di un analista rimanga sempre un po’ invisibile, anche sul grande schermo.
Sta qui uno dei tanti motivi di interesse di In Treatment, la serie televisiva in onda su Sky Cinema a partire da lunedì 1 aprile per le prossime sette settimane. Il format in realtà ha già qualche anno e viene da una fortunata serie israeliana che è stata poi comprata e portata al successo dal canale via cavo HBO, celebre produttore americano di televisione di qualità. HBO negli ultimi anni ha rivoluzionato il mondo della televisione mettendo in crisi il primato dei canali generalisti: forti di un pubblico di nicchia ma appassionato (che paga un canone mensile o che acquista le serie in DVD) hanno proposto produzioni sperimentali, audaci, a volte persino controcorrente, permettendosi di osare anche in termini formali là dove nemmeno il cinema indipendente oramai osa più. In Treatment ne è un esempio lampante. Si tratta di una serie tv pressoché unica: racconta le vicende di uno psicoanalista attraverso le sedute con i propri pazienti. Ogni puntata però racconta di un solo paziente, in modo che 5 diversi pazienti si alternino lungo i 5 giorni in cui ogni settimana viene trasmessa la serie. Così tutti i lunedì avremo le puntate sulle sedute di Sara, martedì quelle di Dario e così via, fino al venerdì in cui sarà l’analista stesso a calarsi nel ruolo di paziente per la seduta di controllo. L’impressione è dunque quella di partecipare alla routine dell’analista che ogni giorno accoglie in seduta i propri analizzanti all’orario prefissato. Ma l’aspetto senz’altro più interessante della serie è che non viene mai fatto vedere ciò che viene detto durante le sedute. In Treatment adotta un approccio minimalista: tutto ciò che viene mostrato è solamente ed esclusivamente lo studio dell’analista. Un paziente entra, stringe la mano all’analista, si siede, comincia a parlare. I gesti e le azioni sono ridotti al minimo e viene lasciato tempo e spazio alla vera protagonista della serie, che è la parola.
Il cinema ha un rapporto particolare con la parola, a partire già dall’invenzione del sonoro agli albori della sua storia. Non deve dire ma mostrare: far sì che un’idea non venga enunciata ma si incarni in una certa relazione tra corpi, elementi, immagini, e poi in un certa espressione del tempo. Persino i registi che non sembrano fare altro che riprendere un attore che legge un testo – come fanno Jean-Marie Straub e Danièle Huillet nei loro ultimi film – lo fanno perché sanno che tra la parola come traccia scritta di un testo e quella che si fa carne in un corpo la differenza è minima ma abissale. Tuttavia l’immagine e la parola molto spesso si mettono l’una contro l’altra: sono tanti quelli che hanno accusato il cinema di essersi sottomesso alla parola e di non aver fatto altro che illustrare le storie della tradizione del romanzo ottocentesco (Godard, Rancière, Epstein, Deleuze etc.). Oppure, come ha fatto spesso il cinema sperimentale si è tentato di espellere la parola dall’immagine per arrivare a una relazione diretta coi corpi. Tuttavia quando si ha a che fare con la psicoanalisi la questione è più complessa perché si tratta di una parola che è qualitativamente diversa.
L’ha sottolineato con grande precisione Massimo Recalcati nella bella recensione che ha dedicato a In Treatment su Repubblica (“Il potere del lettino, l’inconscio diventa show”, 5 aprile 2013): il grande assente della serie di Sky è il divano. Sergio Castellitto e i suoi pazienti si guardano negli occhi quando parlano. Ed è proprio questo che fa mancare completamente l’incontro con il vero protagonista della psicoanalisi: l’inconscio. Il “vis-a-vis empatico” non può che cancellare la spigolosità dell’esperienza freudiana. Ma perché guardarsi negli occhi nasconderebbe l’essenza della parola psicoanalitica?
Secondo Lacan il primo elemento di estraneità a noi stessi è il linguaggio. Parlare vuol dire emettere una serie di significanti il cui senso è enigmatico innanzitutto a colui stesso che parla. La presa che le parole possono avere sulla realtà è sempre scivolosa: troppe le imprecisioni, le arbitrarietà, le ambiguità. Ribaltando la prospettiva della semiotica che pensa che le parole siano meri strumenti in grado di esprimere un pensiero già costituito nella testa del mittente, la psicoanalisi pensa che è innanzitutto l’intenzione (o desiderio) di chi parla a essere opaca. Noi non parliamo per esprimere ciò che vogliamo; parliamo per provare a interrogare ciò che neanche noi sappiamo di noi stessi. Parliamo per provare a dire: che cosa voglio? Chi sono? Non è forse per quello che spesso ci affrettiamo a specificare meglio ciò che era nostra intenzione dire, usando sempre nuove parafrasi e espressioni, quasi come se si mancasse sempre l’incontro tra le parole e la nostra intenzione? Non è forse per questo motivo che rileggiamo in continuazione ciò che abbiamo appena scritto sulla pagina quasi a voler interrogare il nostro stesso pensiero come se fosse quello di un altro? Quasi a voler accusare le parole di dire sempre un po’ troppo o troppo poco? Come dice Lacan le parole non servono a rappresentare la realtà, ma scavano un buco nella realtà: dicono strutturalmente sempre un po’ troppo o troppo poco. Rileggere o riascoltare le proprie parole misura la scarto che c’è tra la nostra intenzione e il suo risultato; o, per meglio dire, tra noi e noi stessi. L’inconscio appunto.
È qui che si colloca la critica che Lacan muove alla comunicazione intersoggettiva. Parlare con qualcuno non vuol dire comunicare un contenuto oggettivo tramite il mezzo del linguaggio. Comunicare vuol dire chiudere quello spazio che le parole hanno aperto tra noi e noi stessi. Non funziona forse così? Una persona emette una serie di parole e l’altro annuisce e dice: “si, ho capito”. Oppure: “no, non sono d’accordo”. In ogni caso indipendentemente da ciò che le parole dicano c’è un senso che rimane immutato in tutte le forme di comunicazione, ed è: “sì, le parole che tu mi hai detto sono proprio quelle che volevi dirmi”, “sì il significato di queste parole è proprio questo”. O meglio ancora: “non avere dubbi, non porti domande, quello che volevi dire è proprio questo”. La comunicazione intersoggettiva non serve a parlare con qualcuno, serve a dire a noi stessi che “sì, siamo proprio quello che abbiamo detto”. Siamo il senso (che l’altro ci conferma) delle nostre parole.
La parola della psicoanalisi invece rompe con la comunicazione intersoggettiva. Ed è per questa ragione che in analisi non si sta seduti l’uno di fronte all’altro. Il paziente, o come voleva chiamarlo Lacan, l’analizzante, si sdraia sul divano così che non abbia nessuno di fronte a lui. E parla. Parla senza che nessuno gli dica: “sì, questo è proprio quello che lei mi voleva dire”. Senza che nessuno annuisca alle sue parole. In un certo senso, e contrariamente a un classico luogo comune, l’analista è colui che non ascolta. È colui che non ascoltando, o meglio, lasciando vuoto il posto del destinatario della comunicazione intersoggettiva, permette all’analizzante di ascoltare le proprie parole così come se fossero quelle di un estraneo. Così che uno si possa chiedere: “È proprio questo quello che volevo dire?” “Cosa volevo dire con queste parole che ho appena detto?”, “Qual è il mio desiderio?” etc.
La psicoanalisi è un’esperienza di sottrazione dalla sfera della comunicazione sociale, dall’empatia generalizzata, dalla comprensione reciproca. Si paga per poter non comunicare. E così per la prima volta ascoltare le proprie parole. Perché il posto del destinatario delle nostre parole – che è il perno fondamentale su cui si costituisce il narcisismo dell’identità – sia, per una volta tanto, vuoto. In Treatment, imperniato com’è sul dialogo tra analista e paziente nella più tipica dialettica cinematografica di campo-controcampo che fonda la continuità e il successo della comunicazione, non può che nascondere questa dimensione asimmetrica della psicoanalisi. La parola di In Treatment è quella che si incarna nel dialogo tra due persone, come tradizionalmente avviene al cinema. Non è quella che è sempre, per così dire, oltre l’incarnazione che ne dà un soggetto. Ma era possibile fare diversamente? Forse per poter far vedere al cinema la spigolosità dell’inconscio non bisogna cercare di rappresentare lo studio dell’analista, ma cercare da qualche altre parte come solo i più grandi registi in passato sono stati in grado di fare. In Treatment, rimane una serie televisiva splendida, girata da un ottimo regista e interpretata da attori eccellenti. Il fatto che si sia misurata con un problema così difficile ma anche ambizioso come la parola psicoanalitica ripaga ampiamente di limiti che forse non erano comunque alla sua portata di poter esser risolti.
[Immagine: Sergio Castellitto nella versione italiana di In Treatment]
Bell’articolo, molto stimolante. Mette una certa curiosità questa nuova serie. Altra fonte da citare, un film francese molto intelligente e purtroppo trascurato, che ha per protagonista uno psicanalista e una prostituta (Isabelle Huppert), titolo : Sans queue ni tête. Ma per me un grande film, serio, e nutrito di psicanalisi, è proprio di Woody Allen, Un’altra donna.
Il problema della rappresentazione del rapporto psicanalitico al cinema si avvicina alla questione del processo della scrittura sul grande schermo. Troppi biopic che privilegiano per gioco forza la vita dell’autore.
Ehi, e “The Sopranos”? Ce li dimentichiamo? Tony e la dottoressa, una saga…
Da più parti è stata giustamente mossa alla serie televisiva ‘In treatment’ la critica di non dare spazio all’inconscio, preferendo descrivere un trattamento terapeutico centrato sull’immediatezza dei comportamenti mostrati dai pazienti del dr Marr.
Duole dirlo, ma questo è un fotogramma abbastanza fedele della realtà di un analista. La pratica clinica di ogni giorno accoglie una sofferenza diffusa, un molteplice confuso e disorientato che travalica il censo, la provenienza, e altre appartenenze più o meno riconosciute.
Non mente il film quando mostra un reale sporco, disordinato, alcolista e tossicomane, che non poco confligge con una certa idea, purtroppo ancora in voga, della pratica clinica come balocco profumato o disciplina asettica e d’elitès. La gente di carne, che corrisponde in pieno ai pazienti che bussano alla porta del dr Mari, corrisponde sempre meno ai casi clinici esposti nei congressi altisonanti o discussi a più voci.
L’epoca del consumismo salutista ha riempito gli scaffali di rimedi farmaceutici pronto uso per affanni dell’anima da poco sfornati dagli scriba del DSM, capaci di catalogare e tramutare tante sfumature dell’animo umano in ‘patologie’. Anni ed anni di negazione della nostra interiorità hanno portato ad una generazione più incline alla pillola che non alla introspezione.
‘Dicono che sono brava ad insegnare, vorrei che lei mi dicesse di cosa soffro, e cosa secondo lei posso fare’ dice la giovane ragazza anoressica che sta ‘un po male’, e bussa alla mia porta perchè ‘bisogna curarsi’. Senza una identità definita, non del tutto inseriti nel legame sociale, non completamente dentro alla famiglia, non convinti. Un po’ sofferenti, un po’ gaudenti nel loro soffrire. Un poco boh. In cerca perenne di identità, di accettazione, di una collocazione difficile in quanto privi di un Altro alle spalle che abbia loro fornito una solida base. Questi sono gli italiani del contemporaneo. Il lavoro analitico è difficile, oggi, nella misura in cui la sogettivazione paga il prezzo a miriadi di identificazioni, sovente sintomatiche, delle quali si è perso il conto.
Per contro, il signore che sta realmente male, si presenta con la carta patinata dello studio professionale, che lo definisce affetto da ‘ depressione di terzo grado legata ad evento stressante’, formula che lo inquieta e sovrasta il suo dire.
‘Ho qualcosa? Ma cosa ho?’ parole che diventano un’ infinita interpellanza in cerca di una diagnosi che li plachi. Etichetta che facilmente trovano anche presso gli studi degli analisti.
La psicoanalisi deve essere attuale, ma demodè: cioè perseguire una pratica della singolarità e rinunciare a categorie onnicomprensive che nascondono il soggetto e schiacciano l’inconscio e le sue produzioni.
Molti psicoanalisti, per contro, hanno tramutato l’analisi in una religione pe r pochi adepti, sostituendo ai pazienti del dr Mari tomi di infinite disquisizioni teoriche, sempre più fini, sempre più ‘eleganti’. Edificando luoghi dai quali si può uscire convinti che le psicosi o le depressioni siano raffinate costruzioni, appannaggio di grandi musicisti scrittori, o poeti. Certi che un qualsiasi Herr Schreber aprirà il libro dei suoi deliri accompagnandoci in un percorso di verifica delle nostre teorie. Seccati se questo non avviene.
Il dottor Marri dunque apre la porta a richieste svogliate, scoraggiate e poco inclini ad ogni accenno di approfondimento, poiché vedono l’analista come il tedioso padre che, ad ogni costo, vuole condurli alla radice dei loro comportamenti, superato da centinaia di rimedi farmacologici acquistabili ovunque. Bene fa ad essere informale senza essere narciso, presente ma non presenzialista. Per questo motivo , e il film lo mostra bene, il transfert appare debole, cercando la prima paziente di mettere subito l’analista al suo pari, come uomo sul quale alimentare fantasie erotiche, stupita della sua non reazione.
L’impassibilità e il silenzio del buon analista, sono considerate oggi una anomalia retrograda, in un mondo liquido, spettacolarizzato, nel quale chi non accetta l’ingaggio o non nutre il suo narcisismo nei luoghi dello spettacolo, appare fuori tempo. Ma non dice , questa serie televisiva, della capacità dell’analista di saper sgombrare il tavolo da tutti questi preliminari, e aspettare l’inconscio manifestarsi sottoforma di sogno o lapsus.
‘Faccio l’analista perché so aspettare’, scriveva J. Lacan. Una massima fuori moda, oggi che i pazienti paiono avere fretta di guarire, come molti analisti di arrivare ad avere dati da pubblicare.
Maurizio Montanari
Psicoterapeuta
Credo vi sia un equivoco fondamentale: scambiare il divano, strumento che Freud spiegò di aver introdotto perchè non sopportava di essere guardato molte ore al giorno, con l’inconscio. Questo crea una confusione fra uno strumento, non indispensabile, ed un concetto fondamentale della psicoanalisi. E’ vero che “In treatment” tralascia l’inconscio in quanto sono sostanzialmente assenti le formazioni dell’inconscio in questi casi. Tuttavia sono anche altri gli elementi poco favorevoli all’interrogazione sull’inconscio: la seduta giornaliera fa presumere che un’analisi si svolga ad una seduta settimanale, il darsi del tu riduce la disparità su cui si fonda il transfert, le tmatiche sono molto attinenti la cronaca della quotidianità, ecc.Certamente il vis-à-vis è del tutto compatibile con il manifestarsi dell’inconscio: chi ha una pratica clinica sa benissimo che molte persone, in un setting faccia a faccia, portano sogni, fanno lapsus, descrivono voci che riconoscono come proprie, associano circa le proprie dimenticanze ed i propri atti mancati che ne fanno discorsi riusciti.
La serie ha l’indubbio merito di riprendere alcune questioni che da sempre interessano il funzionamento della psicoanalisi e le azioni degli psicoanalisiti. Mi riferisco al dialogo tra Castellitto e il suo supervisore. La supervisione , on controllo come lo si voglia chiamare, serve appunto a impedire che un vissuto personale tracimi nell’analisi, inficiandola. Questo rimanda ad una questione assai attuale, che percò non credo il film svilupperà. Perchp la psicoanalisi è sempre più sotot attacco?
Non passa giorno che voce non si unisca al coro di attacchi alla disciplina di Freud e ai suoi attuali nipoti. Non tanto all’analisi tout court, quanto alla cattiva psicoanalisi, per molti due cose sovrapponibili. Oltre al j’accuse di M. Onfray ‘Crepuscolo di un ‘idolo’, ci sono i pamphlet dell’intellighenzia europea ed italiana: il feroce e sbilanciato ‘Libro nero della Psicoanalisi’, ‘Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi’, il godibile ‘Alice nel paese degli analisti’, per finire con l’ottimo ‘Al di là delle intenzioni’ di Luigi Zoja.
Ma se ben guardiamo la blog sfera ( a tutti gli effetti il fronte delle voci più libere) la schiera dei detrattori e critici non è più solo formata da trinariciuti orgnicisti che negano tout court la validità dell’introspezione e non riconoscono lo statuto dell’inconscio, ma annovera tanti pazienti, o analizzanti, i quali possono solo accodarsi nelle innumerevoli discussioni sui forum per lagnare l’inefficacia del trattamento analitico, o denunciare errori pagati a caro prezzo. E non solo economico. Gli aspetti da esaminare non sono solo quelli relativi alla ‘efficacia’ dell’analisi, elemento di per sé già difficile da valutare (e oggetto di innumerevoli dibattiti scientifici), ma anche le possibili controindicazioni che possono derivare da un’analisi inefficace. Non tutti sanno preventivamente che un’analisi sbagliata può causare seri danni, e che in caso di un rapporto deleterio, non esistono istanze alle quali fare riferimento. Chi va su un lettino oggi, non ha precise garanzie di terzietà, di protezione da errori.
Ecco il vulnus principale dell’instrumentum analitico. In campo medico, se un’operazione va male, il malato può rivolgersi all’azienda sanitaria, al tribunale dei diritti del malato, o altro ancora. Nel campo della psicoanalisi, se una cura si inceppa o deraglia, purtroppo, non esiste luogo nel quale portare le proprie rimostranze. L’unica speranza è che l’analista abbia a fondo scavato nelle sue zone opache, quelle che conducono a errori come cerca di fare Castellitto, , e se ne assuma la responsabilità tenendo quel posto senza fuggire. Il miglior modo per difendere la psicoanalisi è dunque renderla trasparente esaltando in tal modo la sua eccellenza, che fortunatamente continua ad esistere nonostante gli errori. Bne vegano dunque i film nei quali l’analista si mostra in difficoltà ma solido sulla sua posizione . Un analista che sbaglia diagnosi, magari distratto da altre cose, o semplicemente con un lavoro su se stesso stagnante, espone il paziente a rischi talora altissimi. Il ‘controtransfert’ è quella risposta relazionale ed emotiva dell’analista verso il paziente, utile nel processo analitico fino a quando non diventa una pioggia di detriti che provengono dall’analista, il quale senza controlli, può scaricarli sul malcapitato paziente. Il paziente che, come insegna l’analista francese J.A Miller, è sempre ‘innocente’ quando entra nello studio con lettino. Chi non ricorda l’analista Moretti de ‘La stanza del figlio’, irritato perché il paziente Orlando con un ritardo ha fatto sì che lui non fosse vicino al figlio nel momento della disgrazia? Ecco, quella scarica di rabbia che gli riversa addosso in seduta, è un controtransfert incontrollato. Lacan tratta la questione del controtransfert : (..)Come è scritto da qualche parte, se si trascurasse quell’angolo dell’inconscio dell’analista, ne risulterebbero delle vere e proprie zone cieche, da cui conseguirebbero evetualmente nella pratica fatti più o meno gravi e incresciosi: misconoscimento, intervento mancato o inopportuno, o persino errore’. Cosa garantisce al paziente ch , accortosi di questo, l’analista immediatamente lasci quel posto e non arrechi danni? Nessuno. Quello che, specie oggi, è necessario ribadire, è cha la psicoanalsi è essenzialmente e primariamente il luogo della rettifica della propria esistenza, delle’ minchiate del vissuto’ e della ‘storia personale del soggetto’. Qualsiasi altra cosa entri nella stanza del lettino, falsa il percorso e lo fa deragliare su binari del maestro-discepolo, via che conduce direttamente ad una condizione diadica fasulla che può avere effetti collaterali devastanti per l’analizzante. Il movimento psicoanalitico garantisce terzietà? Per esserlo, è necessario che chi apre le porte alla gentilezza sia, in questo caso, gentile, parafrasando al contrario la lezione di Brecht. E’ fondamentale che lo psicoanalista sia, al netto della conduzione della cura, inserito in una rete, più ampia, che possa osservare ed eventualmente correggere eventuali errori. Sia insomma ‘giudicabile’. Come evitare, come riporta tempo fa Paracchini in un articolo del Corsera, che: ‘un ego fuori ordinanza, un eloquio coinvolgente che fa breccia nel pubblico femminile’ non siano nocivi per i pazienti, oppure non portino a creare ‘adepti che sembrano una setta’?. Si dirà: questo problema vale per tutte le discipline del mondo psy. Vero, parzialmente. Non va dimenticato che l’analisi è un luogo particolare, una sorta di ‘no mans land’ nella città, uno spazio vuoto, una zona franca addobbata con gli affreschi della propria esistenza, che noi diamo in custodia all’analista. Si può paragonare il setting analitico ad un’officina nella quale, grazie ad un buon avvitatore, tutte le viti della macchina vengono allentate. Svitate quel tanto che basta perchè il guscio mostri la sua mobilità, e si possa giungere all’anima del motore. Una destrutturazione guidata. E’ la terra di un uomo che piange e rimemora il passato, un uomo che sogna e in quel luogo sa di poter proiettare le diapositive più intime perchè garantito dalla sicurezza. Ecco perchè gli errori possono avere effetti cosi’ gravi. Quando le viti sono allentate, i colpi accidentali vanno più in profondità, si riverberano sull’intera struttura. Le scuole psicoanalitiche hanno sviluppato gli anticorpi per saper contenere e correggere questi svarioni? Il mondo scentifico chiede alla psicoanalisi alcune cose che la disciplina di Freud e Lacan non può dare : verificabilità, standardizzazione dei dati,
questo perchè la psicoanalisi è essenzialmente ‘uno per uno’. Ma garanzie verso il paziente quelle si. Oggi quelle devono essere fornite. “L’analista, dico, da qualche parte, deve pagare qualcosa per reggere la sua funzione. Paga in parola, paga con la sua persona. Infine bisogna che paghi con un giudizio sulla sua azione’ E’ il minimo che si possa esigere” . E’ rispettata questa massima di Lacan?
@ Montanari. Lo sport del tiro alla psicanalisi è diffuso perché l’inconscio non esiste. Nessuno può trovarlo e ridurlo a dato. Dunque chi ne parla è un venditore di fumo. Così per tante altre cose.
L’indagine o l’autoindagine sulla propria interiorità è una dimensione umanistica o spirituale di cui la psicanalisi è stata in fondo una estrema incarnazione. Infatti piace di più a chi insegna letteratura come me che a altri suoi colleghi di orientamento e scuola diversi dai suoi.
(Questa polemica contro lo scientismo è trita e mi vergogno sempre un po’ quando la faccio. La scienza è una roba seria e mi sembra di ridurre gli scienziati a macchiette. Poi tocca sempre constatare che le macchiette purtroppo esistono. Guai però a dirglielo. Si passa sempre per umanisti lamentosi e fantasticatori di mondi incantati. Io spero sempre però che siano meno delle persone sensate).
Io penso che la psicanalisi sia un bersaglio anche perché è stata un po’ troppo enfatizzata e, chissà, magari la colpa è anche vostra. Siete diventati dei sacerdoti (e vi ha fatto piacere) e quando hanno scoperto che quello che potete fare è solo aiutare gli uomini nella disamina di se stessi hanno gridato alla presa per i fondelli.
La fuga dalla propria interiorità verso drastiche soluzioni sintetiche è un tratto desolante della contemporaneità e mette in crisi non solo la psicanalisi, ma anche la letteratura (e, per quel che interessa a me da vicino, il suo insegnamento).
Però è anche vero che il privilegio di scandagliarsi, fino a pochi decenni fa, era prerogativa o vezzo o privilegio di pochi. Dubito che i miei nonni contadini avessero il tempo per farlo. Oggi invece abbiamo tutti più tempo per noi stessi, ma molti non sono in grado di reggere questa libertà di vagare nei propri meandri.
Lei dice giustamente che quando si maneggiano cose delicate come la psiche di qualcuno bisognerebbe riconoscere le proprie responsabilità e in qualche misura pagare per esse. Cita il caso dei medici del corpo contro cui si può fare ricorso.
Ha ragione, però, guardi, qui a me pare che siamo di fronte a un paradosso atroce della nostra modernità. Finalmente esiste una giurisprudenza che ci garantisce da abusi arbitrari, ma poiché la giurisprudenza ha bisogno di prove inconfutabili, e solo i dati materiali lo sono (non le intenzioni, non i sospetti tanto fondati da essere praticamente certezze: un po’ come nei vecchi gialli, dove il detective geniale ammette di non avere le prove, ma di sapere per certo chi sia l’assassino; e intanto il poliziotto istituzionale lì vicino lo guarda scettico e tonto), la soglia che conduce con tutti e due i piedi nel terreno del formalismo ottuso è labilissima. Se anche voi psicanalisti verrete sottoposti a qualcosa del genere vi ritroverete sommersi da ricorsi su vizi di forma, giacché solo quelli possono essere vinti. Nella scuola è così già da tempo: basta dimenticare una firma in un atto del consiglio di classe e il somaro diventa per legge un genio ingiustamente maltrattato.
Credo che anche la storia della condanna dei sismologi per il terremoto dell’Aquila giri intorno a queste faccende: è evidente che se c’è stato insabbiamento per ragioni politiche una cosa del genere va perseguita; ma se passa la logica che i sismologi sono colpevoli perché avrebbero dovuto prevedere il sisma, giustamente avranno diffidenza a fare alcunché in futuro. E i medici a operare. E gli insegnanti a bocciare.
Sempre di quello si tratta: bieco positivismo, incapacità di ammettere l’incertezza e l’angoscia dell’incertezza.
Gentile Bianchi, il suo testo mi suscita molte puntualizzazioni. Ora mi manca il tempo di trattarle. Mi limito alla prima e molto semplice: come può la Domanda costituirsi nel registro dell’immaginario ?
La Domanda è scritta da Lacan con la D maiuscola, a differenza del desiderio scritto con la d minuscola. Tutto ciò che è scritto con la Maiuscola è simbolico in Lacan !
@Roberto Pozzetti (ma anche Maurizio Montanari)
Naturalmente il divano non è la *prova* del palesarsi dell’inconscio. E le due cose – va da sé – sono da distinguere. La preoccupazione di spiegare in modo chiaro mi ha forse fatto affrettare l’analogia. Il divano (o meglio, il fatto di togliere la presenza dell’analista dal campo visivo per aiutare il processo dell’associazione libera, perché di questo si tratta), come lei dice, è senz’altro uno strumento. Storicamente però la psicoanalisi ha fatto ricorso ampiamente a questa possibilità e per delle ragioni molto precise. Nella recensione tentavo di spiegare come la parola psicanalitica si distingua dalla comunicazione intersoggettiva per un elemento: il ruolo dell’interlocutore (in lacanese, l’a piccolo) è lasciato vuoto. Mentre i significanti che vengono emessi da una persona in una conversazione quotidiana si depositano subito nello spazio dell’interlocutore – che si precipita a rassicurare l’emittente dell’avvenuta ricezione del messaggio e dunque dell’identificazione dell’individuo con essi – nel dialogo psicoanalitico questo non avviene. L’analista deve far sì che quel posto sia vuoto nonostante tutti gli sforzi dell’analizzante per metterci qualcuno o qualcosa, e che dunque l’analizzante abbia lo spazio per interrogare i propri significanti come se improvvisamente si fossero separati dalla loro significazione spontanea. L’ipotesi di Freud è che in quell’apparente casualità della scelta significante si depositi una verità soggettiva che l’individuo non sarebbe altrimenti portato a interrogare, nemmeno al culmine della sofferenza. Il sintomo è la porta da cui si entra, ma la psicoanalisi non offre la cura, se intendiamo come cura la soppressione del sintomo. La psicoanalisi ha una radice etica. Offre semplicemente un dispositivo per quest’interrogazione. Questo è il problema strutturale. Come questo problema si traduca in una pratica analitica particolare è questione aperta; che dipende dallo *stile* del singolo analista, oltre che dalla contingenza storica (la psicoanalisi è una pratica storicamente determinata, che cambia col tempo).
Quello che a me pareva interessante di “In treatment” è che la struttura fondamentale della serie, come ha rilevato anche Recalcati nella sua recensione, si basi su un dialogo tra Io. Non perché la serie sia mal fatta (tutt’altro!) ma perché rappresentare l’asimmetria transferale, il non-dialogo del lettino, l’associazione libera interrogante di un soggetto è enormemente difficile. Soprattutto al cinema dove si tende inevitabilmente a portare il regime della rappresentazione nella consistenza dell’immaginario. Ha dunque ragione Maurizio Montanari nel suo commento a sottolineare come la serie più che parlare dell’inconscio parli dell’esperienza della psicoanalisi. Così come la vedremmo se mettessimo una macchina da presa in uno studio di un terapeuta. E nel fare questo è una serie enormemente efficace. Per tentare viceversa di trovare l’inconscio nel campo visivo è necessario prendere un’altra strada – che Lacan sviluppa nella sua teoria dell’oggetto sguardo – quando vede che il visivo stesso è attraversato da una frattura che lo rende a suo volta irriducibile all’immaginario. Molti registi nonché teorici del cinema hanno lavorato in questa direzione. Ma qui prenderemmo un’altra strada che non è il caso in questa sede di affrontare.
@Daniele Lo Vetere
Se la psicoanalisi fosse davvero solo una versione (tardo o iper)umanistica della disamina di se stessi, ancor più aggravata dal fatto di focalizzarsi su un oggetto – l’inconscio – che non esiste (ma esistono solo gli oggetti che si vedono?), beh allora nessuno avrebbe davvero il coraggio di definirsi psicoanalista. Probabilmente non lo avrebbe Freud. Senz’altro non lo farebbe Lacan.
Il dialogo tra scienza e psicoanalisi è stato fatto poco e male, per colpe che andrebbero equamente distribuite da ambo le parti. E’ diventato particolarmente degradante negli ultimi anni dove la declinazione di scienza è ridotta all’empirismo ingenuo degli psicologi cognitivo-comportamentali (purtroppo è quello che credono molti analisti lacaniani che infatti usano l’espressione “scientismo” quasi a poter vantare la loro ignoranza riguardo alla scienza quella vera). Lacan, i cui allievi oggi sono purtroppo per lo più umanisti, ci tentò seriamente alla fine degli anni Sessanta con i Cahiers pour l’analyse, un’esperienza per certi versi irripetibile di dialogo tra psicoanalisi e scienze formali (matematica e logica). Vengono fuori da quella generazione tra i migliori allievi di Lacan, da Badiou a Jacques-Alain Miller, da Jean-Claude Milner a Francois Regnault. Quando si parla di scienza e psicoanalisi prima ancora che muovere accuse alla psicoanalisi che sono vecchie di più di un secolo e per lo più infarcite di luoghi comuni (elitaria, inutile, aristocratica, velleitaria etc.) bisognerebbe capire di quale scienza si sta parlando. Perché non esistono solo le scienze empiriche e cognitive, che tuttavia gli psicoanalisti farebbero bene a studiare senza pregiudizi, ma ci sono anche le scienze formali che con la psicoanalisi hanno un rapporto ben più stretto di quello che sembrerebbe a prima vista. Non è un caso che Lacan passò molti dei suoi ultimi anni a pensare al problema della formalizzazione: che non è altro che un modo per provare a fare della psicoanalisi non soltanto una cura incarnata nella propria espressione di godimento immanente, ma anche una pratica di pensiero universale. E’ la strada che ha intrapreso – tra gli altri – Badiou e che se ascoltato anche da qualche analista potrebbe forse portare una bella ventata di aria fresca nel lacanismo.
@ Roberto Pozzetti
temo che lei stia facendo un po’ di confusione. Lei risponde ad un commento che io ho postato sulla mia pagina facebook (che a questo punto, per chiarezza, includo qui sotto). Non avevo incluso nella discussione generale quel commento proprio perché mi pareva un po’ tecnico e di scarso interesse per la riflessione sulla rappresentazione visiva della parola psicoanalitica in “In Treatment” a cui questo testo era dedicato. La sua precisazione, di cui per altro mi sfugge l’importanza nell’economia di questa discussione, mi pare tuttavia un po’ strana: lei pensa che il registro dell’immaginario e del simbolico possano essere divisi così radicalmente l’uno dall’altro? Una domanda, articolata in una sequenza di significanti, pensa possa essere totalmente al di fuori dell’economia del riconoscimento intersoggettivo e della comunicazione tra individui?
—————————-
Io non credo che l’immaginario e il significante vadano nettamente distinti. Tutt’altro. Il problema è che ogni articolazione di una domanda si costituisce sempre *nel* registro dell’immaginario (dato che si parla e si vuole dire qualcosa a qualcuno). Il problema è come attuare un processo di de-immaginarizzazione che parta dal carattere apparentemente casuale delle scelta significante per andare a coglierne là l’articolazione del proprio desiderio soggettivo, al di là della significazione (non era una scoperta di Lacan questa, la si trova in Althusser oltre che Deleuze per esempio). Per fare questo si deve mettere in atto una *tecnica*: ovvero quell’assurdità di un altro che si situa non al livello dell’ascolto del significato, ma al livello dell’articolazione significante; così che il soggetto verrà restituito non alla certezza della propria identificazione con l’altro piccolo, ma al carattere contingente della ripetizione della catena significante. Questo è il problema strutturale che riguarda la *tecnica* analitica. Ed è il livello che qui a me interessava (non sono un clinico). Come poi questa cosa venga tradotta in una *pratica* ben precisa (che è cosa diversa dalla tecnica), è naturalmente un problema che riguarda la comunità di chi la clinica la fa. Che il processo di de-immaginarizzazione del significante (di staccamento dalla sua significazione immaginaria) venga operato tramite il silenzio dell’analista, il rigetto dell’interpretazione o il divano è cosa che naturalmente attiene alle particolari scelte cliniche, che come lei sa meglio di me cambiano anche molto da analista ad analista (molti non sono d’accordo con quello che lei dice del divano). Ma forse ancora di più dal contesto storico. La psicoanalisi d’altra parte è storicamente determinata. Il fatto di aver scelto di rappresentare in una serie come “in treatment” l’esperienza dell’analisi partendo da un dialogo campo-controcampo e da una comprensione inter-soggettiva e di non aver contemplato la possibilità del (non)dialogo del divano (che sarebbe stato ben meno cinematografico) pone una domanda: come sarebbe possibile rappresentare la de-immaginarizzazione della parola analitica? L’importanza della questione del divano che ha colto Recalcati nella sua recensione penso partisse da qui.
@ Bianchi. Forse dovevo esplicitare che il primo capoverso del mio intervento era ironico e antifrastico.
Io volevo proprio dire che esistono ANCHE le cose che non si vedono. Mi dispiace dell’equivoco.
Quindi, capirà che non ci vedo nulla di male nell’annoverare la psicanalisi tra le discipline che contribuiscono alla disamina di sé, anzi!
Anche la faccenda del “vezzo aristocratico” spero che acquisti un altro significato alla luce della mia precisazione.
@Daniele Lo Vetere
Avevo evidentemente frainteso il tono dell’inizio del suo intervento. Mi scuso per il malinteso.
“La storia dei tentativi di portare la psicoanalisi sul grande schermo sono innumerevoli.”
Certo, come no…
@pietro bianchi
“Nella recensione tentavo di spiegare come la parola psicanalitica si distingua dalla comunicazione intersoggettiva per un elemento: il ruolo dell’interlocutore (in lacanese, l’a piccolo) è lasciato vuoto. Mentre i significanti che vengono emessi da una persona in una conversazione quotidiana si depositano subito nello spazio dell’interlocutore – che si precipita a rassicurare l’emittente dell’avvenuta ricezione del messaggio e dunque dell’identificazione dell’individuo con essi – nel dialogo psicoanalitico questo non avviene. L’analista deve far sì che quel posto sia vuoto nonostante tutti gli sforzi dell’analizzante per metterci qualcuno o qualcosa, e che dunque l’analizzante abbia lo spazio per interrogare i propri significanti come se improvvisamente si fossero separati dalla loro significazione spontanea.”
Mi sembra una visione molto parziale (in direzione lacaniana) e storicamente superata della pratica psicoanalitica. La dimensione dell’intersoggettività è centrale, tanto per fare un esempio, nel pensiero di Ferenczi, la cui influenza sulla pratica psicoanalitica quale è concepita oggi è molto forte, molto più forte di quella di Lacan. Per non parlare di Winnicott e di tutta la riflessione tardonovecentesca sul fenomeno del controtransfert. Se non altro nella sua versione americana, la serie In treatement va chiaramente inserita in questo contesto (non a caso comincia e finisce con un episodio di amore di controtransfert).
Un pò fuori tema , ma non troppo. Il divano aiuta l’inconscio a produrSi?
Non sempre, vero è che il vis a visa a volte iretisce . La mia prima analisi fu , posos dirlo col senno di poi, inutile e un poco dannosa. Non vidi mai il divano, ero costretto ad un visa a vis che irretiva ogni spunto, Una normalizzazzione della produzione, condotta su binari altri. Nella seconda e vera analisi, trovai subito il divano negato. Li l’inconscio inziò le sue produzioni, e le cose presero il loro posto.
@pietro bianchi
Puntualizzo: ha ovviamente ragione a proposito della distinzione fra parola piscoanalitica e comunicazione ordinaria, e una lettura di In treatment basata su questa distinzione è in effetti molto interessante, ma credo dovrebbe essere integrata con altri apporti della teoria e della prassi psicoanalitica, chiaramente ben presenti nella mente degli sceneggiatori.
Ovviamente non esiste solo l’epistemologia lacaniana. La spigolosità dell’inconscio può uscire fuori anche con altri orientamenti, credo. Il dibattito poltrona/lettino é attivo dalla scissione jung/freud. A me é invece sinceramente sembrato che l’irruzione di contenuti inconsci sia avvenuta in molti momenti della serie, con lapsus, atti mancati, agiti, etc. Ricordo che psicoanalisi non è solo Lacan, ma anche Kohut, Winnicot, Bowlby, Bion, Jung etc etc etc etc etc