di Pippo Ciorra
Non molti se lo ricordano ma alla Biennale di Architettura di Venezia del 1996 c’era un primo tentativo di “padiglione italiano”, affidato a Marino Folin, allora rettore dello IUAV di Venezia. Non era né un edificio né uno spazio autonomo ma un’intrusione forzosa nella geometria labirintica di quello che oggi si chiama Padiglione Centrale, ai Giardini. Constava di due parti: uno spazio vicino all’ingresso dedicato a un progetto di ricognizione del paesaggio/paese curata da Stefano Boeri e realizzata attraverso le fotografie on the road di Gabriele Basilico, e una lunga e affollata e sequenza di “frammenti architettonici” in scala 1:1 realizzata dai giovani studi emergenti a cura dello stesso Folin.
L’approccio alle due parti della mostra non poteva essere più diseguale. L’accesso alle Sezioni del paesaggio italiano era chiaro e immediato, guidato da una carta geografica nazionale a scala XXL e da una disposizione semplice delle fotografie in bianco e nero di Basilico. La sequenza delle installazioni dei progettisti, memoria vaga e un po’ compressa della Strada Novissima dell’80, era invece difficile da trovare nell’orribile pianta del padiglione, ci si muoveva a stento, e questo costringeva a fatiche notevoli per distinguere il lavoro di uno da quello dell’altro. Il confronto appariva impari, la distanza tra l’occhio rivolto al mondo del fotografo e quello rivolto a se stessi degli architetti era già evidente.
Le Sezioni documentavano un paese ugualmente irrisolto al nord al centro e al sud, fatto di caos edilizio, abusi, incompiute e miserie urbanistiche, spazialmente anarchico nelle aree legali come in quelle illegali, scomposto al punto da avvicinarsi al sublime, almeno attraverso l’occhio magico dell’architetto/fotografo Basilico. I progetti davano invece l’idea di una generazione già a rischio di sconfitta, poco attenta a quello che succedeva fuori dagli studi e lontano dai centri urbani e dalle aule universitarie, fiduciosa che un buon mestiere e un dettaglio ben fatto potessero salvare l’Italia dalla bruttezza e gli architetti dall’isolamento. Da quel momento in poi fu chiaro a tutti come all’interno della cultura spaziale italiana la fotografia stesse assumendo un ruolo cruciale: i fotografi – Basilico in primis, ma anche Ghirri, Barbieri e poi molti altri – stavano infatti rivelando a tutti l’esistenza di un altro paesaggio. Un paesaggio che architetti e urbanisti si ostinavano a non vedere, ma che costituisce il 95% del nostro spazio abitato e che ha grande impatto anche su quello non abitato. Un paesaggio informale e ordinario, fatto di periferie depresse, aree industriali disabitate per 16 ore al giorno, “piccoli” centri commerciali e immense superfici (asfaltate) di parcheggi, ferrovie che sfiorano case e spiagge, strade che arrivano ovunque, magari per poi interrompersi davanti a una casa che resiste alla demolizione. Un paesaggio che in quelle bellissime foto cominciava però a rivendicare anche una sua inquieta dignità e una segreta bellezza. Una “bellezza” strana e inevitabilmente destinata a mettere a disagio progettisti e pianificatori, abituati a considerare quei luoghi come “spazio bianco”, in triste attesa di progetto. Basilico non tradiva la sua formazione da architetto e ha sempre continuato, soprattutto se richiesto, ad applicarsi a fotografare opere d’autore, riassunte in bellissime immagini in bianco e nero, pure e memorabili.
Ma parallelamente, e con sempre maggior integrità, ha perseguito il suo programma di indagine della città contemporanea: la periferia milanese, le fabbriche dismesse, le strade e le autostrade italiane, le folgoranti immagini di Beirut devastata dalla guerra – dolorosamente simili, nella composizione, alla Bologna di Monti – e poi Shangai, Mosca, Roma, Istanbul. In mezzo, quel particolare viaggio in Italia condotto con discrezione e pazienza, che è li a ricordarci due aspetti cruciali del suo lavoro. Il primo è quello che abbiamo descritto, vale a dire la capacità di “vedere” un territorio altrimenti non legittimato da alcuna disciplina (che non fosse la letteratura o il cinema) e di trasformare il suo sguardo in una luce così forte da risvegliare l’attenzione della parte meno distratta e autoreferenziale della cultura architettonica e urbanistica nazionale. Il secondo, condotto insieme a un piccolo gruppo di compagni di strada, è ancora più importante e corrisponde alla lenta e cruciale opera di legittimazione artistica della fotografia italiana di paesaggio. Le architetture anonime e i paesaggi imprecisi di Basilico hanno progressivamente acquisito autonomia rispetto al loro scopo documentario e hanno assunto il ruolo di opere a se stanti, testimoni di una cultura urbana autoorganizzata ma allo stesso tempo immagini compiute e significanti in se stesse, accessibili allo studioso italiano come al visitatore di una mostra come al collezionista.
Basilico è ovviamente anche molte altre cose: l’attenzione generosa al lavoro dei giovani fotografi, la disponibilità a raccontarsi e a riflettere sul proprio lavoro, la borsa con le macchine sempre pronta, ma come architetto non posso non essergli soprattutto grato per l’impatto che ha avuto il suo lavoro nel mio mondo. Ricordo ora con malinconico piacere come qualche anno fa, richiesto da una rivista di indicare con delle immagini “i miei maestri”, scelsi di pubblicare solo delle foto tratte da quel viaggio di Basilico, dalle quali ancora continuo a imparare.
[Immagine: Valencia , Spagna, 1998 (particolare). Foto di Gabriele Basilico (© Gabriele Basilico / ADAGP) (mg)].
Ho visto un libro di Basilico su Bari, la mia città: ebbene, ho trovato una città stupenda, modernissima, squadrata, bianca, con un bianco/nero razionalista, con tetti quasi algerini…Basilico è davvero un poeta delle immagini urbane, grande il rammarico per la sua morte!