di Gianluigi Simonetti

La cosa da non fare con Elisabeth, notevolissimo romanzo d’esordio di Paolo Sortino (Einaudi, Torino 2011) è annetterlo seccamente al filone del non fiction novel, o peggio ancora alla vasta area del neo-neorealismo alla moda: nonostante le apparenze, e comunque lo si giudichi, questo libro va nella direzione opposta, che è quella della visionarietà e dell’ambiguità. Certo, personaggi e vicende narrate sono autentiche – e rimandano al celebre caso di Josef Fritzl, padre di famiglia austriaco capace di sequestrare la figlia diciottenne Elisabeth, di imprigionarla per ventiquattro anni nel bunker antiatomico costruito nel sottosuolo della sua villetta, di violentarla un numero imprecisato di volte, di generare con lei sette figli, fino all’irruzione della polizia, nell’aprile del 2009. Ma intanto questo storia vera non ha nulla di verosimile, e ben poco di spettacolare: è talmente brutale e malata da consegnarsi al lettore senza cedere, al glamour del “fatto veramente accaduto”, nemmeno un centimetro del suo mistero. Se per parlare del presente Sortino ha scelto la storia di Elisabeth, lo ha fatto per gli strati di senso che comprime, e insieme per la sua inossidabile enigmaticità (“Poi tornava seria e piangeva, perché niente aveva senso”); quindi per la potenziale ricchezza strutturale del disegno, per la sua disponibilità a farsi apologo e mito. Il libro si allontana subito dallo stile del referto, per affidarsi invece alla mescolanza tra realismo e fantastico, nel registro della favola nera assai più che dell’horror o del thriller, a cui solo molto superficialmente può essere avvicinato. Nel romanzo gesti sordidi o selvaggi producono conseguenze irrazionali, che ci abituano molto presto all’idea che in questa storia vera le cose accadano come per magìa. Dopo le prime violenze, il corpo di Elisabeth “invecchia di mesi ogni ora”; presto arriva a mimetizzarsi con il cemento grezzo del bunker: “lei e la prigione erano fatti della stessa sostanza” (71). Anni dopo il rapimento, l’identificazione tra la ragazza e la cella sarà completa e soprannaturale: “D’inverno poteva persino veder incupire il soffitto a causa del passaggio di nubi, cogliere col palmo della mano l’abbassamento della temperatura esterna a causa della pioggia. Di ogni ombra proiettata contro il giardino avvertiva lo spessore; le sentiva filtrare attraverso la terra fino a lei” (81).

Sono solo pochi esempi, sufficienti però per capire che non ha davvero senso limitare al perimetro della cronaca nera o agli schemi abusati di genere la gittata di un racconto che, in definitiva, parla non tanto di un atto di violenza, sia pure inaudito, quanto di un mondo, coerente e completo, diverso dal nostro ma in comunicazione con esso. Il mondo in questione è angusto e miserabile, “fango e piscio in un rettilario” (65); ma è anche un riassunto fedele del cosmo, un compendio di storia dell’umanità; “nido” (Vasta), “eden paradossale” (Siti), teatro della seduzione e dell’ambivalenza. Mentre il carnefice, invecchiando, non può fare a meno di amare la sua vittima come il padre che effettivamente è (“se la penetrazione non era più possibile, poteva almeno aspirare a diventare lei”, 146), la vittima stessa, diventando adulta, non può e non vuole sottrarsi alla ricerca di una reciprocità col padre torturatore. Al ruolo di schiava sostituirà quella di padrona occulta;  al suicidio o alla fuga la vedremo preferire la reclusione; alla negazione del carnefice opporrà la ricerca di una delirante simmetria. La famiglia “di sotto”, incestuosa e clandestina, finirà col duplicare quella legittima “di sopra” nel numero, nel sesso e perfino nell’ordine di nascita dei figli.

L’idea di descrivere una famiglia del sottosuolo come degradazione dell’originale e insieme suo superamento è certo una delle più forti del libro, ma non è l’unica. Già in precedenza, più o meno verso la metà del romanzo, una parte della nostra coscienza aveva parzialmente e miracolosamente dimenticato le torture, lo stupro, l’incesto – un po’ perché l’autore ci spinge a curiosare altrove, nella routine e perfino nell’idillio del lager; un po’ perché ci accorgiamo del ricamo mitologico e profetico che si cela sotto una oscenità così intensa. Poco per volta ci scopriamo a contemplare insieme a Elisabeth la mostruosa, commovente novità di quel che sta nascendo. “Il nostro mondo è più grande di qualsiasi cosa, persino del mare e del sole” (137), afferma uno dei figli di Elisabeth, dopo averla baciata sulle labbra, “come aveva visto fare nei film”. Sono i bambini del bunker, nati e cresciuti in cattività, che regalano al lettore le indicazioni più preziose sulla nuova razza, fino a suggerire che la loro esistenza da cavie in qualche modo ci riguarda, che la loro covata allude alla nostra. La cantina in cui vivono è il luogo in cui si mescolano da un lato le forze più arcaiche dell’agire umano (una fallicità lineare e distruttiva, una morbosa, bifida fertilità); dall’altro ipotesi di un futuro in cui segregazione e comfort (la televisione, la piscina) potranno coabitare. Capote o Saviano non c’entrano, c’entrano invece Nabokov e Borges, ma anche Haneke e il primo Lynch: Sortino ha preso un caso di cronaca e lo ha usato come “schema” – sono parole sue – per creare un doppio immaginario della nostra civiltà; non solo e forse non tanto come essa è, ma piuttosto come si appresta a diventare, una volta conclusa l’incubazione abbiamo sotto gli occhi. Per sognarla così bene, questa razza nuova, era forse necessario attraversare l’empiria di un fatto autentico, ma insieme prendersi tutta la libertà possibile – scordarsi del ‘reale’, sospendere le regole della democrazia, della civiltà, del tempo (nel bunker vecchie fotografie rimpiazzano gli specchi, i calendari hanno i fogli strappati, l’unica sveglia è ferma alle 19, 23 del 27 giungo 1985).

Dal punto di vista stilistico Elisabeth è un libro irregolare, tutt’altro che perfetto: privo di misura, troppo sentenzioso, a tratti scritto male – ma per eccesso di maniera, non certo di scorrevolezza. Non è affatto vero, come pure è stato detto, che lo stile di Sortino sia piatto e monocorde; è vero invece che di impennate ce ne sono troppe, forse più di quelle che l’autore potrebbe permettersi da un punto di vista strettamente tecnico. E’ un po’ quello che accade, sempre più spesso, nel romanzo italiano di intrattenimento, che, contrariamente a quello che si tende a pensare, risulta oggi non di rado più sovrabbondante che povero di stile letterario (una letterarietà di cartone, beninteso, a vocazione evasiva). Elisabeth non è intrattenimento medio, ma letteratura vera; succede però che in un’opera come questa, dall’alto tasso metaforico, non tutte le metafore convincano: alcune pagine non vanno – altre in compenso sono straordinarie. Ma si tratta, sia chiaro, di dettagli. Di fronte a un libro così potente ed ispirato sarebbe perbenistico fare ostruzionismo con richiami a un linguaggio più “d’azzardo” (Gilda Policastro su «Alias» e su «Nazione Indiana»), o con grida d’allarme sui limiti che la letteratura non dovrebbe oltrepassare (Christian Raimo su «Minima&moralia» e «Il Sole24ore»). Da un lato ha perfettamente ragione Sortino a sostenere che uno scrittore ha il diritto di sfruttare qualsiasi cosa gli capiti a tiro, se lo scopo è arrivare a dire “quelle due o tre cose che gli somiglino”. Dall’altro, e più in generale, è difficile non rilevare che un romanzo riuscito non si scrive e non si è praticamente mai scritto soltanto con il senso di responsabilità o la buona educazione, e nemmeno con il sabotaggio o l’eversione della lingua – in particolare la tradizione della Neoavaguardia, cui la Policastro sembra rinviare, non ha mai prodotto, né forse ha voluto produrre dei romanzi straordinari. Il primum del racconto moderno risulta in sostanza anteriore al bisogno coatto di “sperimentare”; si trova piuttosto nella ricerca di una conoscenza specifica, relativistica e completa della vita interiore – quella che scaturisce da un congegno formale capace di moltiplicare punti di vista, anche contraddittori tra loro, e di imporceli attraverso l’identificazione con personaggi o vicende particolari, opportunamente simulati. Poco importa se queste vicende sono autentiche o inventate – o se, come sempre più spesso accade, esibiscono un confuso statuto di realtà; poco importa, in sé, e ammesso che ci sia, il ricorso a schemi o a travestimenti di genere – il romanzo si è spesso travestito da qualcosa, pescando volentieri tra le frattaglie del mercato. Quanto al famoso “lavoro sul linguaggio”, la cosa migliore è non feticizzarlo – anche perché sarebbe riduttivo circoscrivere a quest’ambito l’azzardo dello scrittore, il cui coraggio vero consiste non tanto nell’applicare delle ricette formali più o meno oltranzistiche, quanto nel lasciar parlare nel testo proprio ciò proprio che non conosce, non controlla, e al limite non approva: ovvero nel dimenticare tutte le ricette. Nello spazio narrativo, e specialmente nel racconto realistico, quel che conta in primo luogo è la qualità dell’identificazione, la ricchezza della struttura, la forza della scoperta filosofica ed esistenziale. Non si tratta di un modello elaborato e imposto a fine di lucro dalla grande editoria, o di una moda passeggera figlia dell’imbarbarimento dei tempi – ma semplicemente, nella sua via principale, della cultura del romanzo.  Se si continua a credere nel romanzo come struttura, scoperta e profezia, questo di Sortino è un romanzo vero – non un esperimento, né una buona azione.

20 thoughts on “Il sottosuolo. Su “Elisabeth” di Paolo Sortino (e sul romanzo contemporaneo)

  1. Resto sempre impalato davanti al pacifico e mansueto trafficare di enunciati di questo lignaggio:
    “Poco importa se queste vicende sono autentiche o inventate”.
    Ci sono capi-scrittori che si sono ammalati al solo discuticchiare di spore biografiche, che hanno dedicato una vita per dare una riavviata a questo complesso rapporto di contagio tra scrittura e vita, o per sviarlo, fallendo… e per l’articolista: “Poco importa se queste vicende sono autentiche o inventate”; non solo, si arriva a smanacciare una frase del genere per la grandezza di chi? di Sortino che scrive un libro su un argomento furbo, di richiamo, (altro che frattaglie di mercato, qua siamo alle uova marce, alle polpette andate a male) in uno stile che non esplora nulla, non scava una buca, se non un qualche visionarismo d’estasi accattonata sui libri d’antologia.
    Noi abbiamo avuto Leonardo Sciascia in un genere molto (af)fine, e oggi dovremmo stenderci a tappeto rosso per il passaggio di Elisabetta di Sortino?

  2. Grazie di tanta apertura e di un discorso critico che assesta in sintesi svariate questioni discusse, recentemente, nella narrativa italiana. Anche a me “Elisabeth” ha ricordato “Lolita” e “Ada” senza però la felicità, metafisica e di scrittura, di Nabokov.

  3. @Dinamo Seligneri:

    “Sortino ha preso un caso di cronaca e lo ha usato come “schema” – sono parole sue – per creare un doppio immaginario della nostra civiltà” […] “Per sognarla così bene, questa razza nuova, era forse necessario attraversare l’empiria di un fatto autentico, ma insieme prendersi tutta la libertà possibile – scordarsi del ‘reale’, sospendere le regole della democrazia, della civiltà, del tempo”.

    Credo che il rapporto tra scrittura e vita, tanto caro ai contemporanei, nella tesi dell’articolista non sia preminente al dominio della verità dei fatti ma venga proiettato su un piano diverso: la realtà è matrice e madre di una narrazione che si innesca su un elemento del reale e lo fa detonare. E’ da questo che nasce il rovescio, l’assurdo e l’ “ambiguità” ( quanta realtà c’è nell’immaginazione? e viceversa?)
    Il “doppio immaginario” si genera dall’antitesi non risolta tra vero e falso: se è “doppio” deve far riferimento ad un modello speculare nella struttura ma se è immaginario può aggirare i codici della realtà e crearne altri propri, specifici.

    Quanto al giudizio sulla qualità del libro di Sortino se ne può discutere, se si è disposti ad accantonare la tentazione di liquidarlo a priori come libro-merce, pregiudizio al quale non sopravviverebbe neanche un romanzo di indiscussa dignità letteraria

  4. E’ troppo comodo così, Leda.
    Sono sicuro tu abbia ascoltato almeno una volta la Canzone di Marinella, scritta e cantata da De André. E’ tratta da un fatto di cronaca, ma questo fatto è servito solo per far brillare il fiammifero; la canzone parla di “altri”.
    Céline (e la sua operazione potrebbe innescare altre discussioni) metteva la SUA pelle sul tavolo. Non quella delle famiglie austriache. Trattando la sua pelle come la pelle dell’ultimo straccio per il pavimento ha aperto una pista letteraria che si colloca precisamente tra arte e vita, narratore e autore, e soprattutto tra Etica e Storia . Traspondendosi, ha nuociuto solo a sé stesso, (sociologicamente), se ha nuociuto e, però, distruggendo sé stesso, urlandosi, ha urlato le peggio cose all’uomo intero, senza esclusi.
    Sortino invece ha fatto qualcosa di molto semplice, molto gazzettiero: ha dato per assodato il fondale ed il composto etico del suo lavorare su un fatto del genere; è andato a prendersi una storia roto calcata molto conosciuta e goduta, e sprovvisto del metro lungo per misurare gli interni, è riparato nella poesia e nel visionario. Sortino ha fatto della poesia con una lingua normale, in uno stile comune, su un fatto di cronaca famoso, infischiandosene di qualsivoglia indagine essenziale.
    Il fatto è che se avesse parlato di qualcos’altro e qualcun altro, oggi nessuno ne starebbe a parlare. Ha scelto bene il cast, il trucco e le parrucche dei protagonisti, ecco cosa bisogna tributare al regista Sortino, per me… che forse, anzi sicuramente, (non) “credo” in un altro modo di essere arte.

  5. “Nello spazio narrativo, e specialmente nel racconto realistico, quel che conta in primo luogo è la qualità dell’identificazione, la ricchezza della struttura, la forza della scoperta filosofica ed esistenziale.”
    Per me è questo il centro della riflessione di Simonetti, un centro che condivido. Il linguaggio – ma cos’è il linguaggio in fondo se non un velo che stendiamo sopra qualcosa che non si può già più nominare? – viene dopo. Prima c’è la qualità dell’immaginazione che per forza di cose, nella sua fase balbettante, albeggiante, è altro dal linguaggio, è nebbia che prende forma di lettere e vocaboli…
    Dico ciò a prescindere dal romanzo di Sortino, che non ho letto.

  6. Simonetti non sbaglia un colpo. Nelle sue acute analisi riesce sempre a procedere dal particolare all’universale e poi di nuovo dall’universale al particolare, definendo perfettamente l’oggetto delle sue indagini e al contempo enucleando temi e sollevando questioni che sono fondamentali per il dibattito letterario contemporaneo.

  7. Come a volte accade ai migliori, la pagina critica supera – e di molto – il romanzo che commenta.
    L’ esibizionismo di un “confuso statuto di realtà” di cui parla Simonetti fa riflettere sulla letteratura, sulla realtà, e soprattutto sull’atrocità umana che può oltrepassare l’immaginazione degli scrittori (e che diventa per questo oggetto di scrittura)

  8. Parto dal fondo. È ormai un luogo comune, ma purtroppo sembra sia ancora vero: il romanzo italiano sconta la sua immaturità da un paio di secoli abbondanti. Proporrei però un’equa distribuzione delle colpe: troppi critici italiani fanno le viste di parlare di romanzo, e invece non riescono a far molto altro che discettare di prosa, se va bene, e di lingua, se stiamo ai minimi termini. Simonetti ha perfettamente ragione: la retorica del “lavoro sul linguaggio” ha fatto il suo tempo – e i suoi danni. Lasciamola agli anni Settanta, e speriamo che non ce ne infliggano il revival insieme ai pantaloni a zampa d’elefante. Misurare un romanzo sulle belle metafore è insensato: dovremmo buttare a mare Balzac. E lo è altrettanto scandalizzarsi per l’assenza di bello stile, o andare in orgasmo per qualche pastrocchietto pseudo-plurinlinguista. «Ben altro/ è l’Amore».
    In secondo luogo, è verissimo che Elisabeth compie un’operazione opposta rispetto al non fiction novel: dove quello muove verso l’accertamento dei fatti e la ricostruzione documentaria, ed è animato dal pathos della rivelazione di verità ignote, qui, al contrario, si parte dal già noto, e si va (come Simonetti dice benissimo) verso la visionarietà e l’ambiguità. Del resto, mentre la non fiction indaga con estreme cautele il mondo interiore dei personaggi che mette in scena, Sortino ritaglia proprio sul mondo interiore lo spazio dell’invenzione romanzesca.
    Credo però valga la pena di riflettere ancora su un punto: davvero «poco importa se queste vicende sono autentiche o inventate»? Se non ho capito male, è anche il dubbio di Seligneri. Nell’ultimo decennio, l’enfasi sulle ‘storie vere’ è così forte che non lo si può liquidare. Che il romanzo si nutra di cronaca non è certo una novità. Però, la travestiva e la occultava; oggi, al contrario, la esibisce. Stendhal, Flaubert o Dostoevskij seppelliscono i loro modelli reali sotto Julien, Emma o Raskolnikov; oggi, al contrario, Sortino (come tanti altri) ha bisogno di raccontare proprio di Elisabeth, non di un personaggio X liberamente ispirato a lei. E perciò, non si può leggere Elisabeth come Madame Bovary: non è indifferente che qui non si operi nessuna sostituzione, che non si metta alcuna maschera, e che quello che ci è raccontato è anche successo davvero. Gli effetti sul lettore non sono misurabili; ma come questa retorica del realmente accaduto agisca sulla costruzione del racconto, resta in gran parte da capire. Non è un problema facile da risolvere: la stessa (in parte fasulla) distinzione tra fiction e non fiction, come l’enorme espansione recente di quest’ultima, sta ridisegnando il panorama e le categorie della narrativa e del letterario.

  9. Raffaele, secondo me, le furberie non mi interessano, in modo speciale se vengono fatte nelle arti dove da sempre io colloco un senso di purezza, pattuendo con me stesso che l’irrazionale da dove si smanaccia l’arte è per forza di cosa puro “di impurezze”. Sono consapevole d’essere più ingenuo d’un Pinocchio col Gatto e la Volpe, ma che cosa posso farci?
    Sortino è stato furbo, a mio avviso, ed è furba tantissima, la maggior parte, della letteratura attuale, una letteratura che si nutre di vita sputtanata pensando così di fare letteratura sputtanata… mi sa che collezionano solo figuracce come trofeo.
    Credo si debba uscire (chissà chi poi…) da questa impasse dentro cui s’è avvitata la narrativa, sempre più alla mercé del giornalismo delle gazzette, per ripiego di talenti e interesse: da Saviano e la sua silloge narrativo-giornalistica civile di scarsa qualità, alla romanzeria che scaturirà da Sortino che andrà ad incamerare un silloge narrativo-giornalistica di cronaca… e qui si sta ancora a parlare di non fiction novel e compagnia? io dico: magari fossero non fiction novel!

  10. @Raffaele Donnarumma e Dinamo Seligneri

    Leggendovi mi sono reso conto di essermi espresso in modo sbrigativo e poco chiaro – almeno nel passaggio sul quale vi siete soffermati. Scrivendo “poco importa” non intendevo negare ogni differenza narratologica tra una vicenda inventata di sana pianta e una autentica (cioè realmente accaduta). Volevo dire invece – pensando soprattutto all’intervento di Christian Raimo – una cosa piuttosto banale, ovvero che dal mio punto di vista lo statuto di realtà della storia raccontata in un romanzo può difficilmente costituire, di per sé, un parametro valido e sufficiente per un giudizio di valore, positivo o negativo che sia (come non lo costituiscono, da soli, una ricerca linguistica più o meno sperimentale, o un ricorso agli schemi di genere più o meno accentuato). Nel caso specifico di Sortino, credo che l’autore abbia fatto bene a conservare un legame organico con la cronaca, a sfruttare l’innegabile energia del “fatto vero” e di alcuni suoi vertiginosi dettagli (magari al prezzo di una ambientazione austriaca a tratti un po’ posticcia). Ha fatto bene perché, contemporaneamente, ha saputo agire da romanziere, insistendo molto sul mondo interno di Elisabeth (e di Josef), e lavorando bene sulle intersezioni tra cronaca e mito: cioè su dimensioni che nessuna gazzetta e nessun archivio potrebbero davvero raccontare. Come osserva Leda, c’è nel libro parecchia realtà bruta, ma non manca di certo il suo rovescio – con tutta l’ambiguità che ne deriva.
    Resta in ogni caso da approfondire la questione importante sollevata da Raffaele (e trascurata nel mio articolo): la retorica del “realmente accaduto” è oggi un fenomeno imponente, che agisce su di noi in modo diverso, e per certi versi opposto, rispetto al passato. Certamente tocca un punto sensibile dell’estetica contemporanea, e altrettanto certamente, dal mio punto di vista, merita di essere presa sul serio, non solo per quello che ci dice sul funzionamento delle opere che la utilizzano, ma anche per quanto ci rivela sui bisogni e le reazioni dei lettori, e sui mezzi con cui la letteratura e l’arte in genere li amministrano. Per questo penso andrebbe studiato soprattutto il modo in cui questa retorica ha cambiato, e sta cambiando, il sistema dei generi (non solo letterari): la distinzione secca tra fiction non fiction nasconde un arsenale di forme che si sta delineando sotto i nostri occhi e che è in realtà ricchissimo di sfumature.

  11. Sono molto d’accordo con il commento di Simonetti a Elizabeth. Non è cosa da poco, di questi tempi, riuscire ad analizzare e interpretare un romanzo senza rinunciare a descrivere il quadro complessivo in cui questo si enuncia (la voga del “reale” estremizzato, il mescolamento di fiction e non fiction), senza però farsi prendere da smanie generalizzanti che producono discorsi uguali per ogni testo (l’eterna ossessione per una lingua “azzardata” o per uno stile “autentico”, la furberia della cronaca e del ricorso al “genere”). Senza farsi portavoce di alcuna poetica dichiarata Elizabeth interroga tutte queste questioni e le declina in maniera felice costruendo una narrazione coesa e intensa. In quelle duecento pagine il punto è sempre il pensare che la narrabilità di ogni evento prescinde il suo essere accaduto davvero. L’inverosimiglianza che il lettore avverte è nella naturale evoluzione del comportamento di Elizabeth e di suo padre, non nella crudezza di ciò che è successo. Se quello che è avvenuto è scioccante, ben più sconvolgente è seguire le reazioni di Elizabeth e capire che le relazioni instaurate con il padre carnefice, con il mondo sottrattole, con i figli estorti con la violenza sono tanto più complesse e mutevoli perché avvenute in un regime “straordinario”, “estremo”. Rendere tangibile lo sgomento per tale atrocità è il punto di partenza per descrivere la complessità del dolore, narrare le modalità di sopravvivenza, dare forma e sostanza ad un inverosimile “reale”. Con buona pace di ogni dubbio sulla liceità di questa operazione letteraria. Sortino racconta di come Elizabeth passi dalla paura alla rabbia, e poi alla disperazione e alla rassegnazione; e come poi a un certo punto decida di cambiare strategia, di ricattare per sopravvivere, di legarsi al carnefice per dare un senso alla sua vita e nello stesso tempo non accettare di non stare più combattendo per salvarsi. Fino ad essere insofferente per quei pietisti che non capiscono, che si fidano del fatto e pensano che a quel fatto potessero corrispondere solo determinati sentimenti e azioni. Descrivere le condizioni di possibilità di esistenza di quei sentimenti: questa è, in prima istanza, l’intenzione profonda del romanzo.

  12. @Simonetti & Seligneri
    Allora sono d’accordo con Simonetti ancora di più: non riesco proprio a condividere la pruderie anti-gazzette. Aggiungo anzi: in questo momento, l’esibizione di patenti di realtà, che va da un massimo di fedeltà alle cose-come-sono-andate a un massimo di gioco sull’incertezza del come-sono-andate-davvero-le-cose, produce i libri più interessanti, e certo non sono in Italia. Potremmo dire anche meglio: in tutti i libri che hanno le marche della non fiction c’è sempre un sospetto sulla completa veridicità di quanto si racconta, che può essere combattuto, assecondato, incrementato – ma che non è mai neutralizzato. Oggi la non fiction (come rivela il nome) si esercita sempre nell’angoscia di una riduzione a fiction.
    A me il libro di Sortino non è sembrato furbo per nulla: l’ho letto con l’attenzione, direi, di Mongelli. E del resto, ci sono schiere di furbacchioni, nella storia dell’arte (Balzac? Raffaello? Rossini?) che proprio non saprei rifiutare per la loro furberia.
    Infine: posto che non c’è letteratura che viva fuori di un genere o di un incrocio tra generi, ci sono però dei generi che non mi sono mai stati troppo simpatici e il cui crescere, negli anni, mi hanno proprio stufato. È il caso del noir (il quale, per altro, è stato anche uno dei principali canali di immissione di non fiction in narrativa).

  13. Ringrazio Simonetti per la citazione. Sono d’accordo su molte delle cose che scrive. Ma nella mia recensione resta ancora un punto qui glissato.
    Mettiamo che io non fossi Christian Raimo, ossia uno scaltro lettore disincantato, ma un parente di Elisabeth Fritzl, o poniamo una sua figlia, o poniamo lei stessa, questa operazione letteraria sarebbe stata possibile? Prima che eticamente, giuridicamente?
    Il punto qui è che non si tratta di grandi elucubrazione tra realtà e finzione: il punto prioritario qui è: è possibile scrivere i pensieri di una persona sequestrata e violentata per decenni, mentre questa persona è ancora viva?
    Cos’è che ci dà questa possibilità? Il fatto che sia straniera? Il fatto che sia probabilmente talmente frastornata da non avere la possibilità di raccontare lei questa storia? È giusto prendere alcune sue dichiarazioni sparse tipo “Ero io la più forte” e costruirci sopra un’intera opera? Se avessi fatto un’operazione letteraria del genere con un bambino di un asilo italiano molestato, citando nome e cognome e immaginandone i pensieri, avrei avuto lo stesso tipo di accoglienza?

  14. Mi sembra l’opposizione nata intorno alla Shoah e ai Lager: è possibile che li racconti chi non li ha vissuti? se gli stessi testimoni ne hanno sperimentato un grado di impredicabilità, come può qualcuno, da fuori, arrogarsi il diritto di parlarne?
    Questo fa capire come il problema posto da Raimo sia serio. E tuttavia: non è una censura moralistica? un’opera d’invenzione non può tributare rispetto a un essere umano molto più del silenzio, o della comunicazione mediatica che comunque se ne è appropriata? E davvero è rilevante – se dobbiamo ragionare in termini etici – che la persona sia viva? Da morta non merita più rispetto o semplicemente è che non può più reclamare, come se fossimo in Sei personaggi in cerca d’autore? Possiamo inventarci i pensieri di uno fucilato dai nazisti o caduto sul campo di Borodino, solo perché sono sufficientemente lontani, e a nessuno importa più? Ma questa non è etica: è cautela (pruderie?) giuridica.
    Ripeto: trovo legittimi i dubbi di Raimo. Eppure, la forza di un libro come Elisabeth secondo me sta nel fatto che mentre riprende una fame di storie vere che è propria dei media, la indirizza a uno scopo che non è il depotenziamento della vita (Siti), ma la sua trasposizione nel dominio dell’immaginario, del perturbante e del condivisibile – per di più, senza comodi moralismi. È un’operazione rischiosa (a dispetto di chi crede, invece, che si tratti di un’operazione facile); ma val la pena di correre il rischio. Come lettore, e neppure soverchiamente scaltrito, trovo che Sortino non abbia offeso né me, né Elisabeth Fritzl; anzi.

  15. Caro Raimo,
    credo che alle tue domande si possa rispondere in molti modi. Ci sono le risposte convenzionali della teoria della letteratura, che chiede di distinguere sempre tra personaggio di carta e persona in carne e ossa, anche quando portano lo stesso nome (a un argomento del genere allude lo stesso Sortino, nella nota che apre il romanzo; ma poteva anche non scriverlo, tanto questa distinzione è diventata senso comune). Ci sono poi le risposte della prassi letteraria: molta grande narrativa – o grandissima: Dante, Proust – si è fatta e si fa sulla pelle di persone vive e perfettamente riconoscibili, senza nessun rispetto per la loro intimità e anzi spesso con il gusto di compiere una cattiva azione (sapendo o sperando che quella cattiva azione possa aggiungere benzina al motore del romanzo).

    Ma sono risposte canoniche e un po’ monche, a cui credo e non credo. Permettimi di replicare in modo meno difensivo, più primitivo forse, ma anche più sincero. Il fatto è che io non sono Elisabeth Fritzl, e nemmeno un suo parente. Sono, nell’ipotesi a me più favorevole, “uno scaltro lettore disincantato” – esattamente come lo sei tu. Non solo non mi intendo di giurisprudenza, ma, lo ammetto, non provo nemmeno sensi di colpa tali da dovermi mettere nella pelle di Elisabeth, o di un suo parente. Quando leggo, la mia legge morale è quella del lettore, non del bravo cittadino: il suo unico articolo mi chiede di prendere sul serio quello che leggo, se quello che leggo merita di essere preso sul serio. Se l’opera funziona, si guadagna da sola il mio rispetto, la mia devozione, il mio amore per i suoi personaggi; se non funziona, non la salva il fatto di essere eticamente responsabile.

    Proprio per questo mi sembra giusto concedere alla letteratura tutti i diritti, e nessuna responsabilità morale. Visto che non ha la capacità di cambiare direttamente la realtà, la letteratura dovrebbe almeno essere messa in condizione di cambiare il nostro modo di pensare; quindi per me ha non solo il diritto ma addirittura il dovere di usare qualsiasi mezzo per produrre conoscenza – e quello specifico piacere che la conoscenza ci dà. Non ci sono stanze chiuse, non ci sono argomenti di cui non si può parlare; soprattutto, non si tratta di dire “come stanno realmente le cose”, rispettare i fatti e le persone, ristabilire la verità, assegnare il torto e la ragione. Al contrario: si tratta di mettere tutto in discussione, tenere a bada il Super-Io, proporre una visione prospettica e plurale delle cose, dire quello che solo la letteratura può dire. Gli interdetti della vita reale in letteratura non valgono; e non servono le autorizzazioni. Nella vita reale spetta al giudice affermare chi ha ragione, correggere le offese, proteggere la vera Elisabeth; in letteratura Elisabeth si difende da sola, non ha né torto né ragione, come non ce l’ha suo padre. La loro storia ci pone altre domande.
    O almeno così a me pare.

  16. @ Simonetti
    Ma non ti pare che la narrativa degli ultimi anni in una certa misura solleciti proprio reazioni come quella di Raimo? Non ti sembra, cioè, che nel mutamento di clima che si registra, io direi, dalla metà degli anni Novanta piuttosto che dagli anni Zero, ci sia anche questa ventata ‘etica’, sostanzialmente estranea al postmoderno, e con pericoli di scivolamenti nel moralismo? Se leggi i post sull’autofiction, anche lì emergeva lo stesso problema. Di fronte a questo, anche se d’istinto assumo il tuo fastidio per la «responsabilità morale», mi rendo conto che questa letteratura gioca costantemente con essa, e perciò non è così facile liquidarla: ci si misurano sia i cattivoni, come Siti, sia i buonisti, come Affinati (cito a caso). Io sto con i cattivoni, va da sé, però pure loro sono cattivoni perché nell’aria c’è quell’odorino insidioso, dolciastro di bontà.

  17. @Raffaele Donnarumma

    A me pare che, proprio a partire dalla metà degli anni Novanta, nella narrativa italiana acquistino forza e importanza due spinte opposte (apparentemente opposte, in realtà complementari): una ‘etica’, come dici tu, che cerca la solidarietà morale del lettore e che mostra spesso un lato di impegno, una volontà di rinnovamento civile attraverso la letteratura (nei casi peggiori, una faccia di circostanza); un’altra che invece cerca soprattutto lo scandalo, che provoca il lettore con forme diverse di violenza e di trasgressione (nei casi peggiori, trasgressione di massa). La complementarità sta nel fatto che entrambe queste spinte cercano un contatto diretto col lettore (e spesso tirano in ballo l’identità supposta reale, e a volte la persona fisica dell’autore): cercano cioè di saltare il recinto della letteratura cone gioco formale, più o meno ludico, più o meno asettico. Due strade diverse che però condividono un modello remoto: l’ultimo Pasolini – che mi pare conti moltissimo per la narrativa italiana degli ultimi anni. Credo anch’io che sia una reazione all’ironia postmoderna (che in Italia si era costruita soprattutto attorno a Calvino…): come tale implica un atteggiamento rigoroso, un “fare sul serio” tradotto nelle forme – sia che ci si “impegni”, sia che si trasgredisca.

  18. Se posso permettermi, rilancio la discussione segnalando un articolo da me scritto sul tema (ma senza alcuna velleità di mettermi al pari di voi interlocutori e senza pretendere che qualcuno lo legga): http://labalenabianca.com/2012/05/26/la-verita-e-la-letteratura-elisabeth-di-paolo-sortino-2a-parte/

    la lettura di Simonetti mi sembra corretta, rende giustizia alla potenza e all’importanza del romanzo.

    È bene però precisare che il recupero di un fatto di cronaca può lasciare adito a dubbi; il romanzo non è una non-fiction novel, e la sua forza, a mio modo di vedere, sta proprio nel persuadere anche il lettore più prevenuto (quello che non si fida dell’Avvertenza, che la crede pretestuosa) sulla verità e, implicitamente, sulla potenzialità conoscitiva di un “ semplice” romanzo. Rimanendo ancorato ai nomi e ai fatti veri della vicenda, Sortino ci permette di scoprire quale sia la capacità del romanzo di dare significato (un significato, non l’unico possibile, ma uno attendibile) a una vicenda al contrario egemonizzata da un racconto diverso, quello della cronaca, che si fa forte di una pretesa attinenza ai fatti che ne giustificherebbe poi la susseguente costruzione retorica e patetica che condiziona il nostro sguardo sugli eventi. Dice bene Mongelli: in Elizabeth “la narrabilità di ogni evento prescinde il suo essere accaduto davvero”.

    Mi trovo invece a dissentire sul giudizio in merito alla qualità dello stile, proprio perché Sortino riesce a staccarsi da un lato dalla sciattezza/piattezza di certi romanzi, che pure puntano a toccare il lettore attraverso la potenza del contenuto (vedi Il bambino indaco di Franzoso), dall’altra anche da quella moda sovrabbondante citata da Simonetti e tutta puntata sull’enfasi della parola. Qua al contrario io torvo la capacità inventiva e metaforica della parola, tanto più efficace quanto più la figura associata al referente appartiene a un piano semantico ed emotivo discordante piuttosto che affine.
    Lascio in secondo piano le considerazioni finali sull’essenza del romanzo e sulla divaricazione tra potenziale identificativo e invenzione linguistica (meriterebbero ben altro spazio).

    Ma non so se qualcuno ha voglia di riprendere in mano il discorso.

    p.s. io credo che la letteratura abbia responsabilità morale.

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