di Daniela Brogi
[Questo testo è l’introduzione al libro Giovani. Vita e scrittura tra fascismo e dopoguerra, pubblicato da :duepunti edizioni].
«Quando ero giovane…»: per spiegare sinteticamente i contenuti del libro, basta pensare quanto è diventata desueta questa espressione, almeno in Italia. Non si usa più, lo si fa con disagio: tutti desideriamo essere e essere percepiti come giovani. Dopo la gioventù, infatti, c’è soltanto la vecchiaia, come se l’età adulta, con le sue funzioni e i suoi diritti, fosse ormai soltanto una terra di mezzo: zona precaria di resistenza di un passato bloccato, senza futuro. E così anche la gioventù è diventata più che altro sinonimo di vitalismo, di combustione immediata e spontanea di energie, senza un progetto di lunga durata; senza un’autonomia.
Ma non è stato sempre così. E potrebbe non essere più così.
La gioventù, cioè, per molto tempo e in molti casi è stata non tanto una variabile emotiva, una condizione indefinita che prescindesse dalle circostanze anagrafiche, quanto piuttosto un’occasione di entrata in contatto con le possibilità della vita, con la storia, con gli altri.
La critica letteraria del ventesimo secolo, per la verità, ha più spesso privilegiato gli usi formali della gioventù orientati nel senso dell’angoscia, della disperazione, del ripiegamento narcisistico anziché dell’investimento oggettuale. E certamente tutto il Novecento europeo è affollato di personaggi giovani in crisi: basti pensare ai protagonisti di Kafka, Tozzi, Mann. Eppure, accanto a questi modelli di gioventù, ce ne sono stati anche altri: non meno inconciliati, ma disperatamente vitali nella difesa di un progetto di cambiamento. Essere giovani, in questo caso, equivale a essere amici, essere rivoluzionari, andare in guerra, non essere indifferenti: è di questa gioventù che il libro parlerà. Principalmente in due modi: da un lato restituendo spazio e attenzione anche a autori e opere per così dire eccentrici, ossia importanti, ma meno riconosciuti dal canone; dall’altro lato, ricostruendo uno sguardo sulla letteratura che, senza trascurare il testo, definisca al tempo stesso un paesaggio più ampio: abitato, cioè, da autori che per esempio non solo leggevano e scrivevano libri, ma andavano al cinema – magari tutti i giorni – oppure si interessavano alla pittura, assorbivano insomma una sensibilità e una cultura che possono essere definite multimediali malgrado l’assenza della televisione o del computer.
Bilenchi, Pavese, Visconti, Cassola, Pasolini sono i protagonisti di quattro percorsi che chiamano in causa anche Rosai, Fortini, Calvino, Fenoglio, la letteratura americana degli anni Trenta, il Neorealismo.
Il primo capitolo è dedicato a Romano Bilenchi, che ha raccontato gli incontri e le vicende della propria gioventù in uno dei libri più belli del secondo Novecento: Amici. Il tema di queste pagine è anche uno dei più scabrosi: cosa ha significato esser fascista per Bilenchi e la sua generazione? Provare a rispondere significa fare i conti con il feticcio autoassolutorio del fascismo – e del colonialismo – come rapida parentesi.
Nel secondo capitolo entrano in scena due romanzi e un film: Il postino suona sempre due volte, di Cain, e il libro e il film che ad esso si ispirarono: Paesi tuoi, di Pavese, e Ossessione, di Visconti. Recuperando le circostanze di questo incontro, si tenta, più in generale, di riflettere anche su un nuovo modo di accostare la letteratura e le arti visive. Per lo più, infatti, letteratura e cinema sono state messe a confronto in tre maniere principali. La prima di esse riguarda i molti casi in cui il film è la trasposizione cinematografica di un testo letterario preesistente. Una seconda possibilità, meno generosa nei confronti del cinema in quanto arte autonoma, si ha quando i film sono trattati essenzialmente come documenti, testimoni di un certo modo di intendere un tema, o indizi di un senso comune che si è depositato nell’immaginario. Una terza strada, infine, è orientata piuttosto sui casi in cui la letteratura imita il cinema, appropriandosi di linguaggi e possibilità espressive di tipo cinematografico – come la focalizzazione o il montaggio.
Ora, oltre a queste tre modalità, che almeno nelle occasioni migliori sono molto proficue, è forse possibile sperimentare una forma diversa, che anziché lavorare per contrapposizioni e sensi unici (letteratura vs cinema, dalla letteratura al cinema), guardi piuttosto alle reciproche risonanze, perché la cultura lavora non solo dentro le forme e le discipline, ma all’incontro e all’incrocio di esse.
Il terzo capitolo di Giovani è dedicato alla letteratura della Resistenza, e in particolare a quello che, assieme a Una questione privata, di Fenoglio, è stato uno dei libri più importanti di quella stagione: Fausto e Anna, di Carlo Cassola. Tanto importante quanto dimenticato: oggetto, in molti casi, di una rimozione che merita di essere ridiscussa – anche rileggendo, per esempio, la prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno.
Cosa si può intendere per “letteratura della Resistenza”? Una prima risposta riferisce questa formula a quelle forme di letteratura che hanno preso a tema episodi della Resistenza, facendone materiale di scrittura letteraria (mentre i memoriali e gli epistolari appartengono a una tipologia diversa). Ma nell’espressione “letteratura della Resistenza” il genitivo non ha soltanto un valore oggettivo, ma soggettivo, perché è riferibile, per lo più, all’esperienza biografica degli scrittori, ed è rivelatore, in tal senso, di una peculiarità fortissima del fenomeno: quella per cui la letteratura della Resistenza non solo ci parla della Resistenza, ma è scritta da una generazione di autori che vi prese parte; nei quindici anni successivi al dato storico la letteratura della Resistenza è scritta, nella maggior parte dei casi, da persone che all’epoca della guerra erano “giovani”: ventenni che parteciparono direttamente all’esperienza successivamente rielaborata nelle loro opere. E questo dato, lungi dal riguardare riduttivamente l’ambito della biografia letteraria, o quello dell’ideologia, investe direttamente il campo della poetica.
Nella prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, Calvino scrive che Una questione privata, di Fenoglio (pubblicato postumo nel 1963) fu «il libro che la nostra generazione voleva fare», il romanzo che tutti avevano sognato di scrivere. La prefazione di Calvino risale al 1964. Cosa era uscito prima di quella data? Ecco una sintetica rassegna delle principali opere narrative che affrontano temi e vicende della Resistenza (le date indicate tra parentesi dopo i nomi degli autori si riferiscono all’anno di nascita degli scrittori): il racconto Il labirinto, di Giorgio Caproni (1912), pubblicato nel 1946 sulla rivista di Muscetta “Aretusa”; Uomini e no (1945), di Vittorini (1908); Cristo si è fermato a Eboli (1945), di Carlo Levi (1902); Il sentiero dei nidi di ragno (1947), e la raccolta Ultimo viene il corvo (1949) di Italo Calvino (1923); Se questo è un uomo (1947), di Primo Levi (1919); La romana (1947), di Alberto Moravia (1907); Prima che il gallo canti (: Il carcere e La casa in collina) (1948), di Cesare Pavese (1908); L’Agnese va a morire (1949), di Renata Viganò (1900); I ventitre giorni della citta di Alba (1952), di Beppe Fenoglio (1922); Novelle dal ducato in fiamme (1953) e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957, ma già apparso su “Letteratura” tra il 1946 e il 1947), di Carlo Emilio Gadda (1893); Il sergente nella neve (1953), di Mario Rigoni Stern (1921); Primavera di bellezza (1959), ancora di Fenoglio; Fausto e Anna (1952), di Carlo Cassola (1917; mentre La ragazza di Bube è del 1959, ma la vicenda è successiva alla guerra); Cinque storie ferraresi (1956), di Giorgio Bassani (1916 ) .
È difficile elaborare categorie interpretative che possano spiegare in modo compiuto un paesaggio così eterogeneo. La stessa espressione “Resistenza”, per esempio, potrebbe rischiare di creare letture riduttive di un fenomeno storico-politico che rappresenta uno dei capitoli più importanti della storia dell’Italia moderna, e che Pavone ha invitato a nominare come periodo di vera e propria “guerra civile”: la medesima formula già impiegata da Fenoglio per indicare i racconti partigiani proposti a Einaudi nel 1949. Una definizione più adatta tanto sul versante storico-politico, quanto su quello letterario, perché riesce a comprendere, per esempio, anche testi solitamente relegati al genere della letteratura del campo di sterminio, come Se questo è un uomo.
Sempre nella prefazione del 1964 al Sentiero Calvino dichiara che la letteratura della Resistenza nasce dall’intento di salvare la memoria di quell’esperienza. Il punto è: di quale esperienza si vuol lasciare memoria? Generalmente è un’esperienza del vuoto, dell’assurdo, del silenzio, in cui le ideologie cadono: una sorta di grado zero dell’esistenza, da cui riparte un grado zero del racconto. In questo senso, si può dire che i risultati letterari migliori della narrativa della Resistenza, probabilmente, sono quelli estranei agli argomenti della retorica celebrativa, o, sul versante opposto, dei detrattori della Resistenza.
«A poco più d’un anno dalla Liberazione – spiega ancora Calvino nella prefazione del 1964 al Sentiero – già la «rispettabilità ben pensante» era in piena riscossa […] Fu in questo clima che io scrissi il mio libro, con cui intendevo paradossalmente rispondere ai ben pensanti: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!»
Le narrazioni di guerra più intense non sono mai racconti che ci colpiscono per il loro naturalismo descrittivo: piuttosto spesso sono testi che fanno i conti con il silenzio, con la paura della morte, con la necessità di addomesticare il dolore reinventando un nuovo linguaggio. Se è vero che il linguaggio è anche un modo di dare ordine e significato alla realtà, si può capire come, nel momento in cui l’ordine di quella realtà esplode, in senso tanto letterale quanto metaforico, anche il linguaggio, da parte sua, sentirà l’urgenza di reinventarsi, sperimentando spesso codici orali: «mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere».
Siamo in presenza di un nuovo linguaggio che magari rimodella sempre la stessa storia: un immediato riscontro di questa situazione per esempio è la fatica che di solito prova il lettore a tenere distinte le trame dei vari libri di Fenoglio. La storia è in molte situazioni come detemporalizzata, riportata a coordinate assolute: mitiche, fiabesche, epiche, che sembrano più capaci di nominare la tragedia di una guerra che travolge gli esseri umani, riportandoli traumaticamente a contatto con la fisicità: del dolore, dei corpi dilaniati, delle manifestazioni fisiche dell’orrore (il sudore, l’orina, il sangue). Forse è anche questa brusca situazione di ritorno a ciò che è essenziale che può aiutarci a spiegare la ricorrenza di risorse espressive attinte dal campo della natura e della materia: si pensi a Fenoglio, che descrive l’angoscia di un partigiano con l’immagine di un «oceano di latte frappato». Il corpo e la fisicità (su cui si esercita la violenza, o su cui si registrano sensazioni di contatto con la natura) sono spesso i termini di riferimento per recuperare una vera dimensione umana. (Ancora un esempio da Fenoglio: l’immagine dei fucili tedeschi che fanno rumore come il «frullo di un uccello che si sfrasca» e che affascina al punto che per il fascino non ti sposti e resti ucciso). Cassola, invece, scelse di raccontare l’esperienza partigiana aggredendo la retorica dell’eroe.
Essere giovani, per la generazione di Pasolini, Calvino, Cassola, Fenoglio, significa essere pronti all’azione: abitare in un mondo all’altezza di questo slancio. La guerra, la Resistenza e il dopoguerra scandiscono gli anni di apprendistato dell’età adulta. Come dire che storia privata e storia pubblica giungono all’appuntamento con le scelte essenziali della vita nello stesso luogo e alla stessa ora. Da questa circostanza nasce l’inclinazione a fondare un punto di vista sull’individuo che passi anzitutto per la definizione di un’identità civile. Il quarto e ultimo capitolo, dedicato a Pasolini, chiama in causa la poesia. Anche in questo caso l’opera principalmente discussa, Le ceneri di Gramsci, diventa un’occasione di sguardo e di attraversamento di un’esperienza che riguarda un’intera generazione: l’ultima, per usare ancora Calvino, «che ha creduto in un disegno di letteratura inserito in un disegno di società».
[Immagine: 25 Aprile 1945 (dbr)].
[Accontentarsi della Resistenza al plurale?]
L’affermarsi di un’immagine plurale della Resistenza è un fatto positivo. Ma possiamo accontentarcene? A me pare di no. La Resistenza è evento e mito fondante della Repubblica italiana e su entrambi questi aspetti lo scavo non finirà presto. Un po’ com’è accaduto in campo religioso per l’interpretazione del cristianesimo delle origini, che ha dato luogo nei secoli a interpretazioni sia ufficiali e ortodosse che a interpretazioni radicali ed eretiche, ci sono aspetti della Resistenza che continueranno ad essere indagati al di là dei luoghi comuni o delle attuali sistemazioni, valide ma pur sempre provvisorie. Molti dei problemi più radicali che si posero nel periodo che va dall’8 settembre 1943 al 1945, sono stati infatti liquidati sotto comode etichette («ribellismo», «sovversivismo» o «utopia») ma hanno continuato a covare sotto le ceneri della storia italiana e si sono ripresentati in altre forme nel ’68-’69 e negli anni Settanta, l’ «ultimo grande moto democratico che il nostro paese abbia conosciuto» (Bermani). E non a caso l’idea di una Resistenza come «occasione perduta» di un cambiamento più ampio di quello realizzato, come «alternativa spezzata nel suo punto più alto» si affacciò proprio negli anni Sessanta e torna spesso come problema non trascurabile, ad esempio anche in Nascita di una democrazia (2004), un recente libro di un altro storico, Luigi Cortesi. Per dirla con Fortini, le «domande terribilmente serie» che erano state poste nelle lettere dei condannati a morte o nella memorialistica e diaristica di quegli anni non hanno trovato ancora risposte soddisfacenti. Né in politica né in campo culturale. E perciò la domanda si poteva fare di più? – domanda che fu di una buona parte della generazione dei resistenti e che ora è stata riproposta da Cortesi – ha una carica euristica da non sottovalutare.
[Cortesi]
Se Pavone, infatti, ha messo in luce il peso della «guerra civile» nella Resistenza, merito di Cortesi è quello di aver riproposto un altro dei punti sottaciuti o rinnegati della Resistenza, quello della lotta di classe; e in un quadro non più esclusivamente nazionale o al massimo europeo, ma in quello mondiale, dove già verso la fine della Seconda Guerra mondiale si era aperto il sordo scontro tra Usa e Urss. La Resistenza è da lui letta non alla luce rassicurante della Liberazione dell’Italia e dell’Europa e del superamento della minaccia nazifascista, ma a quella inquietante dello scoppio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki. Quell’atto criminale che, com’è stato ricordato nel cinquantesimo anniversario appena trascorso, non fu motivato da esigenze belliche o dalla volontà di risparmiare vite umane (il Giappone si era di fatto già arreso) invece di chiudere la Seconda guerra mondiale, e anticipava la successiva Guerra fredda. In questo quadro mondiale, per Cortesi la Resistenza appare come un movimento dal basso, non promosso da alcuno Stato e che conteneva elementi fecondi che oltrepassavano lo scontro fascismo/antifascismo. Ad esso perciò non si addice la definizione di «guerra», né «civile», né «di classe», né «di liberazione» e/o «patriottica», definizioni per lui abusive anche se adottate dai protagonisti. Cortesi perciò riprende la tesi della Resistenza come «occasione perduta» per un grande rinnovamento democratico ben più ampio e solido di quello realizzatosi. E riapre “vecchie” questioni: l’ostilità degli Alleati verso i resistenti; la politica staliniana di apertura a Badoglio; la possibilità di legare i movimenti presenti al Sud, che ebbero un punto altissimo nelle Quattro giornate di Napoli, al «vento del Nord»; il ruolo della «svolta di Salerno» nel ristabilimento della continuità con il vecchio stato («fascistizzato»); ecc. Cortesi, che pur apprezza la ricerca di Pavone, se ne distanzia dunque su due punti: – distingue nettamente la Resistenza dalla guerra (la Resistenza, anche se ebbe come sua matrice la guerra, ne fu il suo «ripudio»); – ritiene impossibile una storia della Resistenza tutta orientata sulla «moralità» (termine chiave adottato da Pavone) fino a trascurare che «uomini, passioni e “moralità” siano costretti a vivere e subire i cicli della politica e i suoi atti di espropriazione».
[La letteratura da noi è ancora la vera storiografia dell’umanità?]
Quest’ampia incursione nel dibattito svoltosi negli anni Novanta tra gli storici che si occupano della Resistenza non sembri esagerata o fuori luogo in uno scritto come questo. Si giustifica infatti per due ragioni: – contestare l’autorevole opinione, divenuta però pigro luogo comune, che la letteratura sia la vera storiografia dell’umanità; – sollecitare nuove riflessioni meno limitative ed evasive sia sulla Resistenza sia su quel che essa produsse in letteratura (il «neorealismo»). Che la letteratura sia la vera storiografia dell’umanità è stato sostenuto – ricordo – da Enzensberger in un breve saggio intitolato Letteratura come storiografia ne Il menabò 9 (1966). Fu opinione ripetuta da Sciascia sulla scorta di Manzoni. La si ritrova in Adorno: «Le forme dell’arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti». Ma è davvero così? Ancora oggi? Credo che i risultati della storiografia delle Annalès abbiano spuntato molte delle frecciate che Enzenberger lanciava agli storici (positivisti) con cui polemizzava. E poi, sulla Resistenza chi ha lavorato di più e meglio? Chiedo provocatoriamente: opere come quella di Pavone o lavori degli storici che ho nominato non permettono di capire quel che di irrisolto e vivo è rimasto sotto il crollo della «grande utopia della Resistenza», la potenza e l’impotenza di quelle speranze e passioni storiche, quell’intreccio tra «gioia di fondo» e «ombre dense fino al dolore» (Pavone) meglio delle opere di Pavese, di Vittorini, di Calvino o dello stesso Fenoglio? Risponderei senza troppi tentennamenti di sì. Soprattutto se penso al blocco della riflessione sulla «letteratura della Resistenza» e, per contrasto, alla ricchezza e originalità della storiografia sulla Resistenza. Ma evitando di estremizzare, ritengo che sarebbe urgente e utile tornare a fare seriamente la spola tra certi risultati della recente storiografia sulla Resistenza e gli scrittori che ne diedero resoconti o narrazioni passionali (Fenoglio), meditati (Fortini; e non mi riferisco solo a Sere in Valdossola) o ambigui. E per quest’ultimo caso, penso soprattutto a Calvino: cosa si perde, infatti, della Resistenza nella proiezione fiabesca se non già di «gioco» con cui è resa ne Il sentiero dei nidi di ragno? E anche su Fenoglio, un autore ai suoi esordi censurato e oggi troppo sacralizzato dal nuovo clima “revisionista”, richiederei una riflessione critica più rigorosa e che non si limiti a censurare le domande mettendo sotto il naso l’eccellenza del risultato artistico dello scrittore di Alba. Come non vedere che nella sua opera, la Resistenza è soprattutto «guerra civile», trascurando il paradosso, messo a suo tempo in luce da Fortini e Luperini, che l’opera più intensa scritta sulla Resistenza si voglia o sia presentata come a-ideologica, punti assolutisticamente su dati esistenziali e vitalistici (l’amore, la morte, il caso, la violenza), dia tutto il campo a un eroe individualista, una reincarnazione di Robin Hood, ricacciando sullo sfondo la dimensione collettiva e politica della lotta partigiana e, per finire, abbia dei debiti indiretti «con la letteratura del tragicismo eroico europeo che è di destra, di destra fino al nazismo. Hamsun, per esempio, Jűnger» (Fortini)? Fenoglio taglia fuori aspetti ideali, politici, materiali della storia di quegli anni e della lotta partigiana, che la storiografia fin qui esaminata rilevanti. Questo non significa pretendere che un narratore sia preliminarmente uno storico, ma non cancellare quello che lui ha creduto giusto cancellare (o non ha potuto fare a meno di rimuovere). E chiedersi ad esempio: Una questione privata è davvero quel libro che, secondo il giudizio – ora quasi dogma – di Calvino, quella generazione di resistenti voleva fare? Se ho presenti le riflessioni storiche di Cortesi, esito a rispondere di sì. E se, con in mente gli stimoli della ricerca storiografica sulla Resistenza, tornassi al libro di Gabriele Pedullà e in particolare alla sua prefazione, devo dire che questo studio, che pur ha ripreso coraggiosamente la negletta categoria di «letteratura della Resistenza», non sfugge a limiti imputabili soprattutto alla presente scollatura fra ricerca letteraria e ricerca storiografica. Accetta, infatti, il luogo comune oggi dominante della Resistenza soprattutto come «guerra civile» e accoglie un’immagine della Resistenza quasi fenogliana sostanzialmente depoliticizzata: una scelta esistenziale che «ha a che fare con l’esperienza dell’essere gettati nel mondo». E, pur riconoscendo il non casuale legame tra neorealismo e Resistenza, liquida sbrigativamente il neorealismo come «ingenuo» – altro dogma dei letterati post-resistenziali – senza nemmeno più distinguere tra engagement e zdanovismo, o riprendere gli interrogativi non puramente letterari che allora si posero malgrado i limiti di quella poetica e le angustie ideologiche che ebbe alle spalle.
[Stralcio da una mia riflessione del settembre 2005 intitolata “Scrittori e Resistenza, ieri e oggi”]
Errata corrige
“che la storiografia fin qui esaminata rilevanti”= che la storiografia fin qui esaminata considera rilevanti
@ Ennio Abate, sono d’accordo con lei sull’importanza di mantenere la memoria della guerra civile italiana (continuerei a chiamarla così) e della Resistenza nella sfera pubblica – e la ringrazio di contribuire a farlo. E però vorrei dirle che la tradizione storiografica di sinistra delle “occasioni perdute” non è nuova né è convincente – Sassoon ha insistito sul suo carattere “mistico”, perché non è verificabile. Sarebbe già tanto capire cosa è successo nella storia – senza proiettarvi scenari immaginati a metà e cercare di indovinare “cosa sarebbe successo se…”.
E uno dei motivi della forza della narrativa di Fenoglio e Levi, per fare due esempi, è proprio questo: raccontano la qualità dell’esperienza che hanno vissuto (e che è stata così diversa nei due casi!), situandola nella contingenza della storia pubblica e delle storie di vita – sapere cosa si fa e perché lo si fa, ma solo fino a un certo punto; e non sapere cosa sarebbe successo poi.
@ Baldini
C’è un equivoco. Per capire “cosa è successo nella storia” (compito sia degli storici, che dei romanzieri, dei poeti e dei “comuni cittadini”) bisogna conoscere e valutare gli eventi. Operazione mai neutra o asettica, perché in essa intervengono – ma per tutti ! – ideologie, immaginari di partenza, fraintendimenti, metodologie o teorie rozze o raffinate.
A me non pare che gli storiografi, che lei definisce delle “occasioni perdite” o di carattere “mistico” (già i termini lasciano indovinare l’ideologia sua o di Sassoon…), non abbiano colto – diciamo – un pezzo di verità della Resistenza. E fin quando si imporrà negli studi e nell’uso pubblico della storia la visione forzosamente e apologeticamente unitaria e ottimistica (quella attuale e secondo me falsante prima dell’”arco costituzionale” o ora delle “larghe intese”, per essere chiaro), il loro pezzo di verità va salvaguardato, interrogato e non liquidato sbrigativamente, come se costoro fossero stati dei “profeti” che avevano le traveggole.
Del resto Claudio Pavone, che lei sembra approvare (“sono d’accordo con lei sull’importanza di mantenere la memoria della guerra civile italiana (continuerei a chiamarla così”) questo fa. Ha messo, infatti, in luce in quel moto storico tre dimensioni: una «guerra patriottica» contro i tedeschi per liberare il territorio nazionale; una «guerra civile» contro i fascisti; e una «guerra di classe» contro i padroni delle fabbriche e gli agrari che avevano finanziato lo squadrismo. Non si chiede come mai, anche dopo i suoi studi, si continui a esaltare (sempre più genericamente e a volte arrivando allo stravolgimento neocolonialista: vedi guerra in Libia in appoggio ai “resistenti”…) solo la prima, a tacere appena possibile sulla seconda e del tutto sulla terza?
Non sarà anche Pavone un “mistico” o un “profeta” sognatore, come Cortesi et alii?
E ancora: non vede quanto sia deleterio e *di parte*, anche in questo momento che stiamo vivendo, l’uso pubblico della Resistenza che tutti ci affratella (assieme ai nostri unici e soliti “liberatori” statunintensi)?
Non ho nulla contro Fenoglio (o Levi). Anch’essi dicono il loro pezzo di verità e io lo ascolto con rispetto e ammirazione. Ce l’ho, invece, con chi usa le loro opere per cancellare o zittire gli altri pezzi di verità, invece di metterli – come minimo – a confronto.
A babbo e nonno morto, si può dire questo: che l’unica Resistenza in nome della quale non ci si potrebbe e dovrebbe dividere è quella che non c’è stata, cioè a dire quella della nazione e dello Stato italiano contro gli eserciti nemici. I Savoia che credettero di salvare la nazione, lo stato e la dinastia con il voltafaccia dell’otto settembre, persero tutti e tre.
Sbagliammo a entrare in guerra. L’avessimo combattuta fino in fondo, fino alla sconfitta definitiva e alla resa senza condizioni come i tedeschi, avremmo patito forse più lutti e più sciagure, ma ci saremmo raccontati e ci racconteremmo meno storie su noi stessi e sul mondo.
@ CHI NON AMA IL SONNO DELLA RAGIONE
PER APRIRE SU LPLC (SE FOSSE POSSIBILE!) UNA DISCUSSIONE SERIA E PIÙ PROBLEMATICA SULLA RESISTENZA, RIPORTO QUESTO ARTICOLO DI ANDREA BERLENDIS DAL SITO “CONFLITTI E STRATEGIE” (http://www.conflittiestrategie.it/celebrare-lantifascismo-del-tradimento), SPERANDO CHE I RIFERIMENTI CITATI (LO STORICO QUAZZA E PASOLINI) NON SIANO LIQUIDATI COME “MISTICI”.
AFFIANCHEREI AL NOME DI PASOLINI, QUELLO DI FORTINI, CHE GIÀ IN “VERIFICA DEI POTERI” AVEVA ASSUNTO POSIZIONI CRITICHE VERSO UN CERTO ANTIFASCISMO AMBIGUO E ANNACQUATO.
E AGGIUNGO LE MIE RISERVE PERSONALI SULLA CRITICA ALLE PRIVATIZZAZIONI, ACCENNATA ALLA FINE DELL’ARTICOLO, PERCHÉ FATTA DA UN PUNTO DI VISTA NOBILMENTE “PATRIOTTICO” (CFR. DISTINZIONI DEI FILONI DELLA RESISTENZA FATTE DA CLAUDIO PAVONE DA ME RIPORTATE NEL PRECEDENTE COMMENTO), MA CHE PARE OGGI NOSTALGICO E TARDIVO, ESSENDO PURTROPPO I BUOI DA TEMPO GIÀ SCAPPATI DALLA STALLA “NAZIONALE” :
Nel film di Dino Risi ‘Caro papà’, del 1979, Albino Milozza (alias Vittorio Gassman) l’imprenditore che vota a sinistra, ma ha fatto i soldi appoggiandosi ed intrallazzando con i vari governi Dc, vive uno un rapporto di continua tensione con il figlio Marco, poiché quest’ultimo simpatizza con gli ambienti della contestazione contigui alla lotta armata. L’ennesimo acceso confronto verbale si svolge nei seguenti termini:
Padre: “All’età tua io ero in montagna a sparare ai tedeschi!“
Marco: “Ci avete rotto i coglioni con i partigiani e con la resistenza … siete diventati peggio dei garibaldini … con una retorica che fa schifo!“
Padre: “Adesso basta! Guarda che non ti permetto di insultare il mio passato.”
Marco: “E il tuo presente fa ancora più schifo del tuo passato.”
Credo che questo ‘dialogo’ esprima adeguatamente la categoria storico-politica coniata da Gianfranco La Grassa, di ‘antifascismo del tradimento’. Con essa, egli ha voluto sia riferirsi al contesto storico 1943-45 ma anche alla trasformazione del Pci, iniziata dalla fine degli anni Sessanta, che si è ideologicamente manifestata con l’assunzione di tale tipo di antifascismo—analogo a quello savoiardo-badogliano—che ricercava ed accettava la servile sottomissione agli Stati Uniti. Segnalo qui che, forse, un antecedente prossimo del concetto di ‘antifascismo del tradimento’ lo si può ritrovare nell’ipotesi di lavoro—casualmente non portata avanti da altri?—che lo storico Guido Quazza (presidente dal 1972 dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia), formulò a metà anni ’70. Questa ipotesi sosteneva la compresenza di tre tipi di antifascismo.
Il primo, denominato ‘antifascismo politico’, “tempratosi nel ventennio e forte di una ricca esperienza politica ma anche carico del peso di tante sconfitte e di tanti contrasti, nonché del settarismo e dell’estraniazione rispetto alla realtà intanto maturata nell’Italia dominata dal fascismo”.E’ “l’antifascismo organizzato: l’antifascismo dei pochissimi coraggiosi o eroici combattenti della generazione anziana e di quella di mezzo, dei processati, confinati, carcerati o esuli.”(1)
Il secondo, definito come ‘antifascismo esistenziale’, “nato dalla quotidiana e drammaticamente vissuta esperienza del divario fra le promesse del regime fascista e la realtà delle sue disfatte, oppure dalla continua sofferta partecipazione nelle fabbriche e nei campi alla lotta di classe”. E’ “l’antifascismo sempre meno passivo e in molti casi attivo, con le armi o con le lotte, di giovani dei ceti medi, operai e contadini, al quale dà una carica decisiva d’urto, dopo l’8 settembre, la spinta rivendicativa della classe operaia accesasi e rimasta viva dal marzo attraverso grandi scioperi”(2).
Ma Quazza osservava che “Accanto a questo primo e secondo antifascismo, dai quali nasce la lotta armata, ce n’è un terzo, del quale è necessario tener conto per cogliere la debolezza della spinta innovatrice della resistenza se la si prende come fenomeno complessivo, unitariamente considerato”. Questo terzo tipo di antifascismo, lo chiama ‘antifascismo del capitale’ o “antifascismo ‘dei fascisti’, cioè l’antifascismo di quelle forze che, responsabili principali dell’ascesa del fascismo e del suo consolidamento—grande capitale, monarchia, centri di potere dello Stato, vertice della chiesa—, l’abbandonano al primo sentore dell’inevitabile disfatta e, dopo aver compiuto il colpo di Stato, tutto interno alla classe dominante, del 25 luglio ’43, penetrano nella resistenza non certo per combattere, salvo pochissime eccezioni personali, ma per condizionarla con strumenti organizzativi e denaro e alleanze internazionali ed evitarne appunto possibili esiti di rivoluzione.”(3)
Lo storico ne deduceva che “un’ipotesi di lavoro seria su Resistenza e storia d’Italia non può evitare di misurarsi su quest’intreccio” (4), per cogliere, proseguiamo noi, il perché questo terzo tipo di antifascismo sia stato vincente, prima negli anni 1943-’45 e poi sia stato vincente anche politicamente ed ideologicamente anche nel Pci.
Sempre verso la metà degli anni Settanta, Pasolini intuì lucidamente che l’antifascismo, in senso storico specifico era finito: “Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. […] Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. Insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo.”(5)
Noi possiamo e dobbiamo andare oltre queste pur notevoli, in primis per gli anni in cui furono formulate, considerazioni. Quello che Pasolini intravedeva, era l’avvento di un antifascismo vuoto e retorico, qual è appunto l’antifascismo del tradimento, in quanto forma ideologica adeguata—insieme con il più evanescente eurocomunismo—negli anni del cosiddetto ‘compromesso storico’, in cui in realtà si consumava il passaggio di campo (geo)politico del Pci. Tale contenitore nella sua indeterminatezza apparente, era talmente flessibile da essere successivamente poi, facilmente reimpiegato in accostamento e sovrapposizione all’antiberlusconismo (Berlusconi=fascismo, Antiberlusconismo=antifascismo!!!).
Per questo il 25 aprile, da memoria storica della resistenza—nella sua parte prevalente composta dai comunisti—quale ‘fenomeno che ha tentato dei cambiamenti sociali’ è si è trasformata in celebrazione della Liberazione, trasfigurazione ideologica della occupazione Usa. In questo periodo, il termine Liberazione assume il senso di azione che libererà l’Italia dalle sue aziende strategiche nei settori di punta, libererà l’Italia quindi dal disporre di autentici margini d’azione autonoma e con ciò la libererà dal grave fardello dell’avere ancora una qualche dignità. A quel punto la Liberazione sarà completa e la festa ci sarà stata fatta per intero, saremo completamente sottomessi agli Usa. Nelle nefaste parole del premier in pectore, Enrico Letta: “bisogna cominciare a mettere nel mirino ulteriori privatizzazioni di pezzi di Eni, Enel, Finmeccanica”(6)
1 Quazza ‘Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca.’ Feltrinelli editore pag. 115
2 Quazza ‘Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca.’ Feltrinelli editore pag. 115-116
3 Quazza ‘Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca.’ Feltrinelli editore pag. 116
4 Quazza ‘Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca.’ Feltrinelli editore pag. 116
5 Pasolini ‘Scritti corsari’ Garzanti editore pag. 284-285