di Lorenzo Mari

 

[E’ uscito da poche settimane per Carocci Gli attrezzi delle Muse. Itinerari fra poesia e musica dalla modernità all’estremo contemporaneo, a cura di Carlo Tirinanzi De Medici. Proponiamo uno dei saggi che compongono il volume, scritto da Lorenzo Mari].

 

[Il 6 agosto 2020, Tempest ha comunicato sui suoi profili social la sua identità di genere non-binaria, il suo nuovo nome (Kae Tempest), e la preferenza per i pronomi they/them, accettando, al tempo stesso, che ci si riferisca alla sua opera anteriore al 2020 come a quella di Kate Tempest, con l’uso del genere femminile (Beaumont-Thomas, 2020). Anche questo capitolo è stato scritto e consegnato prima di quella data.]

 

 

Screaming “brand new”, when they just sanitized the old shit.

Black Star, Thieves in the Night

 

 

A seguito di una carriera poco più che decennale, Kate Tempest1 è ad oggi un’artista e performer dal prestigio internazionale, con una produzione letteraria, musicale e teatrale già vasta e consolidata, ulteriormente confermata dall’ottenimento nel 2013, a ventotto anni, del Ted Hughes Award (per Brand New Ancients; successivamente pubblicato come cd di spoken poetry dalla stessa casa editrice nel 2014). Per un singolare paradosso, tuttavia, il processo di acquisizione di capitale culturale, legato, in questo caso, al prestigioso riconoscimento letterario ricevuto (Bourdieu, 1979), si è andato sovrapponendo all’emersione di critiche sempre più aspre nei confronti della sua opera, culminate nel saggio della poetessa Rebecca Watts The Cult of the Noble Amateur, apparso sulla “pn Review” nel 2018.

Che un’opera letteraria, musicale e/o intermediale possa essere oggetto di critiche feroci non è di certo una novità in sé, ma che tali critiche si concentrino sul «dilettantismo», per quanto «nobile», dell’autore proprio nel momento in cui un premio letterario ne sancisce una prima, per quanto parziale, canonizzazione può fornire una plastica rappresentazione di varie questioni teorico-critiche. Tra queste, spicca la conflittualità, variamente declinata, che è intrinseca alla ricezione di un’opera inter-, cross- o transmediale (Kinder, McPherson, 2014) e, in particolare, di una che si muova sul confine tra poesia e canzone: per dare conto di quest’ultimo punto, si presterà particolare attenzione, in questa sede, alla ricezione italiana dell’opera – in particolar modo, della produzione poetica e musicale – di Kate Tempest come possibile banco di prova del processo di canonizzazione in atto, nonché dei suoi limiti.

 

In prima battuta, tuttavia, sembra opportuno ritornare all’intervento di Watts allo scopo di precisare meglio i contorni del «culto del/della nobile dilettante» contro il quale si rivolgono i suoi strali polemici. Tale culto riguarda una «coorte di giovani poete» – tra le quali Watts cita Rupi Kaur, Hollie McNish e Kate Tempest, dedicando la sua analisi principalmente alle prime due autrici – «che oggi sono elogiate dall’establishment poetico per la loro “onestà” e “accessibilità”» (Watts, 2018).[1] Qualità, queste ultime, che secondo Watts si traducono, a livello formale, in una poesia fortemente autobiografica e non di rado sentimentalista – «una forma ingenua [artless, con evidente riferimento al concetto e campo semantico dell’“arte”]», per Watts (ibid.) –, e, a livello di mercato editoriale, in un boom di vendite:

Pur restando distanti da Kaur in termini di vendite, Kate Tempest e Hollie McNish sono le sue equivalenti nel Regno Unito, che hanno saputo portare il loro significativo e apparentemente atipico seguito nello spazio della poesia appoggiata dall’establishment. Entrambi hanno ricevuto il Ted Hughes Award for New Work in Poetry. Attraverso di loro, l’establishment – intendendo con questo termine le loro case editrici, gli editor, i recensori e gli organizzatori dei premi letterari – dimostra di credere nel fatto che la poesia si debba adattare ai cambiamenti nel rapporto tra il pubblico e la produzione letteraria. La stessa McNish ha dichiarato che il suo “memoir poetico” Nobody Told Me ha vinto il Ted Hughes Award «non per la qualità della scrittura, ma per la direzione che ha preso la poesia» (ibid.).

 

In questo passaggio, si può notare come la stessa critica dell’establishment letterario da parte di Watts non sia esente da una certa vena populista, che non si oppone e anzi ben si integra, a livello sociologico, con quel «populismo estetico» denunciato da Watts in Kaur, Tempest e McNish.[2] Attorno a questa ambivalente funzione del populismo all’interno del sistema letterario gravita anche il fondamentale interrogativo posto da Watts: «Dovremmo giudicare in modo più favorevole il risultato, preferendo gli sforzi del noble amateur alle conquiste di chi ha già raggiunto la propria maturità artistica?» (ibid.).

È proprio l’uso dell’ossimoro noble amateur a manifestare il rischio di mistificazione ideologica intrinsecamente connesso al discorso populista di Watts; quest’ultimo, inoltre, risulta di difficile applicazione, per quanto riguarda la «coorte di giovani poete», proprio al caso di Kate Tempest. A questo proposito, non si tratta tanto di far valere il peso della rete di figure e competenze professionali attivata dalle pubblicazioni di Tempest in un ambito decisamente mainstream – tra gli altri, il romanzo The Bricks that Built the Houses (2016) è stato pubblicato da Bloomsbury Circus, mentre l’ultimo disco, The Books of Traps and Lessons (2019) è uscito per l’etichetta American Recordings, controllata da Sony Music –, bensì di sottolinearne il profilo compiutamente intermediale. È un dato, quest’ultimo, che non emerge molto nelle recensioni nazionali e internazionali dell’opera di Tempest,[3] dedicate più spesso a una singola opera e al suo preponderante ambito mediale di riferimento che non alla discussione di una intermedialità – tra poesia, romanzo, hip hop e spoken word – che non di rado ha anche i crismi della crossmedialità, ossia della conduzione di un prodotto mediale attraverso molteplici canali, allo scopo di moltiplicarne la capitalizzazione.

 

A questo proposito, sembra opportuno ricordare una recente analisi di Max Giovagnoli (2011) per cui la distinzione tra la crossmedialità, più legata all’elaborazione artistica, e la transmedialità, più vicina alle modalità di produzione di grandi industrie culturali (come quella di Hollywood, nel caso analizzato da Giovagnoli), sia tutto sommato sfumata e questo abbia portato, ad esempio, all’assorbimento della distribuzione multi-piattaforma, tipicamente transmediale, in un territorio comune a quello della crossmedialità (ivi, p. 11). Stabilmente presente nelle librerie, nei negozi di dischi, nel web (YouTube, Spotify ecc.) e attiva nelle performance dal vivo (performance, a seconda delle occasioni, di poesia, spoken word e/o hip hop), la produzione di Kate Tempest si può dunque collocare in un territorio instabile tra intermedialità, crossmedialità e transmedialità, all’interno del quale le oscillazioni tra una definizione e l’altra richiedono non soltanto di essere riconsiderate in ogni occasione, ma anche di essere misurate nell’arco della sua intera produzione.

 

Si prenda ad esempio il caso di Brand New Ancients, insignito del Ted Hughes Award per la poesia e analizzato da Stephe Harrop (2018) con una prospettiva critica analoga a quella che si propone in questa sede. Harrop utilizza le categorie di fixed (fisso) e flowing, oppure unfixed (mobile) precedentemente proposte da Tim Carroll a proposito della trasposizione dell’Odissea omerica messa in scena dalla sua compagnia teatrale, The Factory, a partire dal 2012: agli elementi fissi di questa traduzione intersemiotica (la presenza di alcuni snodi narrativi, ad esempio, senza i quali l’ancoraggio al poema omerico risulterebbe di difficile comprensione) si alterna- no elementi più mobili (riguardanti l’elaborazione performativa di ciò che viene narrato). Sia per Carroll sia per Harrop non vi è gerarchia tra le due categorie, bensì complementarità nella costituzione di un singolo processo creativo (ivi, p. 263).

 

In questa prospettiva, gli esempi di elementi mobili analizzati da Harrop (2013) riguardano principalmente le digressioni, gli a parte teatrali e i commenti che Tempest rivolge al pubblico durante la performance, generando una sorta di feedback loop mirato a mantenere costante il coinvolgimento degli spettatori e ad abbattere la cosiddetta “quarta parete” prodotta dal dispositivo di teatralizzazione del testo. «Fourth wall… fuck that» (Quarta parete… ma vaffanculo) è, in effetti, uno dei commenti registrati da Harrop (2018, p. 269) durante la performance al Lyric Hammersmith di Londra nel 2014; ancora più significativa è invece un a parte in cui Tempest si è prodotta nel corso di uno spettacolo realizzato presso il Royal Court Theatre nel novembre 2013: «I don’t want you to feel like you have to pretend you’re not here» (Non voglio che sentiate di dover far finta che non siete qui) (ibid.). Oltre a contestare le pratiche di fruizione tipiche del contesto nei quali si trova di volta in volta a eseguire la propria performance – non di rado, teatri di grande prestigio nazionale e internazionale, dove il pubblico “finge di non essere presente”, annullando la propria presenza in favore dell’integralità dell’opera teatrale o musicale –, questi intermezzi di Tempest servono anche a rafforzare un principio della poetica autoriale, rintracciabile in un’intervista alla poeta, raccolta da Justine McConnell sempre nel 2014: passando dalla considerazione di sé come autore a quella di performer, sulla base, tra l’altro, di qualcosa che esiste già (McConnell, 2014, p. 199), Tempest dichiara di aver preso coscienza della propria capacità di esibirsi in una performance «without the fact that you wrote it getting in the way, so you can change it if you want to» (senza che si frapponga il fatto di averlo scritto, di modo che, se si vuole, si può cambiare) (ibid.). Appare significativo che quest’ultimo passaggio risulti implicitamente citato da Ivan Callus (2015, p. 254) in Literature in Our Time, or Loving Literature to Bits: «The trouble with poetry is that it can get in the way of things» (Il problema con la poesia è che può frapporsi alle cose).[4] E ancora: «Poetry vitalises, but life must be interrupted for poetry to do so. Poetry and its contradictions take up too much time. So fuck it» (La poesia dà vita, ma la vita dev’essere interrotta affinché la poesia lo possa fare. La poesia e le sue contraddizioni occupano troppo tempo. E allora vaffanculo; ibid.).

 

Con ogni probabilità, tuttavia, il paradosso dispiegato da Callus – “La poesia dà vita, ma la vita dev’essere interrotta affinché la poesia lo possa fare” – non rappresenta appieno la poetica autoriale di Tempest, poiché scambia un luogo tematico per un principio organizzativo e di poetica che è insostenibile, nella sua completezza, all’interno di una produzione performativa e intermediale: le pubblicazioni in libro di Tempest, infatti, non risultano soltanto d’ostacolo alla performance (in quanto non solo la fonte omerica, ma anche lo stesso libro di Tempest, Brand New Ancients, devono subire una serie di trasformazioni performative), ma costituiscono, allo stesso tempo, un tassello ineliminabile nella costruzione inter- e cross-mediale della sua opera (banalmente, senza la pubblicazione in libro, Tempest non si sarebbe riconosciuta come autrice, prima ancora che come performer). In apertura del libro Let Them Eat Chaos (2016), Tempest giunge a una definizione sintetica di questa relazione, ricordando come il libro “sia stato scritto per essere letto ad alta voce”: «This book is written to be read aloud» (Tempest, 2017, p. 7).

 

Come ricordato da Harrop (2018, p. 272), si tratta di una dichiarazione che evidenzia una chiara affiliazione alla nozione di «voiced text» già avanzata da John Miles Foley (2002, p. 43) e riguardante tutti quei testi che, all’atto della loro scrittura, prefigurano già una versione performativa. Ne deriva una relazione mobile e in continua evoluzione tra performance e tradizione: se Foley (ivi, pp. 130-1) la declina in termini aforismatici – «Performance Is the Enabling Event, Tradition is the Context for that Event» (La performance è l’evento che consente l’attivazione, la tradizione è il contesto di quell’evento) –, Harrop (2018, p. 273) interviene a specificare meglio i contorni della “tradizione” così chiamata in causa, sostituendo l’erronea idea di una rielaborazione diretta o di un recupero dell’oralità “omerica” con il portato, più recente, dei generi del rap e della spoken-word poetry. Basandosi su un precedente saggio di Barbara Graziosi (2002) nel quale si critica quel «mito omerico» che, in ogni tempo, ha condizionato la ricezione e rielaborazione di Iliade e Odissea, fino ai nostri giorni,[5] Harrop individua tale «reinvenzione della tradizione» (Hobsbawm, Ranger, 1982), nonché i suoi limiti, anche in Kate Tempest.

 

S’illumina così la parziale contraddizione insita nella definizione proposta da Emily Greenwood: l’etichetta di «multimodal twenty-first century bards» (bardi multimodali del ventunesimo secolo), coniata da Greenwood a proposito di Memorial (2011) di Alice Oswald e di Walking Home: A Poet’s Journey (2012) di Simon Armitage (cfr. Greenwood, 2018, pp. 275-88), coglie certamente i caratteri di multimedialità – nel suo rapporto mobile con le categorie, adottate qui, di inter- e crossmedialità – ma propone una catacresi iperbolica ed eccessivamente sintetica del rapporto tra performance contemporanea e tradizione poetica (intesa come avente inizio con i bardi medievali o gli aedi della cultura greca classica). Soltanto con una ri-articolazione più approfondita di tale nesso – come quella offerta da Harrop, con la sua analisi delle digressioni, degli a parte e dei commenti, nonché di tutti gli strumenti espressivi messi a disposizione dal rap e dalla spoken-word poetry – si possono precisare meglio i contorni dell’operazione inter- e crossmediale della poesia performativa contemporanea, e quindi del caso di Kate Tempest – chiarendo, infine, come i suoi tratti fondamentali siano “professionali”, e non “amatoriali”.

 

È a partire da queste annotazioni preliminari che si può ora inquadrare la traduzione e ricezione italiana dell’opera di Kate Tempest. Vi è, innanzitutto, un dato apparentemente banale, ma non del tutto scontato per un’autrice della sua generazione: gran parte della sua opera è stabilmente disponibile nelle librerie e nei negozi di musica italiani,[6] mentre piattaforme come Amazon, YouTube o Spotify consentono di accedere online alla produzione musicale non distribuita in Italia[7] e alle registrazioni delle performance dal vivo – consentendo, quindi, anche al pubblico italiano una fruizione che si può muovere agevolmente tra i vari media. Tra le varie traduzioni disponibili, sembra opportuno riflettere sul caso paradigmatico di Let Them Eat Chaos/Che mangino caos, pubblicata nel 2017 da e/o nella traduzione di Riccardo Duranti. In un’intervista rilasciata alla redazione del sito www.pangea.news e pubblicata online il 15 gennaio 2018, Duranti ha risposto alla domanda: «Quali sono state le maggiori difficoltà nel trasporla in lingua italiana?» con una significativa dichiarazione:

 

Rispettare la sonorità, la complessità della tessitura musicale che lei introduce nei suoi scritti. La Tempest ha un ritmo ipnotico che è difficile da rendere. Usa molto le rime, la sincope, le ripetizioni. Io, devo confessare, l’ho tradotta prima di sentirla ma, dopo l’esperienza, rifarei tutto da daccapo. C’è una dimensione sonora, di cui ho tenuto conto fino a un certo punto. L’importante, per me, era trasmettere il senso, ma la trama acustica richiederebbe ben altri sforzi traduttivi (Duranti, 2018).[8]

 

Procedendo nell’analisi della traduzione e della sua ricezione in lingua italiana, non ci si può esimere, dunque, da questa “dichiarazione del traduttore”, comparabile ad una nota del traduttore pubblicata successivamente alla pubblicazione del libro (nel quale, invece, non appare alcun apparato paratestuale riconducibile all’intervento traduttivo). Duranti sottolinea, infatti, la «complessità della tessitura musicale» del testo, dichiarando di aver preferito la «trasmissione di senso» a quella della «trama acustica» e di non aver «sentito» alcuna performance dal vivo del testo prima di procedere alla traduzione.

Soprassedendo sulla sua definizione sintetica della traduzione di Tempest come «trasmissione di senso» – con una semplificazione dovuta, con ogni probabilità, alla forma dell’intervista breve per la pubblicazione online –, sembra opportuno concentrare l’attenzione sull’implicita affermazione di scarsa traducibilità della «tessitura musicale» del testo, altrimenti definibile, e altrove definita, come la «partitura vocale» (Frasca, 2005) che è tipica della poesia orale. Se, grazie agli studi di metrica comparata, sono noti i problemi nella traduzione italiana degli schemi metrico-ritmici della poesia in lingua inglese, che pure costituiscono l’ossatura della partitura vocale di Tempest (Duffell, 2008, pp. 30-50), appare in ogni caso significativo il fatto che il traduttore italiano di Tempest rivendichi apertamente la propria scelta di «trasmissione di senso», intendendola come reciprocamente esclusiva rispetto ad una versione più orientata verso i canoni della performatività. Sul perno di questa alternativa si muove anche la ricezione italiana di Tempest in ambito poetico, dividendosi piuttosto nettamente tra l’impressione di una traduzione migliorativa (Fantuzzi, 2019) e quella che mette in luce una serie di scelte peggiorative, se non anche, in taluni casi, scorrette (Galli, 2019).

 

Tutte queste interpretazioni, in ogni caso, insistono su un punto di partenza comune, ossia la difficoltà teorico-pratica nel tentativo di tradurre «un testo scritto», come programmaticamente indicato dall’autrice-performer, «per essere letto a voce alta». Duranti risolve questa impasse tendendo verso una soluzione per certi versi analoga a quella della traduzione di servizio, demandando poi al testo a fronte la possibilità, per il lettore italiano anche anglofono, di recuperare il fondamentale nesso con la performance – sempre realizzata in lingua inglese – di Tempest, dal vivo o mediante una delle registrazioni video che sono disponibili, ad esempio, sulla piattaforma YouTube. Si tratta, dunque, di un’opzione che consente – pur se “passivamente”, in un certo senso – un legame con la produzione prevalentemente performativa rivendicata da Tempest; tale scelta, inoltre, non preclude del tutto la possibilità materiale di una diversa traduzione – opzione avanzata soprattutto nell’ambito della poesia orale e della poesia con musica italiana (Galli, 2019) – che tenga conto delle qualità performative del testo, addivenendo così, e più specificamente, alla versione d’autore (o anche, se si parla di poesia in musica, alla cover dei vari brani musicali di Tempest). In quest’ultimo caso, tuttavia, il legame apparentemente più diretto con la performance di Tempest verrebbe in realtà ad essere complicato da una mediazione ulteriore: una versione d’autore o una cover renderebbero certamente possibile una performance in lingua italiana basata su un esercizio di traduzione maggiormente strutturato e complesso, ma questo potrebbe creare anche una serie di chiare divergenze formali con le performance della stessa Tempest – soprattutto, con il suo specifico intreccio di partitura vocale e partitura musicale – con le quali, invece, la traduzione di Duranti mantiene un nesso forte, anche se “passivo”.

 

Se questo riguarda la scelta del macrogenere della traduzione, la ricezione della traduzione italiana di Tempest ha inteso sottolineare anche la peculiarità delle singole scelte traduttive adottate da Duranti. Se infatti si tiene conto del registro informale e non di rado descrivibile nei termini del turpiloquio – come si può già apprezzare nelle citazioni precedenti – che è proprio tanto dei testi di Tempest quanto, e forse soprattutto, della loro realizzazione performativa, alcune scelte traduttive operate da Duranti risultano variamente discusse e criticate dai suoi lettori, principalmente a causa della frequente adozione di un registro non sempre allineato a quello usato nel testo inglese, risultando a tratti più formale, se non anche più aulicizzante. È il caso, ad esempio, del doppio titolo Let Them Eat Chaos/ Che mangino caos, nel quale, secondo il poeta italiano e condirettore della rivista “Atelier” Matteo Fantuzzi (2019), «l’assenza del corrispettivo italiano di “let” porta a una maggiore potenza, forza, rigore e una minore idea di possibilità». Se questa scelta appare migliorativa agli occhi di Fantuzzi, occorre d’altra parte sottolineare come la traduzione del titolo non presenti molte possibili alternative e come sia, più nello specifico, il mantenimento del doppio titolo a garantire un legame forte con la produzione testuale e performativa in lingua originale.

 

Di diverso peso risultano altri interventi traduttivi di Duranti che convergono verso un registro più chiaramente informale, ma calibrato verso un gergo giovanile démodé per il secondo decennio del XXI secolo: «bad girls for drinking with», ad esempio, è tradotto con «ragazzacce con cui fare bisboccia» (Tempest, 2017, pp. 28-9); «beach-babe» è tradotta con «pupa in bikini» (ivi, pp. 48-9); o ancora «glamorous rappers» è reso in traduzione con «rapper strafichi» (ibid.). A tal proposito, Eugenia Galli, poeta orale appartenente al collettivo di poeti e performer Zoopalco, ha rilevato, non senza una punta d’arguzia: «Forse sarebbe stata utile la consulenza di un millennial» (Galli, 2019).

Un altro intervento traduttivo che può essere utilmente discusso riguarda la scelta di tradurre i versi: «It was our boats that sailed, / killed, stole and made frail / it was our boots that stamped it was our courts that jailed / and it was fucking banks that got bailed», usando, per le navi imperiali descritte da Tempest, il termine «barconi» (Tempest, 2017, pp. 150-1) – espressione inflazionata e quasi opacizzata dall’uso nei media italiani per parlare dei flussi migratori nel Mediterraneo. La scelta crea inoltre una falsa corrispondenza con le «boats» tradotte come «barconi» nei versi di poco precedenti: «The boats full / The boats sinking / a mile off shore» (ivi, p. 144). Vi è, infine, il cambio di genere grammaticale nella traduzione dei versi: «Picture the world. // Older than she ever thought that she’d get. / She looks at herself as she spins» (ivi, p. 12), resi come segue: «Immaginate il mondo. // Più vecchio di quanto avrebbe mai pensato di diventare. / Si guarda mentre ruota» (ivi, p. 13). L’imprecisione della traduzione di «world» con «mondo», quando invece il successivo pronome «she» suggerirebbe la traduzione con «terra», è stata rilevata sia da Galli (2019) sia da Marcelli (2019), i quali ne parlano come di un vero e proprio «errore di traduzione».

 

A ragione di questa analisi – che comunque non inficia la bontà dell’operazione traduttiva complessiva, così come sottolinea, tra gli altri, Fantuzzi (2019) – si può ribadire il fatto che l’opzione di affidare a un poeta orale italiano la versione d’autore di almeno un libro di Tempest (anche Hold Your Own/Resta te stessa è stato tradotto da Riccardo Duranti: Tempest, 2018) resta a tutt’oggi inesplorata. È questa mancanza di possibili comparazioni con una diversa esperienza di traduzione della poesia di Tempest che si riverbera poi sulla ricezione dell’intera opera dell’autrice-performer in ambito italiano. Alla luce di una traduzione come quella di Duranti, intesa come «trasmissione di senso» – definizione che ha, tra le sue possibili valenze implicite, l’immediatezza d’esecuzione e la velocità nella pubblicazione –, è infatti possibile comprendere che Tempest sia stata generalmente considerata come esponente di una sorta di mainstream poetico transnazionale (e forse anche artistico in senso lato, considerando ad esempio i dati di vendita di Tempest, molto alti se paragonati a quelli dei poeti e performer italiani).

 

La categoria del mainstream si rivela di indubbia utilità nel tentativo di collocare Tempest in una sorta di canone dei generi musicali con i quali si sono ibridate, nel secondo Novecento, le pratiche poetico-performative. Il primo riferimento, in questo senso, può essere individuato nell’opera del poeta e musicista afroamericano Gil Scott-Heron (1949-2011), alla quale l’autrice stessa ha spesso reso omaggio.[9] Prima di approfondire il rapporto con Gil Scott-Heron sembra opportuno, in ogni caso, annotare anche le altre influenze poetico-musicali ravvisate nella produzione di Tempest. Nell’ascolto dell’album Let Them Eat Chaos (2016), il poeta orale sardo Alberto Masala (2019) ha ad esempio individuato la rielaborazione, spesso pedissequa, delle sonorità già esplorate, negli anni Ottanta del Novecento, da Laurie Anderson – fatta eccezione unicamente per il vocoder, strumentazione che resta peculiare della produzione di Anderson, ad esempio nell’album Big Science (1982).[10] Se Anderson, attiva a partire dal decennio successivo a quello degli esordi di Scott-Heron, si presenta dunque come possibile anello di congiunzione e luogo di mediazione tra lo stesso Scott-Heron e Kate Tempest, si potrebbe forse ipotizzare una genealogia tutto sommato lineare nella storia dello spoken anglosassone del Novecento. Una simile considerazione, però, implica un certo “classicismo della performance” – dato che complica ulteriormente il nesso tra performance e tradizione sottolineato da Foley – e giustifica letture critiche come quella di Masala (2019), per il quale «l’esecuzione di Tempest è scolastica e al tempo stesso ineccepibile», ma anche quella del poeta italiano di stanza a Parigi Gabriele Stera (2019), per il quale in Tempest non vi è alcuna novità perché «nulla si muove nel flow né nelle strumentali». Questi, inoltre, propone di collocare con maggiore precisione Kate Tempest anche nel panorama poetico, musicale e performativo contemporaneo, identificandone la produzione come una sorta di «via di mezzo tra il conscient-rap (Ghostpoet, Grand Corps Malade, Akua Naru ecc.) e l’arringa-monologo tipica del global-slam».[11]

 

Affiora, in questo giudizio, un interesse per la dimensione politica dell’opera di Tempest, che può essere meglio chiarita, nella sua ricezione italiana, riprendendo le fila del discorso a partire dal riferimento a Gil Scott-Heron. Nell’analisi di Fantuzzi (2019), infatti, «il paragone tra i dischi di Gil Scott-Heron e l’attuale traslazione italiana è improponibile» poiché attualmente, in Italia, non esiste un referente artistico per una qualsiasi collettività sociale che sia paragonabile al ruolo svolto da Scott-Heron per la «comunità […] afroamericana degli anni ’70, né esiste un luogo simile al quartiere di Harlem degli anni ’60». Su questa interpretazione, peraltro non scevra da semplificazioni,[12] le opinioni sono non di rado assai divergenti. Stera (2019) ha osservato, ad esempio, quanto segue:

 

Gli orsi polari stanno morendo, i bambini muoiono di fame, le donne si fanno sfruttare, i ricchi sono ricchi, la gente si sfascia di ketamina e l’Europa è persa. Questo insomma è pienamente condivisibile, non aggiunge nulla al buzzfeed del giorno, ci mette al corrente (in quattro quarti) di evidenze ampiamente consensuali. Quelle stesse in cui un’ampia fetta di giovani (chiamiamoli hipster o bobo) si riconosce, e sulle quali costruisce un’etica prêt-à-porter che serve da scudo contro il più becero mainstream, ma anche contro le prese di posizione più radicali (per forza di cose meno orecchiabili, meno leggibili, poiché più dense e meno univocamente ricevibili). Tempest è quindi a mio avviso la propaggine del mainstream che si estende a coprire una fetta di mercato che vuole pensarsi diversa, cosciente, in lotta.

 

Il poeta applica questa analisi – aggiungendo anche un interessante accenno al complesso multimediale dell’opera di Tempest, spesso trascurato – al caso di Europe is Lost, traccia di Let Them Eat Chaos il cui testo si ritrova nel libro omonimo (Tempest, 2017, pp. 40-55):

 

Una voce di donna, sveglia, ribelle, intensa e arrabbiata, che elenca la sfilza delle miserie del nostro continente accompagnate da un video epilettico che tanto si addice all’attuale regime d’attenzione, così come si sposa con l’estetica da fine del mondo mediatica. Se però si volesse uscire dall’aneddotico cahier des doléances, e mettere un orecchio nel mondo del non identico, un pezzo che tratta le medesime questioni in maniera infinitamente più interessante già esiste. È del 2001, si chiama “L’Europe”, e chiude il più bel disco dei Noir Désir (Des visages, des figures), e oltre ad essere un capolavoro musicale, è anche un meraviglioso esempio di poesia in musica (Cantat + Brigitte Fontaine) (Stera, 2019).

 

Anche senza entrare nel merito della comparazione,[13] sembra opportuno osservare come la produzione poetico-musicale e video riferibile all’opera di Tempest sia giudicata al tempo stesso viziata di passatismo dal punto di vista dell’estetica letteraria (in quanto «aneddotico cahier des doléances») e di proiezione nel futuro attraverso l’estetica video («estetica da fine del mondo mediatica»). In questo modo, emerge una particolare declinazione del mainstream cui è costantemente ricondotta l’opera di Tempest in ambito italiano, declinazione che è paradigmaticamente rappresentata, nelle parole di Stera, da una fruizione video «che tanto si addice all’attuale regime d’attenzione». Logica conseguenza di questa analisi di Stera è allora l’individuazione, in Tempest, di una relazione formalmente disequilibrata e politicamente priva di una qualsiasi trascendenza rispetto al proprio presente storico – conclusione diametralmente opposta a quella di Franco Palazzi (2019, pp. 6, 198) in un saggio dall’impostazione filosofico-politica che riporta in esergo e in conclusione questi versi di Tempest, facendone quindi emblema dello Zeitgeist occidentale degli ultimi anni:

The tragedy and pain

of a person that you’ve never met is present in your nightmares,

in your pull towards despair

The sickness of the culture and the sickness in our hearts is a sickness that’s inflicted by the distance

that we share (Tempest, 2017, pp. 148, 150).

Tornando al giudizio di Stera, risulta significativo anche il suo uso della definizione di «poesia in musica», esplicitamente adottata nei confronti di L’Europe dei Noir Désir e parallelamente negata a Europe is Lost di Kate Tempest. Tale scelta sembra rinviare alla sferzante critica di Rebecca Watts rispetto alla poesia di Kaur, Tempest e McNish come esercizi da noble amateur e alla loro conseguente esclusione di tale «coorte di giovani poete» dall’ambito poetico tout court. In realtà, Stera (2019) non propone un giudizio così tranchant, ricordando la ricezione prevalentemente negativa di Let Them Eat Chaos/Che mangino caos da parte dei poeti e degli addetti ai lavori italiani – «Mi sembra di ricordare che l’uscita di Let Them Eat Chaos avesse resuscitato l’alzata di scudi che bene o male suona sempre così: non è poesia, è rap» –, per poi precisare che la sua posizione non deriva da un analogo interrogativo crociano su cosa sia “poesia” e cosa no, ma da un confronto più analitico:

 

A prescindere dal fatto che la questione ontologica in poesia mi pare destinata all’aporia perpetua (preferirei un discorso più pragmatico del tipo “quando c’è poesia?”), basterebbe una passeggiata nei testi di Alberto Dubito (solo per citare il più recente esempio italiano) per capire che un corridoio fertile tra rap e poesia esiste eccome (piaccia o meno) (Stera, 2019).

 

Il confronto tra la produzione di Kate Tempest e quella di Alberto Dubito (al secolo Alberto Feltrin, 1991-2012) tende, così com’è proposto da Stera, a valorizzare l’opera del secondo autore a discapito della prima autrice, cogliendo – a differenza di Matteo Fantuzzi o, fuori da un ambito strettamente poetico, di Franco Palazzi – un’esigua rappresentatività testimoniale della poesia di Tempest e al contempo una riuscita formale qualitativamente scarsa rispetto a quella del più giovane poeta e rapper di origini trevigiane. Tale comparazione si può approfondire prendendo in esame, ancora una volta, Europe is Lost di Tempest e una poesia simile per titolo e temi, Signora Europa, pubblicata nel libro antologico postumo Erravamo giovani stranieri:

 

Ora so che attraverserei l’euraNsia a piedi per dirtelo (se solo queste guerre non scoppiassero a piangere trai troppi continenti) ma so che sai dei silenzi incontinenti nelle caserme isolate e ho risentimenti sotto vuoto e se ti bacio sul cofano sotto ’ste stelle scadenti è perché quando cammino solo sono le città in fiamme e se mi sezionassi ora la gola troveresti altre canzoni e rivendicazioni altre ancora (Dubito, 2012, p. 151).

 

Si può facilmente osservare la vicinanza nel setting e nella dimensione emotivo-affettiva al testo di Tempest, ad esempio in questo passaggio:

 

The buildings are screaming I can’t ask for help –

Nobody knows me.

Hostile. Worried. Lonely (Tempest, 2017, p. 42).

dove le «caserme isolate» di Dubito diventano, con una scelta maggiormente referenziale, «buildings», e i «silenzi incontinenti» o i «ri-sentimenti sotto vuoto» trovano un corrispettivo stilisticamente più asciutto nella triade di aggettivi: «Hostile. Worried. Lonely». A partire da questo esempio, si può dunque supporre una comunanza di base delle tematiche (riassumibile in un’analoga difficoltà esistenziale delle giovani generazioni in un’Europa che soffre le conseguenze della crisi economico-finanziaria globale iniziata nel 2007), che viene poi ad essere declinata in modo diverso a livello formale – nello specifico, con un maggior barocchismo linguistico in Dubito rispetto a Tempest.

 

Nel testo di Dubito, inoltre, compare il neologismo «EuraNsia», ricorrente anche in altri testi antologizzati – Anticartoline (Dubito, 2012, p. 56), Odio la poesia (ivi, p. 67)[14] e Incastrarci (ivi, p. 98) – dei quali si può notare la comune esclusione dal repertorio performativo di Dubito, almeno nella forma in cui questo ci è consegnato, ad alcuni anni di distanza dalla sua morte, attraverso il corpus letterario e audio-video disponibile sul sito www.albertodubito.it.[15] Quest’ultimo è un dato interessante nell’ambito di una comparazione più generalizzata delle produzioni intermediali di Dubito e Tempest, rivelando cioè, accanto ad alcune analogie di fondo, la presenza di numerose dissimmetrie, che rendono più complessa e sfumata la valutazione comparativa. In particolare, nell’esecuzione performativa – che tuttavia non può andare di pari passo al confronto tematico tra Europe is Lost e Signora Europa qui accennato, in assenza di una versione performativa del testo di Dubito – Tempest evidenzia quasi sempre un flow estremamente classico, occasionalmente attestato sulla forma del double-time flow (in Chicken, ad esempio, nell’album Everybody Down del 2014), mentre il flow di Dubito presenta un’interessante combinazione tra rap e hardcore punk, da lui stesso ricondotta all’influenza seminale di un gruppo rap-rock statunitense attivo nei decenni immediatamente precedenti, ossia i Rage Against the Machine.[16]

 

Oltre a queste considerazioni, di certo non esaustive, sembra opportuno sottolineare anche un altro possibile motivo di comparazione tra Tempest e Dubito, cui Stera non accenna, ma che è, con ogni probabilità, alla base del confronto: l’istituzione, nel 2013, di un premio intitolato alla memoria di Dubito (premio Alberto Dubito di poesia e poesia con musica) si pone a fondamento di un campo artistico-letterario – non più solo letterario, quindi, come nell’originale accezione usata da Pierre Bourdieu (1992) – delimitato, tra gli altri parametri, dall’uso prevalente della lingua italiana, che si pone in concorrenza con il campo, dalla definizione più chiaramente “letteraria” e dalla caratterizzazione prevalentemente anglofona, nel quale ricade invece il Ted Hughes Award vinto nel 2013 da Kate Tempest. Si tratta di una differenza rilevante nell’ambito della ricezione italiana dell’opera di Kate Tempest, se si tiene conto anche dell’esistenza del premio per la carriera Alberto Dubito International, istituito nel 2016 e con scadenza biennale (attribuito a Ishmael Reed nel 2016 e a Raúl Zurita nel 2018).

 

Se infatti si considera il fatto che Tempest, pur appartenendo a una sorta di mainstream anglofono transnazionale e intermediale, non sia stata finora insignita del premio – che si configura anche come unica possibile area di intersezione tra i due campi precedentemente delineati –, si comprenderanno meglio le dinamiche culturali e politiche entro le quali si è mossa, sino ad oggi, la ricezione italiana di Tempest. Basata su una traduzione dichiaratamente prossima alla traduzione di servizio e non su una versione d’autore di un poeta performativo italiano, la ricezione italiana di Tempest registra, infatti, un mutamento d’interesse culturale e politico: dalla questione della reinvenzione contemporanea della poesia orale greca, molto più dibattuta in area anglosassone, si passa alla problematica appartenenza di Tempest a una sorta di mainstream transnazionale contemporaneo (a vari livelli: editoriale, musicale, performativo ecc.), mettendo in luce proprio a partire da questo presupposto le implicazioni politiche – per alcuni positive, per altri fortemente negative – dell’opera in oggetto. In entrambi i casi, tuttavia, si può registrare un’attenzione verso la produzione di Kate Tempest che travalica la definizione di noble amateur coniata da Rebecca Watts, chiamando talora in causa (spesso per censurarne le conseguenze) la qualità intermediale, per nulla dilettantistica, dell’opera.

 

Tuttavia, se si tiene conto della banale constatazione per la quale l’opera di Tempest non ha ancora ricevuto importanti riconoscimenti in ambito italiano, ma potrebbe esserne insignita in futuro, si potranno meglio cogliere le implicazioni della nota, apparentemente prudenziale, con la quale si chiude la ricognizione della Poesia italiana degli anni Duemila di Paolo Giovannetti (2017, p. 79) conclusione dedicata alle pratiche performative che si collocano nello spazio intersezionale e intermediale tra poesia, rap/ hip hop, spoken, e musica: «Il fatto è che […] viviamo in una situazione di trapasso in cui tutto sta cambiando. Alcuni decenni di trasformazioni pur velocissime sono poca cosa rispetto a millenni di metamorfosi. I poeti dell’oralità si muovono su una strada che possiamo analizzare solo in parte, che siamo in grado di vedere solo di scorcio; e con strumenti, ahimè, troppo imprecisi».

 

Nel tentativo, ormai piattaforma critica comune, almeno in ambito italiano, di contribuire alla precisazione metodologica delle questioni teorico-critiche correlate, l’analisi dell’opera di Kate Tempest e delle sue differenti ricezioni si configura oggi come un passaggio da attraversare in tutta la sua complessità – complessità che qui non si è cercato affatto di esaurire, quanto di delineare in tutta la sua problematicità – allo scopo di potersi muovere meglio, in futuro, tra i poli apparentemente opposti e in realtà convergenti della celebrazione acritica del mainstream e della censura “populista”.[17]

 

Riferimenti bibliografici

 

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Note

 

[1] Qui e di seguito, dove non altrimenti specificato, si adotteranno traduzioni di servizio per i testi non tradotti in italiano.

[2] La nozione di “populismo estetico” rinvia all’uso che ne fa Fredric Jameson (1991). Come osserva Jim McGuigan (2002, p. 222), il populismo estetico non riguarda solo l’oggetto immediato della critica di Jameson (il saggio di teoria dell’architettura Learning from Las Vegas, del 1972, di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour), coinvolgendo chiunque si impegni in un dibattito politico-culturale dai tratti chiaramente populisti (nel caso di Jameson, il primo bersaglio critico è il rimescolamento orizzontale della distinzione tradizionalmente gerarchica tra “cultura alta” e “cultura bassa”, posto alla base dell’estetica postmodernista; il ragionamento si può agevolmente estendere, in questa sede, alla fruizione critica della poesia contemporanea).

[3] Tra le eccezioni si possono contare, a titolo di esempio, Ailes (2014); Herrmann (2016).

[4] Nella stessa pagina, in ogni caso, Callus ricorda come il discredito della poesia sia, a sua volta, un topos letterario, ricordando ad esempio un distico analogo di Philip Larkin, in A Study of Reading Habits: «Get stewed: / Books are a load of crap» (Vai a farti fottere: / I libri sono un mucchio di stronzate) (Larkin, 1988, p. 131). Si può inoltre osservare come Kate Tempest stessa non rinunci al riferimento al libro come metonimia della produzione artistica in senso lato, titolo del suo album The Book of Traps and Lessons (2019).

[5] Una riflessione più specificamente legata alla “reinvenzione della tradizione” nell’ambito della poesia orale si trova in Zumthor (1983).

[6] Anche la produzione teatrale di Tempest ha ricevuto recente diffusione in ambito italiano, per iniziativa di Giorgina Pi e della compagnia Bluemotion, con gli spettacoli Wasted (2019, tratto da Tempest, 2013b) e Tiresias (2020).

[7] Si fa riferimento, in particolare, al primo album di Kate Tempest, firmato con il nome della band, Sound of Rum: Balance (2012).

[8] Da sottolineare, nel contesto di questa discussione, il titolo fortemente elogiativo nei confronti della poesia di Kate Tempest e la parallela polemica – non meglio precisata, all’interno dell’articolo – contro la «(cattiva) poesia italiana», per un articolo significativamente firmato dalla redazione del sito.

[9] Tra i vari contributi, Tempest ha partecipato, insieme ad altri artisti, al concerto- tributo a Gil Scott-Heron Pieces of a Man, tenutosi a Londra il 13 marzo 2016, circa cinque anni dopo la morte dell’artista afroamericano, avvenuta a New York il 27 maggio 2011.

[10] Il riferimento ad Anderson appare anche in una recensione italiana dell’album The Book of Traps and Lessons (Triolo, 2019).

[11] Uno dei padri fondatori del poetry slam, Marc Kelly Smith, ha espresso una preoccupazione analoga rispetto alla crescente diffusione globale del genere (Rother, 2009).

[12] Il rapporto tra l’opera di Scott-Heron e le politiche identitarie di marca black e/o African American si presenta senz’altro come più complesso, smarcandosi così da un identitarismo che proviene, più che dalla sua produzione, dalle dichiarazioni pubbliche dell’artista, secondo il quale «rappers […] ought to learn more about the histories and stories they are rapping about» (i rapper dovrebbero conoscere meglio le storie, con la lettera tanto maiuscola quanto minuscola, sulle quali rappano) (Potter, 1995, p. 154).

[13] Quel che si può suggerire, a titolo riassuntivo, è una differenza di fondo tra la postura esistenzialista e circoscritta al contesto europeo del testo di Tempest, analizzata di seguito, e il respiro collettivo, nonché l’apertura a un contesto globale (secondo anche una certa moda intellettuale e artistica tipica dei primi anni del secondo millennio), del testo dei Noir Désir – rintracciabile, per quanto riguarda questi ultimi, in alcuni passaggi, tra i quali: «Nous travaillons actuellement pour l’Europe. / Voire pour le monde» (Ora stiamo lavorando per l’Europa. / Ovvero per il mondo); o ancora: «l’enfance de l’art est un lever de soleil» (l’infanzia dell’arte è un’alba).

[14] Si può notare la similitudine tra questo titolo di Dubito e la citazione di Tempest «This book is written to be read aloud» (Tempest, 2017, p. 7) anche nella considerazione, apparentemente svalutativa, della poesia e, in realtà, funzionale per entrambi gli autori all’autolegittimazione di una produzione intermediale che non può non includere, tra i vari media e generi attraversati, anche la stessa poesia.

[15] Il sito, articolato in quattro sezioni (“Suoni”, “Parole”, “Video” e “Immagini”), è il catalogo più completo che sia ad oggi disponibile dell’opera di Alberto Dubito.

[16] Cfr., a titolo d’esempio, la chiusa del testo Figlio di: «Figlio del cantautorato Allevato dai rage, / delle manifestazioni tautologiche e dei miti senza dei, / ora che siamo solo figli di noi ma di noi / non sappiamo più che fare» (Dubito, 2012, p. 55).

[17] Ringrazio i poeti e critici italiani, appartenenti a generazioni diverse e dalla produzione artistica fortemente eterogenea, che hanno inteso partecipare a questo lavoro di ricerca con le loro comunicazioni personali (in ordine alfabetico: Matteo Fantuzzi, Eugenia Galli, Simone Marcelli, Alberto Masala e Gabriele Stera), ricordando la chiusa della recensione online di un altro poeta e critico, Alberto Cellotto (2017), per ribadire le precauzioni e gli auspici che si intravedono anche in questo saggio: «c’è il rischio che quella di Kate Tempest ci appaia come una proposta che ci sposta poco oltre il già noto in un discorso di poetica e immaginario, anche sociale, che mette in campo; tuttavia il suo restare nell’alveo del noto produce comunque un effetto perturbante che può avere delle conseguenze all’interno delle nostre teste, in quell’elettricità che si produce tra le ossa del cranio quando leggiamo, ascoltiamo, guardiamo».

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