di William Cliff (trad. di Fabrizio Bajec)
[Pubblichiamo sei poesie da Au Nord de Mogador di William Cliff (Le dilettante, 2018), nella traduzione inedita di Fabrizio Bajec].
Mangiare a Manhattan
Quando ero al YMCA di Manhattan
(ad ovest di Central Park), scoprii in basso
(cioè in cantina) che si poteva
pranzare lì. Un uomo dietro un bancone
faceva rosolare le patate poi
vi buttava sopra un uovo, cuoceva e
il tutto passava sopra un piatto, quindi
con un po’ di pane e caffè si partiva
con un vassoio per sedersi in sala.
Era gradevole ed economico, in più
c’era un calore umano, un torpore
fra quella gente assonnata che masticava
ammutolita il cibo, dopo di che
si andava a deporre il vassoio su un carrello,
ognuno imboccava la sua strada a Manhattan,
io ero lieto di andare di qua
e di là seguendo il mio ozio che mi
portava ovunque sorpreso dalle cose
rare, dai lineamenti diffusi tra
i rettangoli giganti di quell’isola.
*
Malinconia
Ho subìto un attacco di malinconia
ritrovandomi solo in mezzo alla terra
vedendo che il sole andava già via
per sprofondare lontano dalla mia sfera.
Il suo raggio luminoso non mi riscalda
la causa è la mia vita fredda come un’arca
nell’indifferenza che la tiene salda
e si tuffa lontano da quella stella.
Non mi resta che scrivere la mia mania
sperando che scrivendola possa calmarsi
e rimanere come un cavallo che si ferma
si volta e aspetta l’ora dell’avena
che schiaccerà lento fra i suoi grossi denti
per dimenticare l’immensità del tempo.
*
Prospettiva Vladimir
Fiòdor Dostoyevski era allegro (sembra),
non credete alle foto che lo mostrano
col volto serio perché a quell’epoca
si posava seri per la fotografia.
Lui viziava i suoi figli, riceveva gente,
ma verso sera si ritirava in camera,
beveva del tè, cominciava a scrivere,
fumando sigarette rollate prima.
Il suo tavolo era in disordine, niente
a che vedere con questo appartamento
pulito sulla Prospettiva Vladimir.
Ma dov’è la camera da letto? Lo stretto
sofà era il posto dove si riposava:
al mattino quando si sentiva stanco,
si sdraiava e tirava una coperta
sul volto, impedendo alla luce di nuocergli.
È in questa stanza severa sul retro
che scrisse ma senza poterla finire
l’ultima opera perché era tisico
e la morte lo gelò su quel sofà.
*
Il canto dei « morti »
Su questa terra abbandonata
la nebbia si stende infinita,
vediamo solo all’orizzonte
un noioso e lungo destino.
Niente qui perturba l’attesa
di ciò che più in là accadrà,
giorno per giorno sul pendio
slittiamo per l’eternità.
Il rumore dei nostri passi
è causato dalle catene
che trasciniamo e che ci seguono
fino al nostro ultimo carcere.
Sole e vento, calma o tempesta,
le stagioni non ci importano,
giorno di lavoro o di festa,
è tutto uguale in prigione.
Dentro queste basse caserme
ascoltiamo il vento invernale
che mugghia tra lunghi rantoli
sui tetti coperti di ferro.
La notte la porta è chiusa
e noi sembriamo tumulati,
riviviamo in mezzo al fumo
che fuoriesce dai cervelli:
e poi volano i nostri sogni
attraverso i tetti impotenti
se la casa più resistente
nulla può contro la speranza,
e chi dice una preghiera
curvo sulla parete in legno
ritorna all’innocenza fiera
del bambino che fu una volta.
Grazie al vento e alla pioggia,
grazie alla neve e al freddo
che ci dicono che la Vita
ha la meglio su ogni clima
e che se chiniamo il capo
sotto il peso delle accuse,
Colui che sa del nostro crimine
ci ha già espresso il suo perdono.
*
Signor Empain
(direttore del Collegio della Hulle)
Signor Empain, la prego, venga a trovarmi:
ho bisogno di sentire i suoi rimproveri
e di nuovo l’inenarrabile storia
che raccontava a noi adolescenti.
È che stasera in questa città così lugubre,
ho un tremendo bisogno della sua saggezza
e che mi aiuti a bere la prossima ora
con quel sorriso che ci mostrava sempre.
E del resto lei sa che se sono in cammino,
è perché ci ordinava di partire
in modo da rimetterci a posto le idee
e allontanarci dall’ordinaria miseria.
Era meraviglioso il modo che aveva
di stare solo in mezzo ai nostri corpi
e passeggiare lì come un buon pastore
che sa essere ovunque ma anche al di fuori.
La prego, Signor Empain, che questa notte
io possa sentirla passare in corridoio
per sapere che anche la sua fatica
ha bisogno di sonno al calar della sera
tranne quando sotto la sua porta brillava
la lampada per dirci che lei lavorava.
*
Infanzia
Eravamo bambini molto sporchi, certo,
non ci lavavamo spesso le « parti intime »,
« fare una doccia » era qualcosa d’ignoto
poiché di docce non ne avevamo mai viste.
Versavamo dell’acqua calda in un catino
il sabato accanto al fuoco della cucina
e tutta la famiglia ci entrava, il padre
veniva per ultimo a chiudere il corteo.
Non penso che fossimo maleodoranti
(è raro che il corpo di un bambino puzzi)
quanto a lavarsi di mattina era solo
una sciacquata al viso, alle mani e alle braccia.
La sera a volte potevamo bagnarci i piedi,
avevamo per dormire camicie da notte
che risalivano sempre e ci raffreddavano.
Eppure dormivamo di un sonno profondo,
come solo i bambini o il mondo nello spazio.
Oh! quanta paura di affrontare la minaccia
di quel sonno tremendo in cui s’entrava lo stesso!
È che il bambino deve crollare dal sonno
per ritrovare il centro del ventre materno
e a lungo riposarvi e rilassarsi.
Così belle in traduzione che resta il capriccioso desiderio di vederle, non potendo leggerle altrettanto, in originale.