di Gilda Policastro

 

Esuli, rubrica a cura di Gilda Policastro

 

Ho incontrato Francesco Ferracin, scrittore, germanista e filosofo di origini veneziane che oggi vive a Berlino, nell’ambito del Festival Treviso giallo, di cui è co-organizzatore assieme a Lisa Marra e Pierluigi Granata. Un festival in cui si discute delle possibili implicazioni del genere, in riferimento a testi classici da Dürrenmatt a Sciascia, fino ad autori contemporanei che si muovono variamente, tangenzialmente o anche (nel caso della sottoscritta) polemicamente entro l’alveo del “giallo” (o “noir”). Il Festival ha luogo nelle ricchissime sale del museo Bailo e guardando la pregevole collezione di Arturo Martini durante una pausa, ci capita di conversare. Il pretesto è l’opera chiamata Fanciulla piena d’amore, che all’epoca (primo Novecento) suscitò uno scandalo tale da far chiudere la galleria che la ospitava. Tra l’altro l’artista la concepì dopo un viaggio in Germania, ed è da lì che siamo partiti, dallo stato dell’arte oltralpe.

 

Come si vive, da artisti (o scrittori come nel tuo caso), fuori dall’Italia?

 

Di espedienti, mi verrebbe da dire, non essendo proprio la cosa più saggia per uno scrittore di lingua italiana vivere in un paese dove l’italiano non lo si parla, né lo si frequenta quotidianamente. Lo scrittore si è così adattato ad esprimersi in altre lingue, pur mantenendo in vita la lingua madre attraverso i libri (anche suoi) e il telefono, ritenendo che solo questa possa essere in grado di “tradurlo”. L’artista ha trovato un immediato conforto nell’essere straniero in terra straniera: il modo migliore per rinascere, per ricrearsi da zero o quasi, lontano dal proprio passato e da tutti quelli che lo hanno visto nudo. Non che io mi ritenga più di tanto originale in questo mio bisogno e, certo, avrei potuto farlo anche in un’altra città italiana, ma noi veneziani abbiamo sempre avuto la tendenza ad andare il più lontano possibile dalla nostra terra natia.

 

Andare per andare, cioè per passione del viaggio in sé, o con uno scopo, una meta subito definita? In altre parole, hai cominciato a viaggiare perché eri giovane e volevi fare esperienza del mondo o c’è stato subito un progetto di vita fuori dall’Italia, in cui per qualche ragione non ti pareva possibile restare?

 

Les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent/pour partir, per citare il poeta. Quando a 22 anni partii per un Erasmus a Marburg, in Germania, avevo intuito che non sarei più veramente tornato, perché la Wanderung, il vagabondaggio romantico, una volta iniziato non si può arrestare. E il viaggio, nel mio caso, non è solo una questione fisica, lo spostamento materiale da un paese all’altro, ma soprattutto mentale. Ecco, quindi, che si abbraccia quella piacevole e scomoda condizione esistenziale di “esule eterno”. Piacevole perché ci affranca dalla responsabilità di essere parte della società che ci ha visto nascere (e, se vogliamo, dal conforto dell’abbraccio materno che, prolungato negli anni, non ci permette di maturare); scomoda perché non ci consente di essere parte di nessuna società in cui ci troviamo a vivere (lontani dal conforto di quello stesso abbraccio). C’è anche una spiegazione più prosaica (e forse più sconveniente) della “piacevolezza” dell’esilio, che ora, a distanza di venticinque anni, posso anche rivelare: la ricerca erotica. In breve: una volta attraversato il confine del nostro paese, come insegna Giacomo Casanova (tra le cattive letture di quegli anni giovanili), possiamo reinventarci, cancellare o modificare il nostro passato come più ci conviene, e, se ci si muove in paesi germanici ma non solo, ci si trova ad essere improvvisamente “esotici”, liberi dal giudizio morale di chi ci circonda, con tutti i vantaggi (e i pochi svantaggi) del caso. Stiamo però parlando della seconda metà degli anni ’90, quando ci si muoveva quasi solo in treno, c’erano ancora le frontiere, e soprattutto non esistevano i social media (e le dating app).

 

Beh, questo è molto interessante. Lasci intravedere forme di vita e mondi un po’ distanti da quello accademico. Mi farebbe piacere che raccontassi qualcosa del lifestyle londinese…sei andato lì, dopo la prima esperienza in Germania, no? E come ci sei finito, a Londra?

 

Abbastanza distanti, effettivamente, ma sono sempre stato troppo indisciplinato per essere un buon accademico. Sono approdato a Londra in modo piuttosto bizzarro. Dopo gli studi, durante il servizio militare, mi ero abbonato a Uomo Vogue, per bilanciare il monocromatismo della caserma. Fra i servizi fotografici, ce n’era uno di Bruce Weber che ritraeva un noto giovane attore irlandese: assomigliava in modo inquietante al protagonista di un poema che avevo scritto a Marburg, qualche anno prima. In modo del tutto candido, scrissi una e-mail alla redazione in cui chiedevo come contattare l’attore, per proporgli di diventare il protagonista di un cortometraggio tratto dal mio poema. Va detto che non avevo alcuna idea di cosa fosse veramente un cortometraggio (avevo studiato filosofia e germanistica), né cosa volesse dire scriverlo, o tantomeno produrlo. Ebbene, guadagnai un invito a collaborare con l’Uomo Vogue e poi con Vogue Italia, e fu proprio grazie a queste referenze che finii davvero per intervistare l’attore, un anno dopo, del quale divenni subito amico. Qui comincia la parte “scabrosa” perché grazie a lui piantai le tende a Londra, propriamente a casa sua, e seguendolo in alcuni set cinematografici in giro per l’Europa entrai nello scandaloso mondo dello showbiz britannico, che a quel tempo era ancora la colonia amorale di quello hollywoodiano. In questa sede forse non è il caso di approfondire questa mia affermazione: posso solo dire che per un paio d’anni non scrissi molto. Pubblicai reportage, interviste e recensioni di film (che non avevo visto) per le succitate riviste, e per altre meno note e generose. Ero totalmente concentrato sulle mie nuove glamourose amicizie: cercavo tra l’altro di capire se fosse l’arte a imitare la vita, o il contrario. Mi trovai a parlarne a Karlovy Vari con un noto scrittore britannico che aveva interpretato Oscar Wilde in un film: pensavo potesse darmi delle delucidazioni a riguardo, invece provò a convincermi del fatto che se si vuol essere scrittori bisogna innanzitutto scrivere. Lo presi come uno scherzo, quindi continuai a fare di tutto tranne quello: tipo, fondare una società di produzione cinematografica per girare film cinesi in Cina. Cominciai così ad andare su e giù fra Londra e Shanghai, in circostanza rocambolesche conobbi mia moglie, una scrittrice tedesca che viveva a Berlino e che, accettandomi per quello che ero, probabilmente mi salvò la vita…

 

Ok, ti lascio la privacy su questo punto…ma come entra, se entra, il tema dell’esilio nella tua scrittura? O come la condizione dell’esule ha cambiato, se l’ha cambiata, la tua scrittura?

 

Il tema dell’esilio è quasi sempre presente, anche quando non si vede, a partire dal mio primo romanzo. Dopo gli anni londinesi, il mio agente mi aveva convinto che scrivendo poemi e romanzi non “catalogabili” non sarei andato da nessuna parte. Fu così che scrissi Una Vasca di Troppo (Fanucci, 2008), un “noir” (anche se per amore di precisione andrebbe definito un hardboiled) in cui il tema dell’auto-esilio, della rinascita e del ritorno entrano in modo violento e arrabbiato, come si dice, “a gamba tesa” o senza peli sulla lingua. L’esilio ha certamente cambiato la mia scrittura, si può dire che l’ha quasi distrutta. Mi ero abituato a pensare e scrivere in lingue diverse dalla mia ma, una volta approdato a Berlino, temevo di non essere più veramente in grado di scrivere decentemente in nessuna lingua, pur parlandone tre. L’inglese era la lingua del cinema, l’italiano quella dei miei tentativi letterari e il tedesco quella per tutto il resto. Faticai non poco a buttare giù il primo romanzo, convinto che il mio inglese, per quanto limitato, fosse più vicino a me di una lingua che ormai percepivo come ostile. A rileggerlo ora, credo che un po’ lo si noti… è stata probabilmente la paura di aver perso il controllo della mia lingua madre a spingermi verso nuovi mezzi espressivi. Oltre al cinema, il teatro, la musica (ho collaborato con alcune band metal), un’avventurosa incursione come ghostwriter in uno show televisivo britannico mai prodotto (nel quale un mentalist e un astrologo dovevano risolvere in diretta problemi esistenziali delle comparse nascoste nel pubblico), e diversi progetti multi-mediali, trans-mediali, tri e quadrimensionali. Infine, più di recente, i videogames e gli audio-sceneggiati (questi ultimi a quattro mani col mio caro amico Matteo Strukul). È stato però il mio incontro con Franco Battiato, nel 2008, a ridarmi veramente fiducia nelle mie capacità espressive, convincendomi che dovevo fare del relativismo linguistico il mio punto di forza. Il destino volle che fosse proprio Battiato (una delle figure artistiche di riferimento della mia giovinezza) a mettere in musica il poema grazie al quale tutto era cominciato (con il titolo L’Incubo della Farfalla). In seguito mi propose di scrivere con lui la sceneggiatura del film Handel, che sarebbe stato un capolavoro (come mi pare sia stato detto di recente), se solo qualcuno avesse avuto il coraggio di produrlo. Ma si sa che il coraggio è merce rara nel cinema italiano. Quindi, sì, l’esilio ha radicalmente cambiato il mio modo di scrivere, e forse il modo stesso di concepire la scrittura, che ha finito per diventare qualcosa di fluido ed ecclettico, esattamente quello che gli editori italiani non vogliono sentirsi dire. Fortunatamente sono riuscito a trovare in Lisa Marra un editore integerrimo e folle abbastanza da darmi fiducia, permettendomi di perseguire quella che credo sia una vocazione. Certo, alla stragrande maggioranza di noi la scrittura da sola non è in grado di dare da vivere, ma quello che ci offre è la possibilità di raggiungere coloro che, come noi, sono in grado di intendere la “musica” di cui siamo dei meri interpreti. Un privilegio che non ha prezzo. A molti sembrerà illusorio, ma io ne sono veramente convinto.

 

A proposito di prezzo: quanto costa il pregiudizio di genere? Come sai, gli autori di noir o di gialli non godono di buona stampa, almeno in Italia, mentre sono premiati (come diceva anche il tuo agente) dalle vendite, anche perché certi libri nascono già pronti per la riconversione televisiva o cinematografica e quindi agevolati nel permanere, in altre forme, nel circuito di produzione. Ti senti un autore di genere, al di là delle spinte di mercato? E perché (sì o no)?

 

Tema alquanto spinoso che ci siamo trovati ad affrontare a Treviso anche quest’anno. Credo siamo un po’ tutti d’accordo sul fatto che la “letteratura” debba prescindere da generi e categorie, utili più a “piazzare” il libro sul mercato che a definirne il contenuto, e, Dio ci guardi, le intenzioni dell’autore. Dürrenmatt scriveva gialli? E Dostoevskij? Virgilio era un autore pulp? Stendhal e Manzoni scrivevano romanzi storici? Tolkien romanzi fantasy? E.T.A. Hofmann racconti horror? E Oscar Wilde? Era un autore gay? Nel nostro caso, bastano un omicidio, un investigatore e un criminale a fare un giallo? O basta etichettare un libro come “giallo” per renderlo tale? Perché Maigret o Ripley devono avere meno dignità letteraria di Guglielmo da Baskerville? O di Bob Dylan? O degli erotomani di Houellebecq? E perché se Philip Roth o Cormac McCarthy ammazzano o torturano qualcuno si invoca il Nobel, e quando lo fa un autore italiano si storce il naso? Non che questo sia un discorso nuovo, anzi, e non è così solo in Italia. Tuttavia, non va taciuto che in Italia il fraintendimento di fondo, ossia l’esistenza di una letteratura di serie A (elevata, non vendibile) e una di serie B o C (popolare e vendibile, o bestsellerabile), è frutto soprattutto di una meccanica commerciale (e distributiva) perversa, coniugata alla palese incapacità di un apparato culturale sempre più autoreferenziale e spaventato dall’ombra di sé stesso, arroccato da alcuni decenni su posizioni provinciali e orgogliosamente marginali. Tutta questa tirata per dire che, purtroppo sì, il mio agente aveva ragione e che, se si vuol vivere di scrittura, bisogna scrivere quello che vende, e avere fede nel mercato. L’amara realtà è che il prezzo del pregiudizio di genere alla fine lo pagano quasi solo gli autori, comunque vada, essendo noi l’ingranaggio più debole della filiera editoriale (costa parecchio anche ai piccoli editori indipendenti, ma qua si entra in un campo minato). L’unico modo di uscirne mentalmente incolumi è quello di essere onesti con sé stessi, e domandarsi prima di tutto che cosa ci spinga a scrivere. Se la risposta è il denaro, o la fama: meglio fare altro. Se invece pensiamo di aver qualcosa che non solo valga la pena dire (il come e il dove e il quando dovrebbero a parer mio essere subordinati a quel qualcosa), ma soprattutto che possa valer la pena leggere: jackpot! Scriviamo la nostra storia senza pensare a dove collocarla, senza paura di intrattenere e rispettando l’intelligenza del lettore, che va trattato da adulto non da persona affetta da peterpanismo acuto. Se poi il nostro editore e qualche critico ci fraintende e fa del nostro libro un best-seller, ben venga. Pur pensando che esistano molti libri di valore che non riescono a trovare la visibilità che meritano, credo che il valore commerciale e quello letterario di un’opera d’ingegno non siano, necessariamente, mutualmente esclusivi (questo mio discorso vale anche per la musica, il cinema, il teatro, e tutte le forme d’arte compreso l’intrattenimento videoludico).  Per rispondere quindi alla tua domanda: io non mi considero un autore di genere, né vorrei essere considerato tale, anche perché non credo che ne sarei all’altezza. Sono pigro e allergico alle regole, in particolar modo a quelle arbitrarie, e ho sempre avuto la spiacevole tendenza a fare l’esatto contrario di quello che ci si aspetta da me. Questo non significa che mi dispiaccia se i miei libri vengono inseriti nella grande famiglia del noir. Sono in buonissima compagnia. Che poi questi lo siano veramente preferisco lasciarlo decidere ad altri.

 

Su alcuni punti mi sentirei di esprimere un’idea diversa (se non opposta), ma chi segue questa rubrica (e in generale quello che scrivo) lo sa già. Però ho invece, più urgente e forse interessante, qui, un’ultima domanda per l’esule Ferracin: se ce ne fossero le condizioni, torneresti in Italia?”

 

Se tornerei in Italia? Penso di sì, lo farei, ma non credo ci siano le condizioni, né che ci saranno per un pezzo. Ora come ora, se potessi, mi imbarcherei per Marte. Certo, sono spesso in Italia, Easyjet e Covid permettendo, ma pensare di ristabilirmi nel nostro paese un po’ mi spaventa poiché il “tornare” è sicuramente molto più arduo del “partire”, e implica molto più coraggio. Perché se è vero quello che dicevo prima sulla Wanderung, la condizione spirituale del viandante presuppone il costante movimento e quindi il ritorno al luogo da cui si è partiti può e deve essere solo fisico. Se non si è forti abbastanza, si rischia di impantanarsi e fare la fine di Bilbo Baggins (e a Venezia le paludi non mancano, in tutti i sensi). Sono alcuni anni che mi interrogo su questo tema, e alcune mie prime “conclusioni” hanno preso forma in un testo in prosa e versi che spero possa essere stampato all’inizio dell’anno prossimo.  Per aggiungere una punta di pedanteria, ci sono due Ritorni che meritano una citazione: quello di Rutilio Namaziano e quello del Hyazinth protagonista di una favola di Novalis. Rutilio lascia Roma nel 416 per tornare in Gallia, e nel suo percorso descrive un impero devastato, imbarbarito, dove i fari che avevano illuminato per secoli le coste tirreniche sono spenti per sempre. Giacinto gira il mondo in lungo e in largo alla ricerca del tempio di Iside, per arrivare a rendersi conto, una volta tornato in patria, che il tempio era sempre stato a pochi passi da casa sua. Io non so ancora a quale dei due potrebbe assomigliare il mio ritorno. Mi auguro al secondo, sebbene il mio cauto pessimismo mi porti a credere che sarà al primo.

 

 

 

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