di Massimo Raffaeli

Philip Roth ha scritto a proposito di una delle grandi voci della narrativa israeliana, l’amico e quasi coetaneo Aharon Appelfeld, che paradossalmente il suo soggetto letterario non è la Shoah né la persecuzione ebraica e nemmeno la letteratura dell’esilio, nonostante la madrelingua tedesca, l’ambientazione europea di molti suoi romanzi e il culto di Franz Kafka: aggiungeva Roth che, semmai, Appelfeld è il capostipite o forse l’unico esemplare di una narrativa dello spiazzamento e di un perpetuo disorientamento. Ne dà oggi piena conferma il suo ultimo romanzo, Il ragazzo che  voleva dormire (Guanda, “Narratori della Fenice”, pp. 301, € 19.00) che esce in italiano nella limpida versione di una traduttrice elettiva, Elena Loewenthal. Lo scrittore nato a Czernowitz, in Bucovina, nel 1933, torna ancora una volta alla materia prima autobiografica della sua narrativa che coincide col decorso di una vita straordinariamente avventurosa. E’ il set si direbbe immutabile che conoscono i lettori sia delle sue opere in cui la biografia è traslata (vedi Badenheim 1939, Guanda 2009, il racconto che gli ha dato fama internazionale) sia dei numerosi memoriali (e su tutti Storia di una vita, Giuntina 2001) in cui essa è riproposta nei modi di una testimonianza nuda e di un bilancio, etico prima che letterario, sempre arrischiato in prima persona. Qui, l’ormai ottantenne Appelfeld si produce in una modalità intermedia tra il romanzo di formazione e l’apologo, nella fattispecie un incubo vissuto ad occhi aperti e quasi il referto di un orrore che il ricordo può normalizzare o metabolizzare, dove insieme col modello di Kafka (un Kafka deprivato, comunque, di sovrastrutture allegoriche) torna l’altra guida prediletta, quello Shemuel Josef Agnon che nell’immediato dopoguerra fornì alla generazione dei pionieri di Israele, e a lui ignaro dell’antico ebraico, l’esempio di come la lingua primordiale della Bibbia, così povera di avverbi e di aggettivi, potesse ritornare al presente nella precisione folgorante di costrutti che vivono soltanto di nomi e di verbi.

Il ragazzo che voleva dormire è, in effetti, tanto l’apologo di chi riconosce la propria vocazione alla scrittura quanto la storia, dolorosa e sommamente contrastata, di un adolescente alla ricerca di una lingua che egli possa dire finalmente la sua. La struttura del romanzo comporta due orizzonti specifici ma di continuo interferenti nello spazio-tempo, i quali stanno fra di loro come il prima e il dopo o, appunto, come il giorno e la notte. C’è dunque un ragazzo che racconta in prima persona e sappiamo che è orfano, originario di una città dei Carpazi, che ha visto annientare la propria famiglia, deportare sua madre, una donna di commovente dolcezza, e suo padre, un uomo malinconico, scrittore mai riconosciuto prima che fallito: alla perdita di ogni cosa, il ragazzo risponde inconsapevolmente abbandonandosi al sonno, una specie di letargia dove le figure parentali e i ricordi della educazione familiare ritornano sovrapponendosi e via via mescolandosi al presente. Dietro di lui c’è una famiglia di borghesi assimilati, un mondo coltivato e beneducato, una provincia dell’Austria felice in cui essere ebrei è sinonimo di stravaganza o, al più, di esotismo recessivo; davanti a lui, viceversa, c’è il vuoto radicale prodotto dall’annientamento, la fuga che in realtà è una deriva verso un mondo ignoto e terribilmente misterioso.

Il mite sonnambulo che arriva nella Palestina del Mandamento inglese è un apolide senza più parola né destino, vale a dire è un nulla che l’ambiente circostante costringe a diventare qualcosa. Mentre gli altoparlanti intorno a lui gridano ovunque slogan del tipo “Mai più come pecore al macello”, innescando un generale senso di colpa, mentre è costretto a vergognarsi della condizione di profugo o è indotto a rinnegarla, viene arruolato nel Palmach, la forza armata del costituendo Stato di Israele: egli non sarà più un ebreo della diaspora ma un sabra, il milite che un destino messianico ha assegnato alla terra promessa. Nel giovane che ora ha un nuovo nome di battaglia, Erwin, le estremità inconciliabili che dividono in due la sua esistenza continuano a scontrarsi in corpore vili e si alternano come il sonno e la veglia: da un lato, sente fermentare l’eredità della vecchia Europa, l’immedicabile malinconia dei profughi, l’yddish e i loro abiti improbabili, dall’altro gli si rivelano il deserto e le alture della Giudea, l’ardore sionista e l’entusiasmo dei kibbutzim. E’ detto a un certo punto dal protagonista, in un attimo di sopravvenuta lucidità: “Mi trovai a quel bivio fra ciò che era stato e ciò che il futuro mi riservava con poche ore libere per me. In quei momenti non pensavo al futuro come ci chiedevano di fare, ma mi dedicavo alla contemplazione interiore e facevo riaffiorare dentro di me immagini antiche”. Ciò vuol dire che il portavoce di Appelfeld ha toccato il fondo della propria irresolutezza ovvero ha acquisito la piena coscienza del disorientamento e del suo fatale spiazzamento.

Fatto sta che, al culmine della crisi interiore, il soldato Erwin è ferito in combattimento e costretto a una lunghissima immobilità. Insieme con la sua ferita, lentamente cicatrizza la dinamica che per tanto tempo lo ha diviso in due: per lui, adesso, non è più questione di scegliere tra il sonno e la veglia o tra un prima e un dopo ma è soltanto questione di cogliere il senso di una necessaria metamorfosi o, in altri termini, capire che la cosiddetta identità non è altro che un processo, un cimento, insomma un viaggio verso la coscienza di sé. Guarire per Erwin significa redimere il padre e cioè divenire uno scrittore ma significa, altrettanto, diventare padre a sua volta e cioè scrivere in una lingua che l’altro necessariamente ignorava, l’ebraico. Perciò Il ragazzo che voleva dormire non solo è un ritratto dell’artista da giovane ma è anche il romanzo più intimamente autobiografico di Appelfeld, la storia sottotraccia della sua vocazione e l’ennesimo banco di prova per uno stile così nitido e leggero da indurre l’effetto della compiuta naturalezza. Nella sua più celebre intervista (ora nel libro di Philip Roth, Chiacchiere di bottega, Einaudi 2004), Appelfeld ha dichiarato: “La mia madrelingua era il tedesco. I miei nonni parlavano yddish. […] Per due anni, dal 1944 al 1946, vagai per tutta Europa e imparai altre lingue. Quando finalmente raggiunsi la Palestina nel 1946, la mia testa era piena di lingue, ma la verità era che non ne possedevo nessuna. Ho imparato l’ebraico con grande fatica. E’ una lingua difficile, severa, ascetica”. Infatti il soldato Erwin comincia a guarire nel momento in cui prende a trascrivere su un taccuino di fortuna, ma con il pudore che tuttavia si deve a un gesto temerario, alcuni passi della Bibbia. Sappiamo che lo scrittore Aharon Appelfelf ha saputo col tempo arricchire quel primo dettato proiettandovi a memoria i suoni e i colori di un’Europa che non esiste più, le tenerezze e le insolenze del monello vagabondo, infine gli stupori di un orfano che la storia ha gettato troppo presto in un mondo più grande di lui. Per questo chi lo legge sospende tanto volentieri la sua incredulità e per questo sottoscrive di cuore il ritratto che ne ha dato una volta per sempre l’amico Philip Roth, rinvenendo nella sua fisionomia “l’aria pacata e benevola di un mago buono”.

[Questo articolo è uscito su «Tuttolibri» de «La Stampa»].

[Immagine: Aharon Appelfeld (mg)].

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