di Andrea Muni

 

L'amore ai tempi del neoliberalismo, rubrica a cura di Federica Gregoratto

 

[…] I corpi caldi
brillano, insieme
nell’oscurità.
La mano muove
verso il centro
della carne, la pelle
trema di felicità
mentre l’anima sale,
gioiosamente
fino agli occhi.
Sì, sì
questo è ciò
che volevo
che ho sempre voluto,
sempre voluto:
tornare al corpo
in cui sono nato.

(Allen Ginsberg, Canzone)

 

 

Che importa chi gode? Il corpo come superficie… e come ciò che la incide

 

Una mano si inarca e danza nell’aria come una farfalla, le parole che l’accompagnano si fanno più veloci, corrono, perdono di significato: sgorgano dalla bocca come acqua da una fontana, tempera che si stacca dal pennello. Le orecchie e il corpo sono tela, un foglio bianco spalancato. Non stiamo più giocando a capirci, ma a volerci.

 

La voce, le parole, i pezzi di corpo che siamo gli uni negli altri scorrono attraverso lo specchio liquido della pelle, degli occhi, delle orecchie, delle bocche, dei pori. Questi oggetti mi fanno soglia, limite, bordo. Senza metafore. Questa carezza che ti do non è la mia interiorità, eppure non è “fuori” di me: è dove io sono. In questo gesto, che mi fa soglia, la passività che sei – e mi subisce – già mi penetra, mi fa oggetto, si rovescia sur place in attività.

 

La tua pelle che si increspa (o si distende) sotto la mia mano già mi abita, mi viola, rovescia in un battito d’ali la passività in attività, l’attività in passività. La mia o la tua? Ma che importa? A lungo ci siamo detti, a mezza voce, con Foucault, “Che importa chi parla?” – ossia che importa chi c’è dietro al corpo parlante che sono, dietro al discorso concepito in quella sua brutale materialità che è anche la mia. Non è forse tempo di porre la stessa questione anche a proposito dell’eros e chiederci – sempre con Foucault, ma questa volta tenendoci ben stretta la Volontà di sapere – “Che importa chi gode?”.

 

Il corpo come superficie e… come ciò che la incide. Il limite che io sono è carezzato, crivellato dallo sguardo, dalle voci, dalle immagini. Penetrato da oggetti, esche, sfavillii, sorgenti di contatto, promiscuità, transitivismi, seduzione e potere. Il limite – questa superficie, questa vescica, che io sono – è graffiato, eroso dallo sguardo. Anche dal mio? Ma certo! “Che importa chi guarda!”.

 

Lo sguardo cola dagli occhi, tocca senza metafore l’oggetto su cui si posa. In uno stesso movimento impossibile mi scivola dentro e mi rimbalza contro, cambia segno, per poi richiudersi vorace e goloso di sé sulla soglia attivo/passiva, sulle ciglia, da cui era partito.

 

Questo sguardo non è dentro di me, eppure non è fuori: “è ciò che io, queste parole, sono nei tuoi occhi”. Foucault diceva che “scrivere è incidere il corpo degli altri”.

 

 

Ars erotica e scientia sexualis

 

Per molti secoli società più evolute della nostra sono state in grado di integrare pubblicamente l’eros nei loro sistemi religiosi e culturali, alcune di esse hanno persino ritenuto che fosse il caso di insegnare alle persone come si fa l’amore. Per misurare la nostra distanza da tutto questo basta pensare all’imbarazzo e all’ilarità che potrebbe scatenare un Ministro della Salute (o dell’Istruzione) che relazionasse il parlamento sui benefici psicologici della masturbazione, o sull’allocazione di fondi PON per progetti scolastici che approfondiscano il delicato rapporto che intercorre tra angoscia e orgasmo.

 

Noi oggi insegniamo come si mette il preservativo, come evitare malattie e gravidanze indesiderate, educhiamo (giustamente) al consenso, all’affettività, alla possibilità di cambiare chirurgico-farmacologicamente genere. E poi c’è la sessuologia, la psicoanalisi, il Viagra, Tinder, gli strumenti per allungare il pene. Ma accanto e insieme a tutto questo non cessa di insistere la questione che Foucault ha perfettamente isolato nella Volontà di sapere, ossia che l’arte erotica specifica della nostra società – ciò che più perversamente ci eccita – è l’idea di una verità totale su noi stessi e sugli altri che si nasconderebbe ostinatamente negli interstizi del nostro sesso. Foucault ha dato a questa occulta e idealizzante arte erotica il nome di scientia sexualis. Una scienza nata con la clinica ottocentesca, e figlia delle perverse nozze tra Cristianesimo e Illuminismo, che trova il proprio piacere perverso nel ricavare insaziabilmente dal nostro sesso verità (igieniche, mediche, biologiche e psicologiche) capaci di definire la nostra più profonda identità – come singoli e come specie.

 

Se dal lato del sapere istituzionale la scientia sexualis ha trasformato il sesso in una questione “di verità” sempre più scientifica e oggettiva, dal lato pratico e della vita quotidiana essa ha contribuito all’avvitamento dell’eros reale in una dimensione sempre più privata e autoreferenziale (come è purtroppo accaduto parallelamente anche a quelle altre due esperienze umane fondamentali che sono il lutto e la festa). È un gioco truccato, come la storiella batesoniana del ladro di carriole: tutto è apparentemente rimesso a scelte individuali, con l’unico problema che l’individuale è esattamente ciò che in modo seriale e autoritario viene massivamente prodotto e riprodotto come modello a cui conformarsi. Come stupirsi poi se nella nostra società, all’apparenza così libera e democratica, omologazione e alienazione sono ironicamente rimaste le ultime grandi esperienze collettive, gli ultimi rifugi dalla solitudine a disposizione degli individui?

 

 

Soggetto e oggetto nella storia. Uno schizzo

 

L’Ottocento, secolo dello Stato borghese, pullula di romanzi erotici nello stile “confessione”, ma soprattutto segna la grande esplosione delle storie dell’orrore. Storie in cui l’automa, gli oggetti, i pezzi di corpo autosussistenti destano il più grande fascino e il più grande turbamento (Shelley, Poe, Hoffmann). Sarebbe interessante indagare le ragioni storiche di questa esplosione, il motivo per cui simili racconti – paradossali eredi del grottesco sei e settecentesco –probabilmente non avrebbero affatto impressionato un greco. Nel mezzo è avvenuta, senz’altro, una profondissima trasformazione. Se prendiamo per buono quello che ci dicono Aristotele e Artemidoro degli schiavi e dei padroni del loro tempo, dobbiamo ammettere infatti che i greci non percepivano affatto se stessi come soggetti nel senso in cui noi oggi intendiamo questa parola.

 

Per lungo tempo la parola “soggetto” non ha rappresentato niente di vivo. Lungo i secoli essa ha designato principalmente una funzione logico-grammaticale, o in alternativa uno strumento teorico-finzionale e passivizzante del diritto. In Aristotele hypokaimenon indica sì l’ousia, la sostanza, e persino la hyle, la materia, ma nella loro veste di funzione logico-grammaticale, di sostrato logico del predicabile. Nel diritto romano i subjecti (alieni juris) sono tutti coloro che sottostanno all’autorità del pater familias (schiavi, donne, figli). Lungo tutto il medioevo, e a tutt’oggi nell’inglese moderno, i subjecti/subjects non sono altro che i sudditi.

 

Come il soggetto, anche l’oggetto nella storia non ha sempre coinciso col suo significato attuale di merce, utensile o dato misurabile. Solo negli ultimi secoli il regno degli oggetti si è trasformato in oggettività. Dio è stato per lungo tempo un oggetto: sia nella forma degli idoli pagani e dei falli di creta, sia in quella “tutta voce” e “senz’anima” del dio ebraico, sia in quella addirittura teofagica dell’eucarestia cristiana. Lo schiavo poi, secondo la celebre definizione di Aristotele, è stato a lungo considerato uno “strumento animato”. Ma se guardiamo al di là della brutale reificazione dell’essere umano implicita in questa definizione per noi oggi ossimorica, possiamo realizzare fino a che punto nella ricchezza e nella complessità della cultura greca l’oggetto poteva benissimo essere qualcosa di vivo.

 

Nell’imboccare la strada stretta di una nuova erotica occidentale, dovremmo forse osare ripartire proprio da questa preliminare necessaria storicizzazione. Provare a vedere nell’oggetto un’esperienza profondamente differente da quella cosa passiva e inerte in cui la nostra più recente cultura lo ha imprigionato, per riscoprire nello stesso movimento il soggetto come un qualcosa che, essendo privo di “carne”, potrebbe strutturalmente non essere fatto per godere.

 

 

Funzione-soggetto e ideologia sul limite dell’eros

 

L’oggettualità, la dimensione che nell’eros ci interessa, è precisamente il rovescio di questo curioso soggetto interiore in cui – come il cane di Pavlov – tendiamo istintivamente a rincasare.

 

Foucault nel Potere psichiatrico ha chiamato funzione-soggetto l’effetto storico-politico maggiore di tutta quella serie di discipline, pratiche e istituzioni di cui siamo al contempo vittime e artefici. Questi “rituali”, così li chiamava anche Althusser, producono e riproducono l’identificazione dei corpi che siamo con il flusso di pensieri cosciente che li abita – ossia con ciò che l’ideologia neoliberale può meglio pilotare grazie all’incessante bombardamento condotto da istituzioni, media e politica.

 

Questa fantomatica funzione-soggetto non è un elemento teorico, è quanto di più reale esista al mondo. È la matrice del rapporto che ho con me stesso, la radice dell’idea di me che le dolcissime discipline contemporanee iniettano senza sosta nel corpo che sono. Non è un caso che a partire dagli anni Ottanta i film di fantascienza raccontino con insistenza sintomatica di un’umanità teleguidata, posseduta da entità estranee che abitano i corpi e li governano dal di dentro. Semplicemente: questo è ciò che fa l’ideologia. Crea, impianta, inietta nei corpi – letteralmente da zero, cioè a partire da altri corpi e dal discorso – l’esperienza normale che dobbiamo avere di noi stessi affinché tutto questo possa perpetrarsi. Zizek, Althusser e San Paolo docunt. La stessa parola ideologia, in fondo, è solo un’etichetta che affibbiamo ai più macroscopici effetti storico-politici dell’incessante brulichio di corpi e parole che siamo gli uni negli altri.

 

Questa peculiare esperienza della soggettività pone logicamente il godimento e la soddisfazione come diritti costituzionali, goals, caselle di una cheklist, desideri coscienti da realizzare, e così facendo – come un Cavallo di Troia – apparecchia la tavola delle più mostruose forme di masochismo morale (autosfruttamento/autodistruttività e depressione/melancolia) in cui oggi si sfoga il nostro dilagante disagio della civiltà.

 

 

Gli oggetti che, dunque, mi godono

 

Per far emergere nella sua purezza la funzione-soggetto, Lacan amava dire che “l’io non è un essere, è un supposto a ciò che parla”, ossia che l’Io (moi) esiste solo perché logicamente implicato nei nostri discorsi – discorsi che però, diversamente da lui, sono fatti di carne, di fiato, discorsi che entrano dentro a orecchie piene di cerume, che escono da bocche col fiato pesante o profumate.

 

Freud nel celebre saggio das Unheimliche comincia la propria indagine approfondendo le riflessioni di Ernst Jentsch, il quale nel 1906 aveva già isolato l’apice del perturbante a livello del disorientamento che proviamo quando qualcosa trapassa dallo statuto di oggetto a quello di soggetto e viceversa. Assistere a (o peggio, viversi come) questo trapassare è ciò che scatena l’angoscia tipica del perturbante.

 

Come il disagio che può provare una madre mentre viene succhiata dal proprio figlio, o come la strana vertigine che ci coglie le prime volte che parliamo in pubblico, o come il giorno in cui quel dannato pezzo di corteccia era una locustache mi è saltata addosso.

 

Può trattarsi della volta in cui ho provato estraneità per la mia voce registrata, della volta in cui lo specchio mi ha restituito un inatteso sguardo di disapprovazione, o ancora di quella urgenza che alcuni hanno di rivestirsi (almeno con le mutande!) appena esaurita la confusione dei corpi.

 

Qualcosa che si fa prendere per me sprofonda nell’orrore ogni volta che mi incontro come oggetto. Nell’imminenza di quest’esperienza impossibile qualcosa combatte, si dibatte dentro di me, lotta per non scomparire. Mentre ci tocchiamo, il soggetto-della-coscienza trema di paura.

 

 

Il soggetto non è fatto per godere… che al suo svanire

 

Certo il pensiero – come l’aria nella pancia – vive e si agita in noi, ma ciò non vuol dire che lo siamo. Allo stesso modo, “essere coscienti” non implica logicamente l’esistenza di un sub-jectum a cui imputare tale condizione, né tanto meno si identifica necessariamente con un atto di pensiero. Come obiettava il buon Hobbes alla res cogitans di Cartesio “il fatto che sto passeggiando non mi rende una passeggiata”.

 

Il corpo che gode di sé come oggetto attivo-passivo, raggiunta l’altra sponda dello specchio, vede sfarinarsi la propria identificazione con il soggetto-del-pensiero.

 

Nel Seminario XI, per esemplificare l’ambiguità e la reversibile attivo-passività del farsi oggetto, Lacan prende in considerazione il farsi vedere. Farsi vedere significa infatti sia svanire interamente nell’oggetto che offriamo allo sguardo altrui, sia inabissarsi senza scarti in quello sguardo che – come una sanguisuga – respira ogni movimento della sua preda.

 

Per usare un’immagine ancora più contratta, possiamo pensare a una qualunque esperienza narcisistico-primaria di autoerotismo non-genitale (tipica dell’infanzia, ma non infrequente nell’eros e nell’ebbrezza adulti). Pensiamo a quando mi mordo un braccio. Guarda! Mentre mi mordo io sono sia il morso (la bocca che morde), sia il morso (la pelle che viene incisa). E anche quando ti mordo – se ci pensi bene – tu sei come la corda di uno strumento, che vibra, rintocca, scandisce l’ora impossibile della mia simultanea attivo-passività. E così io per te.

 

Il soggetto cognitivo è una testa di morto, un cadavere su cui si scrivono lettere d’amore. Io la scriverò sul tuo, mentre il corpo che sei guizza, suda e scrive, sul mio.

 

Una nuova erotica occidentale ci chiama a riscoprire nell’eros l’assoluta non-necessità e la storicità della nostra identificazione con il pensiero, ci schiude l’orizzonte dolce e vertiginoso di un differente rapporto con noi stessi. L’orizzonte inedito di un’altra dimensione della riflessività umana, finalmente capace di disfarsi di quel ferrovecchio chiamato autocoscienza, di quell’assurda e inveterata forma di riflessività che mi interpella come il pensante del mio pensato.

 

L’eros ride del soggetto che si pensa e si progetta, sa meglio di lui, meglio di me, che la riflessività umana reale è altrove: nei corpi parlanti e patenti che si toccano. L’eros ride anche di loro, ma come di sé.

 

E anch’io non so più dire se sia l’eros a ridere di me, o io in lui. Mi sento riderne, e in questo riso – come sarebbe piaciuto a Bataille, che lo chiamava il non-sapere – avverto l’imminenza di un’altra esperienza della riflessività, il salto logico che fonda un nuovo rapporto con se stessi e con gli altri. Il corpo che si tocca è il rovescio del soggetto che si pensa, ne esige il sacrificio, alza il sipario sulla vertigine che proviamo nell’incontrare noi stessi e gli altri come oggetti attivo/passivi di godimento.

 

E la coscienza? Come avevano già visto Freud e Lacan, “essere coscienti” potrebbe non significare altro che l’attenzione rivolta agli eventi – interni o esterni – che ci investono. Una soglia pulsionale attivo-passiva che, come Giano, si affaccia su due fronti e in modo intermittente. Uno specchio liquido, concavo, in cui vedere finalmente “curvarsi” la nostra esausta estetica trascendentale kantiano-newtoniana, in cui vedere “liquefarsi” quel rapporto all’apparenza così autoevidente tra spazio, tempo e materia che (nonostante Einstein e la fisica quantistica) ci ostiniamo sintomaticamente a chiamare la realtà.

 

[Silvia Mengoni, “Adiacenze”]

 

La cosa che l’immagine nello specchio guarda

 

Tutto nelle nostre vite è progetto, proiezione di sé, raffinato gioco di specchi che ci previene dall’incontrarci come oggetti, persino quando ormai siamo concretamente gli uni dentro gli altri. Consumo posizionale e autoimprenditorialità, le due grandi forme nevrotiche di soddisfazione che siamo riusciti a produrre all’apice della nostra civiltà, sono esperienze in cui si soddisfa un soggetto, un progetto. Sarà per questo che, a volte, i momenti di maggiore inquietudine e frustrazione giungono nelle esistenze delle persone quando i loro desideri coscienti hanno l’impertinenza di realizzarsi. Si tratta di sensazioni perturbanti, che si concretizzano in esperienze di sdoppiamento e a volte persino in fenomeni di depersonalizzazione, come nel caso del mancato riconoscimento di quell’immagine estranea e minacciosa che mi fissa con ostinazione dallo specchio. Ma niente paura, non è l’anticamera della psicosi, è solo che effettivamente io – che parlo, che sono sotto il tuo sguardo – non sono un’immagine.

 

Io non sono l’immagine nello specchio, ma “la cosa” che la mia immagine nello specchio guarda.

 

Un’immagine ti risucchia, si salda al flusso di pensieri coscienti che ti abita e si fa prendere per te, ma non è con lei che gli altri fanno l’amore – e nemmeno tu. Come potrebbe questo questo malinteso – fomentato dai social, dai curriculum, dalla pubblicità – non incidere sul modo in cui facciamo l’amore e viviamo il nostro farci oggetto nell’eros?

 

Come se, sorpresi mentre spiamo qualcuno, ci accorgessimo nell’angoscia di essere l’unica cosa di quella scena che non potevamo vedere: l’occhio che la guardava.

 

Il soggetto interiore in cui siamo indotti vicendevolmente a supporci ha la precisa funzione politica di mantenerci impercettibilmente separati da noi stessi e dagli altri. A che pro? Per dirottare al meglio questo isolamento e questa  frustrazione sulle forme di soddisfazione surrogata più congeniali alla riproduzione degli odierni rapporti di produzione (consumo posizionale e autoimprenditorialità). Il masochismo morale e il super-io se ne nutrono, stringono il loro cappio ancora un po’ più stretto ogni volta che accettiamo di assecondarle.

 

 

Mentre pensa parla… e ascolta. Non è colpa tua Renée, nemmeno tua Edmund!

 

Se per uscire dal solipsismo Cartesio si serve di dio, della sua veracità e dell’antico escamotage anselmiano della prova ontologica, Husserl qualche secolo dopo nella Quinta delle Meditazioni Cartesiane userà invece il grimaldello dell’alter ego e dell’apprensione analogica. Con Husserl, la supposta interiorità dell’altro diviene niente meno che la garanzia dell’esistenza della mia. A questo palese sofisma, nel suo celebre saggio degli anni Quaranta sul Tempo logico, Lacan risponde con quello dei tre carcerati. Al termine del saggio, burlandosi un po’ del povero Husserl, lo psicoanalista francese ci dà infatti a intendere che l’urgenza stessa che abbiamo di dirci Uomini (ossia l’istinto che abbiamo di interpellarci come soggetti-della-coscienza) potrebbe provenirci da una certa qual fretta, da una non meglio definita paura che proviamo all’idea che qualcun altro possa dirsi tale prima di noi – facendoci così suo oggetto.

 

Non erano in pochi negli anni Quaranta (e fin dai tempi di Marx) a sapere che il soggetto-della-coscienza esiste soltanto perché è storicamente iniettato nei corpi parlanti per mezzo del discorso. È proprio grazie alla rimozione di questa perturbante verità che i corpi, proprio come i servi che oggi quasi tutti siamo, non cessano di scambiare ciò che li rende schiavi (il pensiero, il padrone, un discorso dominante) per la parte più “sacra” di loro stessi.

 

Quale che sia la genealogia che scegliamo di lavorare (quella più filosofica e razionalista – da Cartesio a Husserl, o quella più politica ed empirista – da Locke a Bentham, via Smith), il povero soggetto del pensiero ha sempre lo stesso bug, lo stesso errore di sistema: mentre cerca di convincerci che è dove pensa, calcola e ragiona, in realtà non è mai stato altrove che qui – dove scrive, agisce, patisce, vive.

 

L’identificazione con il soggetto del pensiero è letteralmente fondata sulla rimozione fondamentale dell’attivo-passività etica umana, in gioco nella scrittura come nell’eros. Quest’altra riflessività – etica, non gnoseologica, in cui il corpo usa di sé – è il punto cieco, lo scotoma, la più occulta posta in gioco, degli ultimi due secoli (liberali e neoliberali) di storia della soggettività.[1]

 

 

Niente panico… sei solo tu

 

Angoscia, panico sono nomi che diamo ai momenti in cui la nostra identificazione con la funzione-soggetto vacilla, aprendoci a esperienze appena un po’ differenti di noi stessi e del nostro rapporto con gli altri. Pur non avendo nulla di misticheggiante (nel senso deteriore del termine), queste altre esperienze – come diceva Bataille – sono spesso in grado di far rintoccare in se stesso il limite che siamo.

 

All’infuori delle due principali forme di difesa dall’angoscia erotica (ossia la vulgata romantico-fusionale e quella biologico-istintiva/usa-e-getta), per fare bene l’amore con qualcuno spesso è importante non riconoscerlo troppo come un soggetto. Riconoscere troppo l’altro come soggetto impedisce di onorarlo come oggetto, impedisce che l’altro si goda. Anche se la cosa può apparire contraddittoria, a volte è proprio grazie a questo reciproco disconoscimento delle nostra soggettività  in gioco nell’eros che può sbocciare una nuova, differente, impossibile intimità. Bataille parlava della comunicazione erotica (e non) come di una reciproca lacerazione di involucri, ferite aperte che fluiscono una nell’altra. Ma attenzione! Gli involucri da squarciare non sono i corpi, ciò che dev’essere lacerato è il dentro, l’interiorità in cui i corpi – proprio come all’inizio di Matrix – sono paradossalmente imprigionati.

 

A tutti è capitato qualche volta di provare nausea accanto ai corpi evacuati del godimento, di fronte al pulsare ormai de-sessualizzato degli oggetti che siamo nel reale. Si tratta senz’altro di esperienze disturbanti, che però ci offrono anche la chance di fare pace con l’angoscia dello scoprirci oggetti.

 

Questo sacco di pelle che non ti contiene e che ora finalmente vedo come una soglia, uno star-gate, il bacio di due superfici. Queste labbra che posso tirarti e sembrano di gomma, il dentro della tua bocca, la consistenza spugnosa delle tue gengive. I piccoli peli che crescono e dondolano come i giunchi di uno stagno in posti segreti che prima non avrei mai potuto vedere.

 

La nausea è fuga, immobile, da se stessi. Fuga dagli oggetti in cui ci siamo confusi e che ora, estinto il desiderio, riprendono ognuno il proprio posto come seriosi estranei. Eppure è proprio qui, sui corpi evacuati del godimento, che resistendo alla nausea posso fare pace con l’orrore per gli oggetti che dunque sono. Sull’altare del corpo evacuato dal godimento, senza rifuggire la nausea, posso perdonare, amare persino, questa oggettualità. La mia o la tua? Ma che importa!Vagando come cani senza padrone tra i nostri resti, annusando gli oggetti in cui abbiamo imparato a disconoscerci, possiamo finalmente perdonarci a vicenda di una colpa che non abbiamo mai avuto.

 

Il sesso in fondo non ha nulla di così eccezionale o pericoloso, non contiene nessuna preziosa verità trans-storica su noi stessi e sulla nostra identità. Il tabù, il comandamento che una nuova erotica occidentale dovrebbe piuttosto osare trasgredire, per sedurre e diffondersi oggi come un gravido virus etico-politico è: “Non attentare alla tua identificazione con il soggetto-della-coscienza”.

 

Dovremmo osare infrangere questo interdetto, senza paura, per accorgerci finalmente che ciò che cerchiamo (nell’erotismo e nella vita) non è esattamente un oggetto fuori di noi, bensì noi stessi in quanto oggetti. Perché quello che ci manca non è un oggetto esterno, ma una parte di noi stessi che solo l’incontro con un altro corpo può restituircifosse anche, al limite, l’incontro con quel quasi-altro corpo eternamente “rimosso” che io sono per me stesso – come nel caso dell’(auto)erotismo o del suonare uno strumento.

 

Quella voce, che mi accorgo di essere, perché i tuoi occhi mi fanno capire che mi ascolti; quelle braccia in cui finalmente mi riconosco, perché ti stringono e le accarezzi. L’immagine del mio volto, che non mi tormenta più come un rimprovero, e che ora riscopro come uno dei tanti modi in cui abito gli altri e persino me stesso – come quando mi scorgo riflesso nella pupilla del mio amante, in quella di mia figlia o più semplicemente nello specchio.

 

 

[1]          Cfr. le preziose le considerazioni di Giorgio Agamben ne L’uso dei corpi, Neri Pozza 2014. 

1 thought on “Appunti per un’erotica occidentale

  1. Bellissimo articolo, mi ricorda moltissimo il monologo di C. Bene in “Nostra Signora dei turchi”: “Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono. È l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sè, dentro un altro oggetto. Tutto quanto è diverso, è Dio. Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci la bocca sei tu. Divina è l’illusione”

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