a cura di Maria Borio e Laura Di Corcia
Per il secondo ciclo di riflessioni attorno al tema dell’autenticità e la poesia, oggi risponde Matteo Fantuzzi.
Per iniziare un ragionamento sul tema dell’autenticità in poesia e, affrontandolo, immaginare un avvicinamento con quello della verità, allo stato attuale credo il testo di Antonella Anedda sia il più adatto:
Non volevo nomi per morti sconosciuti / eppure volevo che esistessero / volevo che una lingua anonima / – la mia – / parlasse di molte morti anonime. / Ciò che chiamiamo pace / ha solo il breve sollievo della tregua. / Se nome è anche raggiungere se stessi / nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino. // Non ci sono che luoghi, quelli dell’isola / da cui scrutare il Continente / – l’oriente – le sue guerre / la polvere che gettano a confondere / il verdetto: noi non siamo salvi / noi non salviamo / se non con un coraggio obliquo / con un gesto / di minima luce. [1]
Pensato per una specifica guerra, assume dentro di sé i contorni di tutte le guerre. L’inadeguatezza della singola persona che guarda da una posizione non interna la sommatoria di eventi che accadono attorno a lei registra bene quello che significa oggi scrivere da un Occidente libero dai conflitti.
La dichiarazione di intenti di Antonella Anedda è in questo senso “onesta”. Le vittime non conosciute direttamente non hanno nomi (o ancora meglio mantengono dentro di loro qualsiasi nome), ma non per questo non esistono, non sono morte e non continueranno a morire. Anedda decide di rompere il silenzio attorno a queste morti a noi invisibili raccontandone il destino e sperando di dare con la propria parola – almeno indirettamente – una piccola luce. Se questa è la linea esterna e occidentale, altrove non accade certamente così:
E’ notte / e in contemporanea / cadono i colpi / su me, Siria e Baghdad. // Mi siedo sul divano / e accendo / la dolce tortura. // Il notiziario di me non dice nulla, / il notiziario dà solo notizie / per coprire notizie. // E’ notte / le formiche / spostano l’angoscia della terra. // E’ notte / e io assomiglio più alla guerra / che a mia madre. // E’ notte / e ho occhi / sanguinanti / come i pozzi di Khorramshahr. // E’ notte / e le nuvole nel cielo / interrano la luna. // E’ notte / e io dovrò / da qualche parte iniziare questa storia: [2]
Garous Abdolmalekian, nato nel 1980, è il più potente cantore degli eventi tragici che hanno caratterizzato negli ultimi decenni la sua terra, l’Iran, e in generale quell’area geografica, tra moti religiosi e controllo del petrolio. A farne le spese ancora una volta sono le popolazioni e se altri non vengono nominati, come nella poesia di Antonella Anedda, qui l’unico protagonista certo è chi scrive, per l’appunto, il poeta. Le bombe sono reali, vengono sganciate sulla testa dell’autore che rischia la vita mentre, in maniera cronachistica, racconta la propria realtà e ce la consegna, ma cadono anche a molte centinaia di chilometri di distanza in una condivisione di lotta e di resistenza “impossibile” da non sentir propria una comunanza intercettata molti decenni fa, ad esempio, da Giovanni Giudici in una lettera inviata a Franco Fortini:
[…] Guardiamoci dall’ideologia facile e allora poniamo il problema di come motivare la contestazione. Limitarla nell’area letteraria specifica (quando, naturalmente, specialisti d’altri settori specifici) e motivarla al livello dell’efficacia. Rifiuto dell’aura allusiva, del come tutti sanno ecc. Motivarla al livello del self-brain washing, anche ai fini dell’esperienza inventiva personale ecc. Questo per non svelare i piani e per non farci il vuoto attorno.
Soffermiamoci un momento sul “sofisma ontologistico della ‘contestazione che la poesia opererebbe per il solo fatto di esistere’”: non credo di aver detto nulla di simile, bensì di aver battuto sul valore episodico, occasionale e non sistematico della poesia come contestazione. E non mi è molto chiaro in che modo (pag. 4 tua) “l’atto del respingere non dovrebbe essere tanto interno al discorso poetico quanto esterno”. Vuol dire che un certo tipo di poesia, anzi un certo tipo di intenzione poetica sia da incoraggiarsi a preferenza di un altro o di altri? Tendenzialmente sarei d’accordo, ma con estrema cautela: una certa contestazione esterna sul piano invettivo è stata a loro modo assunta dai neo-avanguardisti, sia pure in termini di mero formalismo o quasi: ma è proprio il loro tallone d’Achille. […] [3]
In “Una visita in fabbrica” Vittorio Sereni ricuce il margine che la contemporaneità sembra avere prodotto tra autenticità e verità, raccontando “esternamente” la vita degli operai della Pirelli in cui egli stesso lavorava da “quadro”, addetto all’ufficio stampa e propaganda tra il 1952 e il 1958 (anni riportati in epigrafe al testo). Ancora una volta fondamentale è il tema della condivisione di una situazione precaria, lacerante e disumana, ma il punto di fuoco è la necessità individuale, la spinta interiore. Non è un caso che questo poemetto esca per la prima volta [4] sul numero 4 de “Il Menabò” a tema “Industria e letteratura” assieme ai contributi di Luigi Davi, Giovanni Giudici, Lamberto Pignotti e Ottiero Ottieri.
Ancora in treno, l’indomani, i giornali scrivevano di un delitto al lago di S. Biagio, assai oltre la fabbrica, assai oltre. E non era un delitto industriale.
Con quest’ ultima frase si conclude “Donnarumma all’assalto”, precisamente di Ottiero Ottieri, romanzo della fabbrica come impossibile paradiso, dove la necessità di farne parte all’interno di una realtà in grave difficoltà economica diviene per gli abitanti del territorio l’unica possibilità di sopravvivenza.
Inserite in questo contesto le storie raccontate da Vittorio Sereni e Ottiero Ottieri risolvono con soluzioni formali totalmente diverse la stessa equazione sostanziale. Manca in entrambi i casi l’ideologia che sembra attanagliare Fortini ma non risolve nell’attualità quello che, ragionando sulla fotografia, ha definito in maniera molto precisa Roland Barthes:
[…] Purtroppo, sotto il mio sguardo, molte foto sono inerti. Ma anche fra quelle che ai miei occhi hanno una qualche esistenza, la maggior parte non suscita in me che un interesse generico e, se così si può dire, educato: in esse non vi è alcun punctum: esse mi piacciono o non mi piacciono senza pungermi: sono investite unicamente dello studium. Lo studium è il vastissimo campo del desiderio noncurante, dell’interesse diverso, del gusto incoerente: mi piace / non mi piace, I like / I don’t. Lo studium appartiene all’ordine del to like, e non del to love; esso mobilita un semi-desiderio, un semi-volere; è lo stesso genere d’interesse svagato, piano, irresponsabile, che mostriamo per certe persone, certi spettacoli, certi vestiti, certi libri, che definiamo «buoni». […] [5]
Come uscire dunque dall’interesse generico che appartiene allo stesso like/dislike individuato da Barthes e oggi nuova condanna dell’orizzonte dei social? Credo che entrando nella dimensione contemporanea e guardando alle opere prossime o del recente passato la vera discriminante non sia esplicitamente da cercare nell’autenticità o nella verità, nella presenza dei nomi reali o di quelli fittizi, artificiali. Piuttosto è la forma dell’inerzia ad aver coinvolto molte delle nostre opere, perfino quelle che si rivolgono all’autofiction non tanto per dare luce a una questione o a una problematica, quanto alla propria persona in maniera fittizia, inerte, artificiale.
Dunque come procedere oggi nel racconto, nella poesia, per assicurare l’autenticità e garantire attraverso la verità un patto di fiducia con il lettore?
A mio avviso sempre minore spazio dovrebbe essere dato all’autore, alla sua figura, alle personali idiosincrasie e pulsioni, e sempre maggiore spazio all’opera, al testo, ai protagonisti, alle vicende che ruotano attorno ai personaggi, alla storia complessiva e al pensiero che suscita. In questo senso abbiamo forse un punto di riferimento prossimo in poesia che tendiamo a dimenticare, non solo perché poeta in lingua dialettale, ma perché l’impianto mostrato nel corso della vita ha è andato oltre l’autofiction, è riuscito a intercettare un’umanità in costante cambiamento che, come accaduto in Giovanni Giudici, Elio Pagliarani e in parte Vittorio Sereni, è riuscita a fotografare una trasformazione verso una realtà nel quale il peso anche ideologico del singolo è diventato tremendamente più importante rispetto a quello dell’attorno. Ciò ha generato una solitudine non solo umana ma anche letteraria che necessiterebbe di un Risorgimento che a fatica riusciamo a rendere nostro, come se fossimo noi i protagonisti di questo testo, così iconico e purtroppo dimenticato.
Tv E la televisòun ch’la andèva, cino, / canzunètti, lavato con Perlana, / telegiurnèl, Quark, Oggi al Parlamento, / Campionati europei, Uno mattina, / Special Rock, Linea verde, un dè e una nòta, / pu qualcadéun l’à próv da sunè, gnént, / l’è vnu al guèrdi, i à sfònd la pórta, léu / e’ stéva alè d’avdài, a bòcca vérta, / se sofà, in canotira, un braz spandléun, / e ma tèra un bicìr, un fiasch arbólt, / ‘na macia nura e una nóvvla ‘d musléin. [6] [7]
[1]Antonella Anedda, da Notti di pace occidentale, in Tutte le poesie p. 94 Garzanti, 2023.
[2] Da Poeti iraniani dal 1921 a oggi. A cura di Faezeh Mardani. Traduzioni di Faezeh Mardani e Francesco Occhetto, Mondadori 2024.
[3] Giovanni Giudici, lettera a Franco Fortini, 2 Gennaio 1964 da Carteggio 1959-1993 a cura di Riccardo Corcione, Olschki Editore 2018, pp.107-108
[4] Una visita in fabbrica troverà la propria collocazione definitiva ne Gli strumenti umani.
[5] Roland Barthes, La camera chiara. Einaudi 1980. pp. 28-29.
[6] Trad. Tv. E la televisione che andava, film, / canzonette, lavato con Perlana, / telegiornale, Quark, Oggi al Parlamento, / Campionati europei, Uno mattina, / Special Rock, Linea verde, un giorno e una notte, / poi qualcuno ha provato a suonare, niente, / sono venuti i vigili, hanno sfondato la porta, lui / stava lì a guardare, a bocca aperta, / sul sofà in canottiera, un braccio penzoloni, / e per terra un bicchiere, un fiasco ribaltato, / una macchia nera e un nuvolo di moscerini.
[7] Raffaello Baldini, Ad Nòta, Mondadori, Milano 1995.