a cura di Maria Borio e Laura Di Corcia
Per il secondo ciclo di riflessioni attorno al tema dell’autenticità e la poesia, oggi risponde Lorenzo Mari.
Mi sembra che un questionario sull’autenticità esiga una risposta che sia a propria volta autentica. Di conseguenza, più che il tentativo intellettuale di tracciare una storia culturale dell’autenticità – secondo una consapevolezza del contesto storico e culturale che pure può, o dev’esserci, ma che, personalmente, non sono in grado di delineare quale vista d’insieme – il quesito mi interroga rispetto a quanto dell’autenticità è, secondo la traccia heideggeriana, “appropriazione”, ovvero come si possano assumere come “proprie” cose e esperienze all’interno di un “progetto di esistenza”. Appropriazione che, rifrangendosi nei confronti dell’autenticità, diventa in qualche modo doppia (o forse multipla, perché, com’è già stato sottolineato anche in altri contributi, vi è sempre una doppiezza di fondo inerente all’autenticità) e quindi, auspicabilmente, autoriflessiva.
Scelgo allora uno specifico momento della storia culturale dell’autenticità, che forse risponde meglio di altri alle mie specifiche modalità di appropriazione, e cioè anche al mio, per usare uno strumento concettuale più aggiornato, posizionamento. A questo proposito, credo, e lo dico en passant, che il posizionamento – politico e culturale, se non anche poetico, o di poetica – debba fare i conti con l’autenticità; anzi, credo che questo sia uno dei primissimi passi che si possono fare, anche per cercare di aggirare – se possibile – quel problema delle politiche identitarie che troppo spesso, in tempi recenti, attanaglia i posizionamenti singoli e collettivi.
Tornando allo specifico momento che sceglierei, nella storia culturale dell’autenticità, si tratta della cosiddetta “morale dell’autenticità”, elaborata da Sartre in primo luogo nei Carnets de la drôle de guerre, compilati nei primi mesi della seconda guerra mondiale. «L’autenticità consiste nel rifiutare la ricerca dell’essere», scrive Sartre, mettendo al bando quelle verità e quei significati ultimi che cerchino di esprimere un in-sé. In funzione di questo, l’autenticità non corrisponde mai, ad esempio, alla sincerità, visto che quest’ultima cerca inutilmente di cristallizzare l’“Io sono” in “Io sono questo”. Affermare tutto questo, d’altra parte, non vuol dire rinunciare alla «conversione» – per usare un termine sempre sartriano – richiesta dalla ricerca dell’autenticità: l’autenticità, lontana da ogni oggettivazione e cristallizzazione, non può che farsi e rifarsi continuamente, essendo legata alla libertà, e più specificamente, secondo Sartre, alla libertà in situazione.
Un altro tratto che mi sembra straordinario di questa “morale dell’autenticità” – apparentemente lontana, in principio, da ogni ideale e moralità – è l’evocazione di un opposto dell’autenticità che Sartre definisce, con un termine che di primo acchito appare molto connotato, come «malafede». (E sarebbe “malafede”, dunque, anche la sincerità…). Si può aggiungere, in tema di paradosso, come Sartre traduca come “autenticità” quello che in Heidegger è più precisamente Eigentlichkeit e Uneingentlichkeit, ovvero le qualità del “proprio” e dell’“improprio”: la stessa storia culturale dell’autenticità è dunque (e inevitabilmente, vista la sua doppiezza autoriflessiva) piena di ambiguità, deviazioni, distorsioni, etc.
Per restare alla «malafede», questa rivela la «coscienza in sé stessa (nella sua immanenza)»: è uno stato di negazione, in cui si dà allo stesso tempo un’angoscia e il tentativo di sfuggirvi. La ricerca dell’autenticità avrebbe dunque a che fare più con la coscienza – in una relazione dialettica rispetto alla “negazione” costituita dalla “malafede” – più che con un ideale o con un valore in sé. Semmai, il problema dell’autenticità è stato spesso cooptato (surrettiziamente risolto e cooptato) dentro altri ideali, altre assiologie, etc., ma la questione, nel suo rapporto interiore con la coscienza, non può che resta aperta, nel suo farsi e rifarsi continuo.
Allo stesso tempo, penso che i nostri tempi non siano necessariamente più inautentici di quanto lo siano mai state altre epoche nella storia del capitalismo moderno, intendendo con questa espressione ciò che è avvenuto dalla metà del Settecento in poi. «Non si dà vita vera nella falsa» (Adorno) e «non si dà vita vera se non nella falsa» (Fortini): descrizioni icastiche che continuano a essere valide, insieme, fintantoché si è all’interno di una storia e di una società capitalista. E tuttavia, anzi, proprio per questo, ponendosi il rovello dell’autenticità – o anche, come preferirei dire, quello della coscienza – non si può che ricominciare, dialetticamente.
La letteratura si presenta – al momento, e cioè in assenza di rivoluzione, o comunque di un cambio sistemico radicale – come locus privilegiato di questa continua riproposizione dialettica. Ciò on accade soltanto nei territori che sembrano più affini all’autenticità, perché superficialmente più legati a una storia di un “soggetto” o di un “individuo”, come quelli della scrittura autobiografica o della lirica confessionale. Anzi, per questi ambiti vale ancor più da vicino il rischio della “malafede” – intesa non come giudizio morale, ma, di nuovo, filosofico. Vale per ogni scrittura, nel momento in cui inizia a pensarsi ed essere pensata, ad agire ed essere agita, al di fuori di una monadologia perfettamente conchiusa in sé stessa. Se, com’è stato variamente suggerito, in primis da Sulla poesia moderna di Guido Mazzoni, si considera la storia della lirica moderna come un panorama fitto di monadi, porsi il problema dell’autenticità significa abbandonare scelte di campo aprioristiche, per quanto precise, e porsi il problema di come l’autenticità possa essere di volta in volta verificata, nel suo farsi e rifarsi continuo, attraverso la forma.
L’autenticità, potrei dire in una battuta, mi si presenta come un problema continuamente aperto, veicolato dalla dialettica tra forme e informe.[1]
Oltre ad aprire alcune questioni più specifiche, mi sembra che questo tipo di approccio possa raccogliere e rielaborare questioni che altrimenti, se considerate singolarmente, potrebbero apparire già risolte o superate. A tal proposito, mi sembra che il dibattito sulla “postura del soggetto” in poesia abbia raggiunto, negli ultimi decenni, un livello di approfondimento e di articolazione tale da rendere estenuato ogni rilancio. Tuttavia, ci si è forse concentrati maggiormente sul “soggetto” – cercando di perpetuarne, o di metterne in crisi in modo radicale, la tradizionale unità trascendentale, pertinente alla ragione filosofica classica – che non sulla sua “postura”. Quest’ultima richiama la possibilità di una “impostura” che, in effetti, ha evidentemente qualcosa a che fare con l’autenticità di cui ci occupiamo in questa sede: esistono, però, posture che si possano distinguere nettamente dalle imposture?
Una possibile verifica si può situare ancora una volta al livello della forma: Roberto Cescon, ad esempio, ha elencato nel suo contributo varie strategie formali di de-individuazione, già emerse nella seconda parte del Novecento – come la drammatizzazione, le maschere, etc. – che hanno ampliato il ventaglio delle possibili posture del soggetto, al di là della dicotomia di base, già menzionata, e correlata alla sua presupposta unità trascendentale (ricordando da vicino un’altra dicotomia un po’ consunta come quella tra “poesia (post-)lirica” e “scritture di ricerca” variamente neo/post-avanguardiste).
Ed è a partire dal piano delle forme che si può pensare una “postura relazionale”, com’è stato già proposto, senza fare feticcio, ideologia o imperativo morale appunto della dimensione relazionale. Tale verifica, del resto, resta valida anche per la lettura di tutte quelle scritture che non sono in stretto contatto con questa recitazione (“molto italiana”, direbbe lo Stanis di Boris) che è la “recitazione (più o meno) a soggetto”. In altre tradizioni letterarie (e certamente nelle tradizioni letterarie che presentano uno scarto di alterità sulla soglia del cosiddetto “dibattito poetico italiano”, perché da questo non considerate), ci sono non soltanto diversi procedimenti di costruzione del soggetto, ma anche di identità solide, o solidissime. Non per questo, tali scritture, se poste al vaglio della forma, intendono né forse riescono a sottrarsi al rovello dell’autenticità/coscienza; anzi, declinano tali concetti in altri modi, entro specifici ideali, assiologie, etc., di volta in volta disponibili per l’analisi.
A titolo di esempio, vorrei rinviare brevemente alla scrittura poetica di Audre Lorde, che cinquant’anni fa scriveva, in Black Mother Woman (1973): «Ma ho sbucciato la tua rabbia / fino al nocciolo dell’amore / e guarda madre / Io Sono / un tempio oscuro da cui si innalza il tuo vero spirito / bella / e dura come castagno / puntello al tuo incubo di debolezza / e se i miei occhi / nascondono uno squadrone di ribellioni in conflitto / ho imparato da te a definire me stessa attraverso i tuoi rifiuti»[2]. Poco tempo dopo, Lorde scriveva la lunga pseudo-villanella Blackstudies (1974) che, nella strofa conclusiva, propone uno «Stepping into my self», che, per quanto faccia parte della stessa topica introspettiva di Black Mother Woman, ha un carattere prima di tutto difensivo e non rivendicativo: nei versi traspare l’esperienza di Lorde che, all’epoca, si era ritrovata ad essere la prima docente nera del John Jay College of Criminal Justice (ex-COPS, College of Police Science) della City University of New York, frequentato in prevalenza da ufficiali di polizia maschi, bianchi e bene armati. Il percorso della coscienza, all’interno di un posizionamento intersezionale come quello di Lorde, non poteva che seguire tracciati molto diversi da quelli proposti dalle nostre dicotomie, e questo senza nulla togliere alla cogenza e bellezza del suo verso poetico.
Questo breve riferimento alla poesia di Lorde, che meriterebbe ben altra trattazione, dimostra anche come il piano dell’etica e, soprattutto, quello della politica si infiltrino di continuo nella discussione dell’autenticità, ponendo innanzitutto il problema della coscienza e, in seconda battuta, la possibilità di un discorso valoriale.
Come ho già provato a suggerire in precedenza, la “franchezza”, l’“integrità”, o anche l’“onestà” (ad esempio, nella “poesia onesta” come parte integrante della poetica di Saba) – per non parlare della “sincerità” che generalmente si associa alla letteratura confessionale – non mi sembrano elementi direttamente costitutivi dell’autenticità, pur potendo certamente connotarla in un secondo momento. Probabilmente continuo ad esercitare, a mio modo, il tradizionale sospetto sul “parlar franco” di cui si fa menzione nel questionario, ma è un sospetto che non nasce da una diffidenza cinica o nichilista; proviene, al contrario, da una sorta di idealizzazione: non tanto dell’etica, quanto dell’integrità politica cui si faceva riferimento in merito al “parlar franco” riattato da Pasolini.
Per cercare di spiegarmi meglio, rinvio a un dato aneddotico, che però forse non è esclusivamente tale. Noto, negli ultimi anni, nelle occasioni pubbliche della poesia o anche in alcuni scritti forse non molto meditati, la frequente tendenza idealizzante, consolante e autoconsolatoria, all’esclamazione: “e questo è etico!”, “e questo è politico!”. Sono sintomi, spesso, che procedono da un piano schizoide dell’analisi, molto lontana dal testo e persa nelle circonvoluzioni del pensiero critico (molto spesso, come si sa, en poète) oppure legata a singole occorrenze, rinvenibili a livello microtestuale. (Sintomi di una spinta de-ideologizzante così forte, negli ultimi trenta, quarant’anni, da farsi a propria volta costruzione ideologica…). Manca, ancora una volta, il piano della verifica delle forme: piano che, come ho cercato di suggerire in modo molto abbozzato, ha a che fare con la politica del testo (in relazione alla coscienza/autenticità) più che con la sua etica (in relazione a un assetto valoriale, che con il suo carattere di im-posizione, potrebbe ricalcare le “imposture” di cui si diceva).
Si potrà dire: se ci si trova esclamare e questo è etico!, oppure e questo è politico!, “…è già meglio di niente”. Personalmente, se devo pronunciare queste stesse parole, preferisco leggerle verbatim in una poesia, come traccia di un posizionamento che trova pienamente espressione sul piano formale. Mi accade, ad esempio, di leggerle all’interno di un percorso di scrittura altamente formalizzato, e consapevole dell’importanza delle forme, come quello di Giuliano Mesa; si tratta di una poesia dei Quattro quaderni (2000) che mi sembra infine opportuno riportare qui per intero, ritrovandovi quel processo continuo di approssimazione – o di avvicinamento, «che suona meglio» (anche dal punto di vista formale e micro-testuale) – alle questioni che sono e in cui siamo continuamente in gioco, parlando di autenticità.
(di una vita non rimane quasi niente
e quello che rimane, spesso, non è vero)
(prendi a misura, adesso, cos’è il rumore,
fuori, della notte)
(di più falso non c’è nulla
che il voler dire il vero)
(è vero questo approssimarsi.
è vero che a qualcosa, sempre,
noi ci approssimiamo
– anzi, ci avviciniamo,
che suona meglio,
ed è meglio di niente).[3]
Note
[1] Ho provato a ragionare altrove su tali questioni, ad esempio qui, tenendo presente almeno due testi fra i più recenti in traduzione italiana: G. Didi-Huberman, La somiglianza informe o il gaio sapere visuale secondo Georges Bataille, Mimesis, Milano 2023; F. Jameson, Dossier Benjamin, Treccani, Roma 2022. Naturalmente, l’occasione di riflettere sull’autenticità complica notevolmente questo percorso da me ancora appena abbozzato.
[2] A. Lorde, D’amore e di lotta. Poesie scelte, a cura di WIT – Women In Translation, Le Lettere, Firenze 2018, p. 43.
[3] G. Mesa, Quattro quaderni, in Poesie 1973-2008, La Camera Verde, Roma 2010, p. 254.