Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
   
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

di Chiara Braucher

 

“[…] l’abitare è la capacità della specie tutta di vivere, progettare e modificare l’ambiente circostante, adattandosi in parte ad esso, per rispondere ai propri bisogni materiali. […]” (Spampinato, 2007, p.15)

 

L’abitare umano e la forza trasformativa ch’esso imponeva all’ambiente hanno, per millenni, disegnato spontaneamente sui territori nuovi habitat, nuovi spazi di vita, delineando in modo organico l’ambiente antropico, il paesaggio e il territorio.

In un’epoca successiva, progressivamente, tutto mutò. Cambiarono gli spazi di vita, il modo di abitare, i limiti umani e le prospettive: tutto si trasformò. Quello pre-moderno di certo non è stato un tempo idilliaco, ma vi possiamo leggere un grado di autonomia, spontaneità e in alcuni casi una qualità strabiliante nella pratica dell’abitare.

 

L’incipit dell’era moderna è lo spartiacque di questo processo: esiste un prima e un dopo nella vita produttiva e riproduttiva delle comunità, nel manutenere, trasformare e curare un luogo.

Così cambia radicalmente la storia dell’abitare umano: evolverà progressivamente un gap che definirà una distanza sempre maggiore tra l’essere umano e la sua capacità di agire ed incidere sul territorio. Così nasce la specializzazione del costruire: il settore dell’edilizia.

Tale trasformazione interessa in modo sostanziale la gestione territoriale da una parte, ma anche la relazione tra la comunità e il proprio spazio di vita. Questa relazione si trasforma radicalmente da un rapporto di reciprocità ad un rapporto di consumo, disperdendo le competenze artigiane e la legittimazione data dalla pratica dell’abitare. La trasformazione radicale dei processi di gestione territoriale, progressivamente, ha interessato tutti gli aspetti dell’abitare, fino alla messa in opera di ogni singolo edificio. Si è espansa a partire dalle grandi città fino a raggiungere ogni collina. Questo fenomeno ricade a cascata su tutti gli elementi del vivere e contribuisce a produrre quello scollamento tra le comunità e le pratiche di cura, trasformazione e manutenzione dello spazio dell’abitare che oggi leggiamo così chiaramente anche nelle nostre vite.

 

“[…] C’è stato un tempo in cui, al lato dell’architettura ‘colta’, riservata agli edifici religiosi, principeschi o civici, ovvero agli emblemi edificati della dominazione, esisteva un’architettura ordinaria che potremmo definire popolare, nella misura in cui era nelle mani degli artigiani immersi nella vita quotidiana della gente comune di cui facevano parte, operando per altro in continua collaborazione con questa. L’habitat che ne risultava era così conforme ai bisogni, ai desideri, ai piaceri o alla fede di ognuno, che si potrebbe senza esagerazioni considerare il popolo come il vero creatore del proprio ‘ambiente di vita’, mentre l’artigiano assumeva semplicemente il ruolo di mediatore tecnico. Per sottolineare il radicamento di questa ‘architettura senza architetti’  nel terreno storico e sociale del luogo, alcuni antropologi l’hanno definita ‘vernacolare’ dalla parola latina vernaculus, ovvero ‘nato nella casa’, riferito a uno schiavo, e non venuto dall’esterno” (Granier, 2016, p.16)

 

Nelle pratiche di costruzione tradizionale la collettività è il vero creatore del proprio ‘ambiente di vita’, un gruppo umano è artefice artifex (Sennet, 2008) dei suoi spazi, delle sue costruzioni, delle trasformazioni che attua su un territorio e del paesaggio stesso che ne deriva. Si ritrovano le radici di questo cambiamento progressivo ma radicale, nella modernizzazione dei sistemi di gestione e controllo da una parte e nella trasformazione industriale dei processi di produzione dall’altra. Nasce, come dice Jean-Pierre Garnier, il mercato dell’edilizia, la meccanizzazione e la produzione su larga scala di prodotti per la costruzione, cambiano radicalmente le tecnologie impiegate nelle costruzioni ordinarie, il modo di costruire e di abitare. Le tecniche impiegate diventano progressivamente sempre più specialistiche e con loro cambia anche la scala dell’edificato, cambia l’impatto che ha sul territorio. L’abbandono di tecnologie a bassa soglia, semplici e praticabili, trasforma definitivamente l’arte del costruire nel settore dell’edilizia. Sempre secondo Garnier “Pre-capitalista, l’architettura vernacolare durerà malgrado tutto fino a che la ‘modernizzazione’, sotto forma di industrializzazione, riuscirà ad invadere quello che viene da questo momento in poi definito ‘settore dell’edilizia’, sbarazzandosi dell’arte di costruire degli artigiani, le cui conoscenze verranno liquidate come arcaismi insieme al modo di vivere ad esse collegato […]”.

 

La nuova gestione dell’arte del costruire, la nascita del settore dell’edilizia disperdono quei saperi artigiani che avevano caratterizzato la definizione dell’ambiente antropico per millenni. Questi sono alcuni dei fattori che hanno trasformato radicalmente la relazione tra l’essere umano e il suo ambiente di vita. Da quando questo scollamento comincia a prendere forma e si sostanzia nella perdita di competenze comunitarie diffuse, nasce la necessità impellente di condurre uno studio sistematico sulle costruzioni spontanee e locali per supplire all’acuirsi di questo divario. Progressivamente si fa largo nel sentire comune la necessità di nominarle, di poter spiegare cosa fossero quelle costruzioni che da millenni, trasformandosi, avevano rappresentato un riparo, un luogo sicuro, una casa per quasi la totalità del genere umano.

Il termine architettura vernacolare è stato tipicamente usato nel mondo anglosassone per identificare quelle costruzioni – storiche o contemporanee – tipiche di un determinato luogo. Si tratta di costruzioni realizzate sulla base di esigenze, energie, bisogni locali e con materiali reperibili in loco. Com’è ovvio che avvenga, un’architettura così varia in termini di materiali, tecniche e forme non poteva che sviluppare, anche in un tempo relativamente breve, innumerevoli nomi. Questo tipo di costruito è stato chiamato infatti in diversi modi: architettura minore (Tomei, 1942), popolare (Guidoni, 1980), vernacolare (Vallinga, 2015), locale, ambientale (Giovannoni, 1925), premoderna, rurale, spontanea (Pagano, 1936) e anche architettura senza architetti (Rudofsky, 1964).

 

Queste case sono il prodotto di desideri e bisogni, della fede e della cultura di un gruppo umano, così come della realtà materiale che si trovavano intorno: materiali locali idonei alla costruzione, spazi, infrastrutture, densità abitativa, latitudine e altitudine, condizioni climatiche, frequenza di disastri naturali, pericoli e molti altri.

Tutti questi fattori materiali ed immateriali hanno influenzato il costruire umano e globale nella storia andando a definire così quello che oggi viene chiamato costruito locale e ambiente antropico (Magnaghi, 2010). La costruzione, in questo senso, è come uno specchio che riflette l’essenza stessa di una popolazione.

Il costruire è sicuramente una delle arti più diffuse al mondo, specchio di una società, dei suoi valori e dei suoi bisogni. Il costruito veniva prodotto dall’essere umano e dalla collettività, a partire dalle sue esigenze e dalla necessità primaria di procurarsi un rifugio, un riparo.

 

I caratteri unici di questo tipo di abitato non si riducono però al cosa è stato costruito, ai dati materiali tanto giustamente studiati dalla storia dell’architettura, ma si riconosce in loro, così come articolato nel testo di Garnier, un altro tema ossia il come si costruiva.

Il costruire, il metodo di costruzione, può essere pensato come una pratica di commoning. Un insieme cioè di pratiche socio-ecologiche volte alla costruzione di relazioni socio-ecologiche – seguendo la definizione di Marco Armiero in Westocene. Intendiamo quindi le pratiche di commoning come uno spazio di azione vivace e costruttivo.

 

“L’unica soluzione alla crisi ecologica è che gli uomini capiscano che sarebbero più felici se potessero lavorare insieme e prendersi cura l’uno dell’altro” (Bookchin, 1982, p.74)

 

In queste prospettive riconosciamo il bisogno sempre più impellente di prendersi cura collettivamente gli uni degli altri. In tal senso recuperare e ripensare pratiche di relazione ecologiche tra l’umano e l’umano e tra l’umano e il non umano è centrale per favorire anche future trasformazioni dell’ambiente antropico. Da questa prospettiva la pratica del costruire altro non è che un sapere che dovrebbe appartenere alle forze di riproduzione della società (Barca, 2020). Le forze di riproduzione secondo Stefania Barca mobilitano la vita in totale autonomia rispetto al capitale.

Pur riconoscendo la natura riproduttiva del curare, manutenere e trasformare gli ambienti di vita, il gap contemporaneo tra abitare e costruire hanno trasformato quest’ultimo in un lavoro produttivo tra i più redditizi per oltre un secolo. È così che il prendersi cura dei territori e i metodi di costruzione sono crollati su loro stessi, insieme alla natura riproduttiva dell’abitare.

 

L’architettura vernacolare ha quindi un valore riproduttivo nei termini in cui nasce, cresce e si sviluppa a partire da pratiche di cura e di relazione comunitaria. Predisporre, costruire un riparo storicamente non è mai stata una pratica egemonica e violenta nei confronti dell’umano e del non umano, bensì un momento di costruzione sinergica tra comunità e ambiente circostante. La definizione progressiva di un insediamento, la sua manutenzione e trasformazione a partire da necessità e bisogni è un’azione che ha un profondo valore di cura.

Le forze di riproduzione sono quindi centrali in ogni aspetto del vivere e del prendersi cura e lo sono anche nel processo edilizio, nella costruzione di uno spazio per l’abitare. Le pratiche socio-ecologiche fattuali che hanno prodotto l’ambiente antropico sono quindi anch’esse pratiche di commoning che hanno caratterizzato la trasformazione e la manutenzione degli abitati per millenni.

 

Oggi queste azioni collettive vengono chiamate pratiche di autocostruzione e prendono spunto da quel linguaggio e da quelle esperienze che si rifanno a concetti quali l’autogestione e l’autodeterminazione. Ciò non deve però ingannare. Quando si tratta di questi argomenti non è l’autonomia individuale a trovarsi al centro del modo di agire bensì una dimensione collettiva e comunitaria che si rifà alla definizione di uno spazio d’azione condiviso basandosi su pratiche di solidarietà, mutualismo e attivismo.

Intendiamo quindi, con il termine autocostruzione, quell’insieme di pratiche socio-ecologiche volte alla costruzione collettiva, una pratica di commoning che ha l’obiettivo da una parte di produrre un bene materiale e dall’altra di innescare la riproduzione di relazioni socio-ecologiche. Riprendere ed attualizzare le tecnologie tradizionali a bassa soglia, i processi di costruzione collettiva dei propri spazi di vita e ricostruire quelle competenze artigiane e mediatrici sommerse di cui parla Garnier, sono processi residuali in corso, ma anche sfide complesse per la definizione di un nuovo paradigma ecologico del mondo delle costruzioni (Staid, 2017).

 

La modalità costruttiva che attualmente indichiamo con il nome di autocostruzione, in realtà, non è altro che l’insieme di pratiche millenarie attraverso le quali l’umanità ha continuamente trasformato il territorio per rispondere a uno dei suoi bisogni primari: abitare. Quelli che oggi chiamiamo centri storici, con le loro stranezze, diversità e particolarità, sono il risultato di processi costruttivi progressivi, complessi e unici. Anticamente costruire significava pianificare, nella costante e necessaria interazione con l’ambiente e avvalendosi di competenze e materiali disponibili localmente, esprimendo in questo modo un alto grado di quella che oggi chiameremmo sostenibilità.

In tal senso, essendo il frutto di saperi, materiali e necessità contingenti, storicizzate e socio-culturalmente situate, l’autocostruzione ha sempre servito, oltre che da soluzione abitativa, anche da veicolo di affermazione culturale e identitaria, espressione materiale delle differenti culture abitative.

 

Da sempre la costruzione collettiva è stato valido strumento e spesso unico metodo di costruzione praticabile per molti territori. Oggi però si sente il bisogno di una nuova riflessione sul modo di costruire, che ci porti a ripensarlo. Si evidenza la necessità di una radicale inversione di paradigma per riappropriarsi di pratiche e forze che siano ecologiche. Ripensare la pratica del costruire non implica chiaramente il riproporre tecniche storiche in modo sterile, ma analizzare la realtà materiale in cui viviamo a partire dai bisogni. Immaginiamo piuttosto di attivare processi ecologici dalla fase di progettazione a quella di costruzione o più spesso di ristrutturazione, passando per la selezione dei materiali, la scelta di tecniche a bassa soglia, semplici nella preparazione e messa in opera.

Oggi, seppur residuali, sono diverse le esperienze e le comunità che mettono al centro i processi di riproduzione e di costruzione di relazioni socio-ecologiche, pratiche di commoning in cui ricade anche il processo di produzione edilizia in quanto spazio di rivendicazione di un’autonomia collettiva. Sergio, intervistato nel 2019 restituisce uno spaccato del cosa è per lui la pratica dell’autocostruzione; essa emerge dalla dura esperienza post-terremoto che ha vissuto con tutta la sua comunità:

 

Perché́ autocostruire? L’atmosfera che si crea è molto bella, ti ritrovi lì con un gruppo di amici, tutti lavorano al meglio di quello che sanno fare. È bello perché́ lavori con un’energia, con un’atmosfera molto piacevole e questo nostro amico, quando organizza le sue giornate di autocostruzione a casa, organizza sempre poi dei pranzi, così quando abbiamo finito il lavoro si mangia, si ride, si scherza, si sta insieme e si creano legami fra le persone. Risparmi economicamente, coltivi la socialità̀, l’interazione tra le persone, i legami. Che vuoi di più, che altro c’è da dire. Per questo io voglio autocostruire”.

 

L’autocostruzione intesa come processo collettivo non è in sé un fine, ma uno strumento, un mezzo per ridurre questa separazione tra l’individuo, la comunità̀ e il suo ambiente di vita: praticando l’autocostruzione, l’essere umano si fa materialmente carico del proprio abitare, riscoprendo la sua capacità e responsabilità di gestione, trasformazione e governo del territorio. L’autocostruzione, quindi, produce un bene materiale, la casa, ma anche un’infinità di beni immateriali: autonomia, convivialità, coesione, solidarietà, mutuo aiuto, complicità, consapevolezza e competenze.

Pensare le pratiche di costruzione collettiva sulla base delle relazioni ecologiche tra l’umano e il non umano è quindi centrale per favorire future trasformazioni dell’ambiente antropico.

 

Infatti, alla luce di un immenso patrimonio costruito esistente, il recupero di pratiche di manutenzione ordinaria e/o straordinaria del nostro ambiente di vita sembra fondamentale. Ripensare e reimpaginare saperi non specialistici di risanamento edilizio, quindi, può attivare un circuito virtuoso di pratiche di costruzione collettiva, sommandosi alle pratiche socio-ecologiche già attivate sui territori.

 

Bibliografia

 

Armiero, M. (2021). Wasteocene: Stories from the Global Dump. Cambridge University Press.

Bookchin, M. (1989). Ecologia e Libertà. Elèuthera.

Garnier, J. P. (2016). Architettura e Anarchia, un binomio impossibile. Nautilus autoproduzioni, Torino.

Giovannoni, G. (1925). Questioni di architettura nella storia e nella vita: edilizia, estetica architettonica, restauri, ambiente dei monumenti. Società Editrice d’Arte Illustrata.

Guidoni, E. (1980). L’architettura popolare italiana. Laterza, Roma-Bari.

Magnaghi, A. (2013). Il progetto locale: verso la coscienza di luogo. Bollati Boringhieri.

Pagano, G., & Danieli, G. (1936). Architettura rurale italiana. Hoepli.

Rudofsky, B. (1964). Architecture without Architects. Albuquerque.

Sennett, R. (2008). The craftsman. Yale University Press.

Spampinato, B. (2007). L’abitare. L’abitare, 5-106.

Staid, A., & Aime, M. (2017). Abitare illegale: etnografia del vivere ai margini in occidente. Milieu.

Tomei, P. (1942). L’architettura a Roma nel Quattrocento. Multigrafica Editrice.

Vellinga, M. (2015). Vernacular architecture and sustainability: Two or three lessons. Vernacular Architecture: Towards a sustainable future, 3-8.

 

 

[Immagine: un esempio di architettura vernacolare europea, da https://iitbuildingscience.wordpress.com/]

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