di Leonardo Guzzo
[E’ uscito da poco per peQuod Beco. Vita in romanzo di Ayrton Senna, di Leonardo Guzzo. Pubblichiamo il primo capitolo].
Ci vuole talento per rubare il fuoco agli dei. Abilità divina e cupidigia umana, di chi guarda il fuoco dal basso e invidia le stelle. Bisogna vincere tempeste, dentro e fuori, superare ostacoli, calpestare cuori, e il proprio innanzitutto, reggere il caldo e il freddo dei luoghi vertiginosi. Bisogna aver fede nella sorte, in un dio che da ultimo ha il volto di se stessi, e sempre esercitare la destrezza, la velocità. Di stridere due pietre, ruotare un fuscello, strisciare la gomma degli pneumatici sull’asfalto.
Viene sempre il momento in cui gli dei si vendicano. Ha un che di beffa, in genere, e l’atroce fatalità di una legge scagliata dal cielo. Non si sfugge, in ogni caso.
Ci sono molti modi per raccontare la storia di Ayrton Senna; e uno, forse il più giusto, è quello di cantarla. Non snocciolarla, ma comporne il mosaico; non spiegarla, ma farne sentire il profumo. Affidarne il racconto ad amici e amanti, a colleghi, familiari, a Senna stesso, presentati come personaggi letterari. E così collocarla da qualche parte nel mezzo tra il documento e il romanzo, il rigore e la fantasia. Nello spazio classico del mito.
Lo stesso succede con i due racconti in appendice, dedicati a due campioni del calcio (il portiere russo Lev Jascin e il “pibe de oro” Diego Armando Maradona), che tra realtà e fantasia cercano l’eroismo nel fondo dell’umanità più disarmata.
Per ultimo, forse, Ayrton Senna ha rubato il fuoco agli dei. In trentaquattro anni di vita (dal 21 marzo del 1960 al 1° maggio del 1994) ha costruito sogni per sé e per gli altri. In undici anni da pilota di Formula Uno, vincitore di quarantuno corse, tre volte campione del mondo, idolo di milioni in Brasile e di molta più gente nel mondo, ha bruciato energia nel nocciolo della personalità, alla radice degli impulsi e dello slancio vitale.
Ha subito una sorte forse inevitabile, che domanda continuamente riscatto. È morto in un giorno di sole splendido, quando mai si dovrebbe morire.
1.
Gli uomini in tuta arancione capriolavano. Dalle murate degli spalti salì un urlo altissimo, un tuono a scuotere la terra.
Le tribune, come le catapecchie affastellate sulle colline di Sao Paulo, sembravano tante bolge infernali. Un muro quasi verticale, gremito di formiche che urgevano sulle ringhiere, il rimescolio di un’immagine che sembrava compatta, il turbinio interno di una nuvola. Uomini cenciosi si abbracciavano, salivano a cavalcioni l’uno sull’altro, formavano figurazioni acrobatiche – piramidi, grappoli, ogni acino del valore di trecento real. Ogni uomo in quel quadro valeva il prezzo del biglietto. Altro non c’era nella sua umanità. Il biglietto e quella gioia sconcia, sterile, gioia per la gioia, che divorava se stessa coi morsi della fame.
“Dio Ayrton”. Gli uomini in tuta arancione rotolavano sul prato vicino ai cordoli, lungo il muretto del box, per tutto il rettilineo che portava al traguardo. Da tre giorni li chiamavano commissari e avevano fremuto – un enorme atto di continenza – per fingere imparzialità. Fino all’ultimo giro i muscoli guizzavano appena sotto pelle: fino a un passo dall’evidenza, sempre incerta, sempre revocabile. “Ayrton ha perso le marce”, era corso di posto in posto lungo tutta la pista. Da sei giri andava in sesta: uno più vicino ai box l’aveva captato dalle trasmissioni radio e aveva dato voce agli altri. Come si fa ad andare in sesta? In sesta solo, dico… L’odore di leggenda si era sparso per tutto il circuito.
E poi Senna alla curva Ferradura, alla variante, al varco della parabolica, alla passerella finale. L’avevano accompagnato come tanti saltimbanchi, guitti animatori del trionfo.
L’eroe aveva lanciato un grido lunghissimo, acuto sopra il rombo dei motori, per tutto un giro dopo il traguardo. Gridavano in tre, in quattro: pilota e bambino, bambino e macchinina, ragazzo e kart, con l’eco del Tche. Un grido isterico quasi a sputare l’anima, a reclamare la gloria, a scolpire la gloria in uno strato profondissimo, dietro il cielo.
Poi s’era fermato. Come un cetaceo, un colosso marino si spiaggia. Stremato. Immobile. In un clima irreale, da ironia amara erano accorsi i commissari, i medici: l’avevano sfilato dall’abitacolo come si travasa una pianta, con la delicatezza di preservare le foglie, le radici. Gli avevano sfilato i guanti per fare l’amara scoperta di mani livide, i muscoli delle braccia tesi allo spasmo che non riuscivano a sciogliersi. “Un groppo alla base del collo, giusto al centro della schiena” disse il massaggiatore, la tensione di sessanta giri più sei di pena pura trasformati in un segnale fisico, lievitati in un vulcano di bruciore.
“Tranquillo, Ayrton”, una voce fuori campo ripeteva la cantilena. Di un uomo felice che nessuno riusciva a mettere a fuoco. Ron Dennis venne avanti con l’aria da spilungone e gli occhietti da animale rapace. Non stava nella pelle.
Senna, ora sulle sue gambe, non lo tocca. Un fascio di dolore appena sopito, ogni contatto può ferirlo.
Un abbraccio di padre venne a prenderselo dov’era, in quel posto vent’anni prima, ruvido e familiare, quasi in nulla diverso adesso, la ruggine e il marciume che spuntavano sotto la facciata.
Una stretta di padre infranse il divieto – “non toccare” valeva per chiunque altro – mise un ponte tra due uomini composti di una materia “singolare”, stesso sangue e lontanissimi, che mai erano stati, né potevano mai essere, più vicini di così.
Senna aprì il sipario dello sguardo. La velatura triste, sardonica, compassata, sognante.
Sorriso ultramarino, fece sì a quelli dell’organizzazione schierati.
Salì la scalinata verso il podio, le braccia lungo i fianchi. Provò ad alzare il trofeo con fatica teatrale, si arrese per il dolore, stese il braccio destro infine, simbolo di volontà che vince. La coppa al cielo, l’ostensione.
Non un uomo, dentro il recinto di Interlagos, dei milioni che piangevano davanti ai televisori, pensò di approfittare del silenzio – il silenzio che all’improvviso avvolgeva il Brasile – per uscire a prendersi il pane. Uscire, sfondare le vetrine e tornarsene tra i primi, i più bravi, con le buste di pane.
Niente pane, allora, davanti alla manna del dio Ayrton. C’era da fare silenzio, allora. C’era da piangere, pregare, guardare il cielo.
Dopo che il collega avversario e nemico giurato Nelson Piquet aveva cercato di screditarlo presso il pubblico dei tifosi – e soprattutto degli sponsor – “accusandolo” pubblicamente di essere gay, Ayrton Senna – mal consigliato dalla potentissima famiglia e dagli sponsor – fece emettere un comunicato ufficiale: “L’offesa colpisce tutto il Brasile e si ritorce sullo stesso Piquet che potrei chiamare in tribunale a rispondere di ciò che ha detto”.
La conseguenza fu che l’attenzione mediatica crebbe a dismisura, finché un giornalista riuscì a dimostrare che l’appariscente Marjorie Andrade – presentata come fidanzata di Senna al gran premio di Monza del 1988 – era solo una escort di lusso noleggiata per mettere a tacere le dicerie. E – quel che è ancora peggio per la tenuta del sistema nervoso e affettivo di Senna – che lo stupendo giovane brasiliano Junior, in precedenza accompagnatore ufficiale di Senna ai box e negli alberghi, era sparito dai circuiti e dalla sua vita per volere della famiglia e degli sponsor.
Va ricordato che in precedenza, dal 1981 al 1983, per le pressioni subite in famiglia, Ayrton era anche stato costretto a contrarre un breve matrimonio di copertura con Lilian de Vasconcelos Souza.
Ritenuto il più grande pilota di Formula Uno di tutti i tempi, Senna è stato anche l’unico campione del mondo a morire durante lo svolgimento d’una gara di Formula Uno. Al Gran Premio di San Marino, nel 1994.
A completamento di questo quadro, possiamo solo aggiungere che in una recente biografia brasiliana di Senna commissionata dalla famiglia, non potendo negare quanto emerso in merito a Marjorie Andrade, si dichiara senza mezzi termini che Ayrton era sempre stato attratto dalle prostitute, che ne aveva sempre frequentate molte, e che solo in loro compagnia il grande campione riusciva a rilassarsi.
A riprova del fatto che in Brasile, in certi strati sociali, il disvalore intrinseco al termine “omosessuale” è ancora così dominante da far preferire l’immagine di un puttaniere dedito a notturni putain-tour rispetto a quella di un giovane uomo che si innamora di un coetaneo. Speriamo che – essendo plausibilmente ancora vivo l’ormai non più giovane Junior – un giornalista coraggioso lo possa intervistare, rendendo giustizia biografica al grande campione, e aggiungendo un piccolo tassello alla storia di liberazione del movimento Lgbtq+.
Franco Buffoni, “Vite negate”, edizioni FVE 2021, p 230
Se anche la questione dell’omosessualità di Ayrton Senna venisse mai confermata, non cambierebbe di un millimetro la sostanza dell’uomo e del campione, né il fulcro del mio racconto. Così come sapere se Achille e Patroclo fossero amici o amanti non cambia il fascino e il valore simbolico del duello all’ultimo sangue tra Ettore e Achille.
La vicenda di Junior e Marjorie Andrade è riportata da un articolo di Repubblica del 1988 (dal titolo peraltro poco edificante) e prende le mosse da alcune velenose dichiarazioni di Piquet, alle quali Senna rispose, tra l’altro, con un’intervista (in tono insolitamente “macho”) su Playboy nel 1990. In quell’occasione dichiarava di aver “conosciuto” la moglie di Piquet prima che si sposasse, di aver avuto la sua prima esperienza sessuale con una prostituta all’età di 13 anni e di considerare “rilassante” il sesso prima delle gare. Non mi risultano ulteriori dichiarazioni ufficiali di Senna su questi temi né altre clamorose recrudescenze dello “scandalo”. Ma il punto centrale mi pare differente: è la discrezione del campione, il rigoroso controllo della sua vita, lo zelo con cui si applicava a coltivare e difendere la sua vocazione. Quanto alle ingerenze familiari, sono le stesse che avrebbero dovuto stroncare la sua carriera nel 1982, quando il padre lo richiamò a Sao Paulo per affiancarlo negli affari. Ayrton resistette sei mesi e poi tornò a fare quello per cui si sentiva chiamato, a essere semplicemente quello che era. “Non permettere agli altri di cambiarti perché vogliono cambiarti”: siamo nel campo delle dichiarazioni, ma in un’intervista Ayrton lo dice chiaro e tondo. Senna è stato quello che era nel posto che più gli stava a cuore: la pista. Lì ha sempre avanzato, decise, le sue rivendicazioni.
Più di trent’anni fa, il 17 maggio 1990, l’Organizzazione Mondiale della Sanità sancì definitivamente che l’omosessualità è una variante naturale dell’umana sessualità. Quindi: nessuna malattia e di conseguenza nessuna cura o terapia riparativa. Ne consegue che – non esistendo più un modello unico di orientamento sessuale da darsi per scontato a priori – si può finalmente accedere con nuovo sguardo anche alle biografie di personaggi vissuti quando dominante era lo stigma. A tale modello unico, però, il giornalista di “Avvenire” dimostra di essere ancora profondamente legato. Infatti si affretta a replicare col consueto cliché omofobico, affermando che per lui l’orientamento sessuale del personaggio di cui si occupa non è assolutamente rilevante. Evidentemente ignorante in materia di studi di genere, egli non comprende la gravità di certe affermazioni. Egli non comprende che l’omosessualità di un personaggio in un contesto sociale marcatamente omofobico non è una questione di gusto personale, ma la questione centrale della sua esistenza. Per studiare gli exploit di un campione è indispensabile ricostruire le condizioni della sua “normalità” sociale. E dunque anche le possibilità concrete che gli si aprivano e chiudevano per condurre un’esistenza (in)felice. Un orientamento sessuale da tenere nascosto, da vivere come una vergogna in un tempo e in un Paese tutt’altro che pronto ad accettare le diverse sfaccettature della sessualità, non è un dettaglio di poco conto nella comprensione e nell’analisi della vita di campione.
Restituire a una biografia la sua pienezza ha più di un significato: è in primis un dovere di giustizia; quindi rappresenta la possibilità di leggere e di interpretare la vita di un campione nella sua autentica complessità. E chiarendo chiama a una presa di coscienza. Senza clamori, rimettendo in discussione dalle basi un modo di pensare alle biografie attraverso lenti focali uniche, eterosessiste, inadatte a cogliere l’alterità di genere.
Ciò vale per Senna come per Emile Griffith come per tutti i campioni sportivi costretti ancora a vivere nel closet.
Se anche la questione dell’eterosessualità di Ayrton Senna venisse mai confermata, non cambierebbe di un millimetro la sostanza dell’uomo e del campione. Certo è che l’eterosessualità dell’uomo e del campione è stata più volte ostentata, paparazzata, miticizzata. Fino all’eccesso, fino a far gridare all’excusatio non petita. Il racconto della vita del dio Senna non può uscire dal tracciato, dal percorso che hanno già tracciato per lui. Quello che più mi colpisce di questa narrazione è che non si concepisce o non si può concepire l’altra storia. Un campione è tale se è limpido, leggibile, senza segreti.
Questa è anche e soprattutto una storia di omofobia, di omofobie. Siamo negli anni 80, non nei fluidi 2020. Un campione è “accusato” di essere omosessuale (non bisessuale) da un altro campione. Il campione si difende facendo vedere al mondo quanto è maschio (si può essere maschi/macho e omosessuali). Anni più tardi il figlio del campione accusatore è “accusato” di essere gay da un manager di un team e allontanato da un suo stretto collaboratore. Il cerchio si chiude con la multa che il figlio del campione accusatore riceve per aver dato del frocio a Parker Kligerman. In un ambiente prettamente maschile ed omofobico, dove l’essere campioni non contempla la fuoriuscita dalla norma (eterosessuale e machista) la parola gay è ancora il marchio di Caino. Spetta a chi racconta o racconterà in futuro questa storia (ma penso anche a quella di personaggi come Battiato) ribaltare questo assunto, mettendo in discussione alcuni concetti dati per assoluti e l’interiorizzazione di alcune reazioni.
“lo stupendo giovane brasiliano Junior” (Buffoni)
Innanzitutto, e per sgomberare il terreno da equivoci, esprimo la mia completa e meditata solidarietà alla comunità Lgbtq+ (ho fatto un copia-incolla per non dimenticare qualche lettera), e questo non tanto perché io possa vantare una conoscenza o esperienza del fenomeno particolarmente approfondite, quanto per deciso rifiuto e dichiarata ostilità nei riguardi del fronte opposto – compresi quegli spiriti illuminati che si dichiarano ovviamente tolleranti, ma negano alla sessualità ogni ruolo centrale nell’individuo, facendone una misera appendice che sarà poi da amputare nel regno dei cieli, o un insignificante ammennicolo che andrà magicamente a posto con la massima soddisfazione di tutti in una futura società comunista.
C’è però una cosina – una cosa veramente da niente – che mi disturba. Ho notato che molto spesso, in un contesto gay, Buffoni fa precedere la parola ‘giovane’ dall’aggettivo ‘stupendo’. L’effetto è, a mio parere, un po’ senile, oltre a sospingere l’omosessualità maschile verso quell’ambito estetico-decadente che sarebbe magari il caso di lasciarsi alle spalle. Non mi pare che in ambito eterosessuale le parole ‘donna/fanciulla/ragazza’ ecc. siano regolarmente precedute dall’aggettivo ‘stupenda’. Tranne forse nei romanzi d’appendice. Pare quasi, quando Buffoni parla di uno “stupendo giovane”, che essere stupendi sia un titolo di merito – posizione difficile da sostenere. Così nel caso di questo “giovane brasiliano Junior” che accompagnava Senna. Se non era stupendo non andava bene?
Se anche la questione dell’omosessualità di Ayrton Senna fosse confermata post-mortem non cambierebbe nulla, va da sé. Sarebbe un grande pilota, per di più gay. Ciò non toglierebbe nulla, ma aggiungerebbe qualcosa: la verità. Il problema reale è che, da vivo, quella questione poteva cambiare molte cose. Ed è questo lo snodo critico da cui la narrazione eterosessuale non è in grado di affrancarsi. Tacere, dopo la morte, dell’identità di un personaggio è speculare al rumore che quella stessa – declinata come omosessualità, nel caso specifico – avrebbe fatto in vita. E questa, se vogliamo, è una grande ipocrisia.
P.S.: la questione di Patroclo e Achille acquisisce significato proprio sull’amore tra i due. Se fossero stati semplici amici, l’eroe acheo non sarebbe sceso in battaglia, andando quindi incontro al suo destino. Non riconoscere il sentimento tra i due è un po’ come mettere la testa sotto la sabbia. Impedisce, forse, un riconoscimento. Ma non cancella l’amore e la storia che da essa scaturisce. È solo una questione di ampiezza di vedute (o il suo esatto opposto).
L’unico invito che posso fare, di fronte a commenti che mi paiono un po’ fuori fuoco, è quello di leggere il libro. Dovrebbe essere una “conditio sine qua non” per esprimersi, ma mi pare sia elusa. A dimostrarlo c’è quantomeno il fatto che mi si definisce “giornalista di Avvenire”, quando non lo sono affatto, e mi si dà schematicamente dell’omofobo. Si parla dell’omosessualità di Senna come se fosse cosa comprovata, e non lo è. Se ne adduce a prova una vicenda che è desunta da un articolo “di gossip” del 1988, e non mi pare una prova consistente. Resta il fatto che “Beco” è un lavoro non giornalistico, ma letterario, che si muove e indaga il crinale tra umano (eterosessuale o omosessuale che sia) ed eroico. Milioni di persone nel mondo amano Senna e molti di meno si sono posti il problema del suo orientamento sessuale. L’omosessualità di Senna non mi risulta: mi risulta la problematicità dei suoi rapporti sentimentali, su cui ho indagato nel libro che invito a leggere. Agli autori dei commenti – di cui condivido l’avversione a ogni discriminazione – chiedo di capire e non forzare lo spirito del libro, sovrapponendo piani che non gli appartengono e non appartengono alla vita di Senna come ho inteso raccontarla. “Vita in romanzo”… Non ho voluto realizzare alcuno “scoop” (presunto), solo cantare e celebrare, con i dovuti chiaroscuri, un eroe moderno. Un campione problematico e affascinante al di là dell’orientamento sessuale, nel suo modo di concepire, sotto ogni rispetto, l’amore.
Se la vita affettiva di un personaggio ci dovesse interessare poco nell’ambito della sua cosiddetta biografia, allora tanto varrebbe scrivere un curriculum in romanzo. L’affermazione “non ci interessa se era gay, non cambia niente” non è una frase isolata, ma si inserisce all’interno di una (in)gloriosa tradizione della storia della nostra cultura, fatta non solo di indifferenza, ma di cancellazione attiva e in malafede.
L’autore della biografia replica “sapere se Achille e Patroclo fossero amici o amanti non cambia […]”, ma vorrei assicurargli che invece cambia molto. Cambia se all’ultimo anno di liceo classico l’intera classe (meno uno) ignora che la relazione affettiva ed erotica tra Achille e Patroclo è “canon”, per usare un termine non proprio omerico. E qualcosa dovrà pur contare visto che, a proposito di biografie, “La canzone di Achille” continua a rimanere in vetta alle classifiche dei libri più comprati e apprezzati degli ultimi anni, non solo dal grande pubblico ma anche dagli “addetti ai lavori”.
Mi dispiace che Leonardo Guzzo continui a non capire quanto la sua posizione sia fuori da ogni possibile dialettica, almeno nel mondo occidentale. Su una cosa mi sono sbagliato e subito rettifico, scusandomi. Leonardo Guzzo non è giornalista di “Avvenire”: Leonardo Guzzo è giornalista dell’”Osservatore romano”.
Gentile Franco Buffoni, sono un giornalista del Mattino. Collaboro con l’Osservatore Romano e con diverse altre testate e la invito, anche in questo caso, a leggere i miei pezzi. Non credo che dove si scrive significhi di per sé qualcosa. I dibattiti non si conducono in base agli schemi e alle etichette. Se scrivo un libro, che non è una biografia ma un romanzo, provo ad essere innanzitutto uno scrittore.
La invito a leggere “Beco” e a discuterne nella sua completezza e con piena cognizione. Il suo approccio è forzato e parziale. Dà per scontata l’omosessualità di Senna, su cui esistono tutt’al più illazioni.
Confonde i piani: sovrappone il discorso sulla libertà sessuale (indiscutibile) a quello sull’omosessualità di un singolo (non dimostrata e certo meno dimostrabile della sua eterosessualità).
Senna è molto di più di quello che lei vede. Il mondo occidentale si basa su quella bellissima cosa che è la libertà di coscienza e contempla anche riflessioni diverse da quelle sull’orientamento sessuale. Non è questo il fulcro del libro ed è assurdo credere che sia il fulcro di qualsiasi cosa.
Caro Guzzo, se rilegge ciò che ho scritto il 15 gennaio, non dovrebbe sfuggirle l’ampiezza del sentimento di profonda sympathy nutrita per Ayrton Senna e per tanti altri personaggi dal destino simile, noti e meno noti. Ma forse lei ora desidera solo avere l’ultima parola, e allora gliela concedo, senza difficoltà.
a me pare che Guzzo non si renda conto che la sua rappresentazione dell’omosessualità – reale o presunta, poco importa – secondo quanto emerge nei commenti è sempre nella prospettiva di una riduzione di importanza. Come se volesse scongiurare una sorta di “segno meno” di fronte all’identità del campione.
Lo si evince in almeno due affermazioni:
1. “Se anche la questione dell’omosessualità di Ayrton Senna venisse mai confermata, non cambierebbe di un millimetro la sostanza dell’uomo e del campione”. Mi chiedo: ha forse l’identità sessuale il potere di cambiare la sostanza di chicchessia? Farebbe lo stesso discorso per l’eterosessualità di Ayrton Senna?
2. “Senna è molto di più di quello che lei vede” rivolto a Buffoni, che perora la causa del pilota segretamente omosessuale. Ma perché, se fosse omosessuale sarebbe “molto di meno” rispetto a quello che si vuole raccontare in un libro?
Poi, io penso che se lei Guzzo vuole raccontare la storia di un campione indiscutibilmente etero, è suo diritto farlo (si parla di un romanzo, per cui è una scelta narrativa come potrebbe esserlo la mia, quella di scrivere di un Maradona segretamente innamorato di un compagno di squadra, ad esempio).
Ma qui non si contesta la qualità del romanzo, che do per scontata. Qui si nota che la narrazione da lei riservata all’omosessualità lascia intravedere un suo personale disagio. E su questo mi interrogherei, e anche a lungo.
“Un orientamento sessuale da tenere nascosto, da vivere come una vergogna in un tempo e in un Paese tutt’altro che pronto ad accettare le diverse sfaccettature della sessualità, non è un dettaglio di poco conto nella comprensione e nell’analisi della vita di campione”: verissimo, se l’intenzione è quella di “Restituire a una biografia la sua pienezza” (cito dal commento di Franco Buffoni).
Ma “Beco è un lavoro non giornalistico, ma letterario, che si muove e indaga il crinale tra umano (eterosessuale o omosessuale che sia) ed eroico”, ribatte l’autore del libro. Attenzione, non “L’autore della biografia”, come lo definisce June Scialpi.
Beco quindi non è una biografia di Senna, tra l’altro, contiene anche due brevi racconti dedicati a Maradona e Jašin. E non mi pare irrilevante se “l’accusa” mossa a Guzzo è quella di avere colpevolmente omesso i dubbi sull’eterosessualità del campione. Tra l’altro, a più di 25 anni dalla morte di Senna ancora nessuna smentita.
Ma, al di là del genere letterario dell’opera, sembra che qui il suo valore venga misurato da criteri ideologici (per quanto le istanze Lgbtq+ siano condivisibili) e non estetici. O forse, qui viene giudicato l’autore, o le sue intenzioni e/o omissioni. In ogni caso, pare che il libro nessuno di chi commenta l’abbia letto.
Gentile Giorgia Meriggi, pur essendomi già accomiatato da Leonardo Guzzo, il suo intervento mi induce a pubblicare due considerazioni. Dopo aver letto il capitolo anticipato da LPLC, pur essendomi già ben chiara la “qualità letteraria” del lavoro, prima di postare l’estratto da “Vite negate” (ed. FVE, 2021), ho scrupolosamente controllato se nel libro di Guzzo apparissero le notizie da me riportate. Poiché non apparivano, ho deciso di pubblicare il mio estratto. Quindi non è vero che in questo thread si è parlato di un libro senza averlo letto. La seconda considerazione concerne le “evidenze”. Negli anni Ottanta, quando lo stigma mordeva ancora ferocemente, l’orientamento omosessuale veniva tenuto il più possibile nascosto, in primis dall’interessato, che invece cercava in ogni modo di lasciare trasparire “evidenze” contrarie. Quindi l’argomentazione concernente le “evidenze” non può essere addotta senza una debita contestualizzazione. Tanto dovevo, con un saluto cordiale.
Buonasera, mi chiamo Davide e sono omosessuale.
Metto il presente post perché mi sono innervosito per la solita aggressiva ostentazione ormai diventata assurdamente eterofobica di certi militanti omosessuali che speculano post-mortem sull’identità sessuale e sulla vita privata di chi fra l’altro non può rispondere, come accadde con Lucio Dalla. Ayrton Senna è stato un eccezionale asso della Formula 1, forse il più grande di tutti i tempi, la sua vita privata e i suoi legami affettivi e sessuali non ci riguardano, non riguardano nessuno di noi e ritengo deprecabile che vengano utilizzati come bandiera per una lotta non sua, nel senso che se egli avesse voluto scendere in campo lo avrebbe fatto, ma non l’ha fatto, ed è stato non altro che nella sua piena libertà intellettuale. La lotta per la difesa dei diritti LGBT (e con la sigla mi fermo qui, perdonatemi) è una lotta sacrosanta, come è sacrosanta la libertà di non volersi identificare in questa parte di mondo. L’umanità non è certo divisa fra gay ed etero con un taglio netto, esistono mille sfumature e nella mia vita ormai matura ne ho viste di ogni, compresi etero passare periodi ed amori omosessuali e viceversa, additare questo o quello come ipocrita o bugiardo è assai superficiale ed è trincerarsi in un’ortodossia regolamentata che mi risulta antipatica allo stesso modo di quella ostentata dal conservatorismo eterosessuale. La molteplicità delle ragioni che portano le persone a determinati passaggi di pelle non può essere racchiusa in un’etichetta né porta a certezze di alcun tipo: la personalità dell’essere umano si evolve continuamente e spesso la curiosità innata nelle persone libere e indipendenti traccia linee non così definibili ma soprattutto che non sta a noi esplorare. Smettiamo di usare il ricordo e l’immagine di Senna col sorrisino trionfante ed autoreferenziale, è una cosa indignitosa ed antipatica. Senna era un campione di automobilismo e il suo nome sta nel gotta di questo universo specifico, assieme a Nuvolari, Schumacher, Lauda, Hamilton e Villeneuve, vivi e morti. Non fa parte del mondo degli enologi anche se beveva vino, non fa parte dell’ittiologia anche se andava a pescare, non fa parte del mondo della moda anche se vestiva con riguardo, né in quello della poesia anche se in privato leggeva Baudelaire. Cerchiamo di non essere superficiali.