di Antonio Tricomi
Chi sono, Francesco, mentre mi guardi? Nel prato bianco, nei tratteggi sgranati, nelle voci frammiste di un come sognare, sono forse macchie squadrate di pochi colori – il grigio e il marrone, al di sopra degli altri – a sbalzare una forma tremante che più s’appressa più sembra svanire. Che tace non tace, scivolando, poi no, nel traboccare ma subito in nuova guisa comporsi d’ogni sagoma e frase, ogni timbro e contorno, ogni luce e vapore a un tuo primo sbirciare indovinati.
Cosa t’appaio, Francesco, sull’uscio della porta murata di un corpo che ti s’assottiglia, lì nella poltrona? Quasi più nulla negli interstizi tra le ossa e la pelle, sotto la stoffa slargata, abbondante, degli indumenti. Le spalle incavate pronte al collasso: a franare d’un tratto, incontro allo sterno consunto. Il viso smagrato che vuole slanciarsi ormai verticale, ma che arranca dimesso con spoglia fatica. Le tempie slargate, rigonfia la fronte. Più giù la mascella, che avanza, di un teschio: di tutti lo stesso.
Se permani scampato oltre il cancello di soli ricordi e catene inevase di pensieri taciuti, l’immaginazione a schierarli in fotogrammi di blandi appetiti e rimpianti, di onnivore allucinazioni, allora ho il terrore ch’io ti possa di colpo buttare in tutta l’angoscia di un labile perseguitato. Perché se mi credi l’involto di un tuo soppesare il tempo trascorso (gli anni legati da un filo, quasi grani in un vecchio rosario da recitare subito e ancora, appena concluso) o di un tuo non arreso fantasticare momenti a venire (le ore in tal caso piegate a un’agenda tutta mentale), mi devo docilmente condurre – nel viso e nei gesti, nello sminuzzar le parole – per come tu mi trattieni in chissà quale anfratto della memoria. Per come tu mi figuri in qualche ritratto che ti piaccia schizzare.
E devo all’istante sparire, se tu preferissi passare ad altro affresco del rammentare o pronosticare, salvo gettarti nell’incubo dell’impotenza. La circonflessa parete, alla quale t’aggrappi, adesso chiodata dal passo marziale di sbilenchi fantasmi che sulla retina s’incistano a folle. Ti scopri stuprato. E più nulla ti convinci d’avere che ti protegga dagli aggressori. Vorresti gridare, anzi gridi, nel vortice muto. Non senti levarsi le urla, né altri le ascolta. Insisti più forte, sulle corde vocali, ma sei risucchiato in un’afona spugna. Perciò pensi d’agitare le mani, nel gorgheggiare di un terremoto che manda in frattaglie la scena. Poi ecco: il fiato contratto in un sobbalzo che tutto cancella; il rimbombo non di fonemi, ma di palpebre con foga battute; e l’assedio è concluso, mentre un altro s’annuncia. O più banalmente, stordito nel vuoto d’una qualunque appropriazione di nome, di corpo e postura, non sai più suggerirti dove ti trovi. Che mai ti succeda. Se qualcosa lo resti. E quali superfici, persone o visioni ti cingano ancora. Nel tramestio di sottofondo.
Magari lo vorresti sapere, ogniqualvolta ti accade di poi salutarti scampato al precipizio della coscienza: chi sono le ombre che vedo? chi tenta i sussurri che sento, lungo quel viale d’inverno nel quale mi rendo foglia costretta dal vento a rabbrividire – un braccio, una mano scossi dal freddo con ottusa frequenza – se un impulso di vita – confessare un bisogno, avvertire d’un sentimento, sperar d’accostarmi ad altro da me – non lo voglio abiurare? E quindi tartagli intenzioni, Francesco, in una frana sommessa dell’incerto, riacquietato presente. Ma non vuoi dirmi chi sono: nell’annaspare, non giureresti neppure ch’esisto. Ch’io ti spiegassi tu cosa sei: questo e null’altro ambiresti ottenere da me.
Al frastuono del mio silenzio – ché non m’è chiaro chi siamo, qui nella bolla soffiata dal tempo della tua casa occlusa agli sguardi – non ti riesce d’opporre, come vorresti, un nuovo e sottile fiatar smozzicato. Trattenuta fra i denti, la lingua, la gola a rovistar le corrette parole, poi la saliva si lascia cadere dalle labbra serrate in mezzo alla barba, giù lungo il collo, a toccare il bavaglio sopra il maglione. Ed è questo il tragitto del tuo domandarmi: perché? quale innesto mi opprime, dentro di me?
M’accorgo è successo qualcosa dietro la mia mascherina. (Tu forse non lo capisci, Francesco, ma corre una peste per ogni quadrivio dell’intera qui nostra terrestre città: si sta, con pur sempre pochissima gente, come in attesa di esserne uccisi.) La stessa saliva, persa da te, m’ha ingolfato la bocca: la devo tutta ingoiare alla svelta. Ha singhiozzato il respiro un secondo; sulle guance è scolato un liquame. Non vedo più nulla, Francesco. Scosto un niente gli occhiali. Strizzo appena le palpebre col pollice e l’indice della mia destra. Ma sono appannate, le lenti. Per poi pulirle col bavero della mia giacca, discreto ne afferro la montatura.
Come sempre ti è accanto Carmela. Su di lei nessuna incertezza. Non è altro dal velo cui s’è ridotto il tuo corpo. Non è altro dal verbo che non sai proferire. Non è altro che il cibo assunto tritato. Che l’acqua ingerita dalla cannuccia. Che gli orifizi con garbo nettati. Che, del reale, quel poco rimasto alle tue rughe sul bordo di un quieto delirio.
Né sono le altre che sbirci, Francesco, tue fole irrelate, benché d’illusorie fattezze si tratti. Oltre alla mia e di Carmela, t’arrivano facce, nei pressi, dalla televisione. Evanescenze rapprese dentro un acquario: Rai News 24, senza volume. Ora spunta quel tale che non vale citare. Bofonchia proclami dalla cravatta. Giace, in fondo allo schermo, l’informazione che nel nuovo governo ci vuole stare. “Ma ci pensi”, ti dico, “che sono riapparsi i fascisti?”. Il camerata ancora sdottora. “E in questa regione fan pure bisbocce. Nelle scuole e dovunque, tornano in voga parole squadriste: ho paura. Dio, nelle Marche, non fatica ad amarli, i sanfedisti”.
Nulla di te mi risponde: su ricomposte leggende di draghi a sprizzar fuoco sulle cataste di medioevali castelli risorti. E qui mi sorprendo d’aver scantonato dal vero sospetto. Non tanto: ma come concili che per metà c’ho il viso coperto, che tutti l’abbiamo se ci preme incontrarti, col tuo dovermi, col tuo volerci, apparentare a un passato di me, a tempi di noi, rubati a quell’era che non occorreva cancellarci la bocca, nasconderci il naso? Primi piani oltraggiati in foto sgualcite, vivide tele di uno stile preciso: forse questo ci pensi. Mentre t’avverti una testa schiacciata contro ad un album che si sfoglia da solo: un’istantanea di seguito all’altra. O ti scopri in prigione nel labirinto d’un qualche museo: opere attigue a perdita d’occhio.
Intendevo, piuttosto, l’altro sospetto: con quel tuo serrare lo sguardo all’infuori – ciascuno s’illude per abitare la faglia d’erranza nella quale ti trovi – cosa m’esclude che – viceversa – tu non voglia solamente morire? In qualsiasi istante, morire? Per tutti i silenzi, morire? Già con la bava alla bocca, morire? A ogni interrotto pensiero, morire? Dei tanti singulti, morire? Rifiutando il tuo cibo, morire? Tra schizzi d’urina, morire? Senza smorzare i tremori, morire? Dentro lacrime scese di fretta, morire? Dopo la fronte sudata, morire? Grazie a qualcosa, a qualunque qualcosa e insieme al tuo tutto qualcosa, morire? Quale incanto m’esclude che non stai solo implorando i vacui sembianti che ti par d’afferrare, o che vorresti per tuoi, di lasciarti semplicemente morire? Come un avo, morire? Come un padre, morire? Come un nome, morire? Come un niente, morire? Come tutto, morire? Perché, se poco è poi quel che conta, se la polvere di ogni qui vivo si perde nell’aria per d’un tratto svanire, il nulla soltanto, Francesco, sa arrampicarsi, in ultimo, a perfezione. All’esattezza di un verso.
Ma non si direbbe questo il tuo stato. Sembra mite l’espressione del tuo volto per caso. Sembra che in pace, in uno spigolo dove convergono vita e non più, accetti la tela dei tuoi pezzetti dal regno dei ragni cucita. Sussisti incapace di rivendicazioni, d’astio o quant’altro. Come quando non t’era d’inciampo il libero arbitrio dei tuoi desideri, trasmetti piuttosto l’idea di un sereno sostare nel serio accudire quel che ti spetta. Finalmente premuto in un’invariata, non medicata ora felice.
Francesco, se fosse così! Tutto intero il capitale degli anni investito – e stai per riscuoterne settanta, di dividendi – a frugare risorse di vita con lo scalpello di misurate parole, sotto il mantello d’una rasserenata metrica dolce, nello sgomento taciuto dalla piana pronuncia d’uno stile educato, e ora il premio per questo tuo meticoloso artigianato d’interlocutore civile. Starci come un ragazzo – non più interdetto dal marmo freddo dei banconi sfiorati di pescherie – nella giostra di versi, ogni secondo immaginati, che per nessuno saranno materia, un soffio alle dita voltando una pagina in capo ad un’altra, ma cosa t’importa – e tu sì, lo comprendi – rispetto al piacere di libero correre senza ormai requie già a perdifiato, appresso ai modesti dinieghi del senso comune, alle insorgenti favole vere, al negletto dolore dei giusti con cui si nutre quanto hai sempre saputo poesia? Cioè residenza, cioè resilienza?
Arriverebbe a quel punto la morte, quando che voglia poi visitarti – tra le loro recitate speranze d’una pasqua vicina a tornare, o nel tempo accecato, ch’abbiamo, d’una laica usanza del perdurare –, senza nulla sgualcire sul tuo manto di cute ormai sbalzato dalla figura: quasi un paltò, invero sdrucito, che s’appenda cadente a una gruccia. Senza violare, nell’ordito pulsante dei vasi sanguigni, del sistema nervoso, di quello che anima dicono altri, un’intercapedine sola. Tu consegnato, con l’orma di te oltre ogni arabesco d’una simile trama, alla scelta pudica, intatta, compiuta d’esser poeta.
Perché m’hai suggerito – nella familiarità, di lì poi interminata, come tra due opposte pressioni sull’irta stessa parete (sul medesimo giusto momento per ogni cesura) esercitate – qualcosa d’altro, di più radicale, da quanto t’è parso affermare nell’ora del nostro incontrarci: io diciottenne, tu con gli anni di un padre (il mio, nato il tuo giorno col tuo identico nome, non l’ha varcata, l’età che hai adesso raggiunta) e, insieme con noi, un manipolo di apprendisti scrittori o lettori o che cosa? Parole pur senza vibrare scandite: “Fare oggi il poeta è un po’ quello che ieri fu abbandonarsi alla lotta armata, perché implica il muoversi in una clandestinità necessaria a rendere i propri versi alieni ed ostili al carrozzone indecente, all’iniqua, selvaggia bruttezza ch’è il nostro tempo”. Col decoro, l’hai dimostrato che non è questo il pertugio da cui computare gli accenti per metterne in salvo la eco. Che questo, d’una deflagrante, utopica alterità contrastata o appena negletta dal circo del normato persistere pigri, è soltanto il racconto concesso a se stesso da ogni poeta – quando più vano di sempre gli appare accanirsi a strappare una forma all’informe accadere – per risarcire, con un miraggio d’infinità, il proprio finito trovarsi non accudito nel mondo, fra più triviali attitudini e slanci e devozioni alla parola.
Non un destino. La poesia come un dovere tra gli altri doveri. Settenari che non hanno da intessere le rivoluzioni: degli astri, del mondo e di dio, qui sulla terra. Nessuno che rammenti nessuno, la memoria a saldarsi agli oggetti rimasti. Ma intanto si nasce, si vive, si muore, e null’altro che esista, per tutti, oltre al dovere di prenderne atto – ciascuno per come s’è scelto, o solo gli tocca, di farlo – che scheletri, denti ed anelli durano più d’un umano sembiante.
C’è chi rabbercia una strada ingiuriata dall’uso. E in questo realizza che gli occorre sentirsi custode di giorni, i pochi che abbia, nei quali appetire non i barlumi di un conciliante assoluto, ma la tortura del proprio affannoso scoprirsi insensato, eppure sfiancarsi, col niente con cui s’è industriato, a preservarle, le cose, per quanti verranno. C’è chi rammenda calzini, struttura pensieri, fabbrica bare, agogna bisbocce, schizza figure. E tutti – per dirsi “ho vissuto”, quando che infine congedo sarà – con lo stesso, immutato dovere: ogni mollica di un’ora impegnarlo, quel che si sa e ciò che si è, non a schivare la morte, affinché s’allontani, non a cercare ristoro, che non ce n’è, non ad attendere indicazioni, simili sempre a bugiardini, ma per fare, con quanto si ha, anche di più che quanto si può, nella speranza di rinverdire la manutenzione, ciascuno per come riesce a supporsene in grado, dell’essere insieme, dell’essere storia, del non imbestiarci. Inessenziale nessuno, ai margini ognuno: perché defezioni ne bastano poche, per abbrutirci, ma neppure dev’esserci il capomastro, in questo cantiere di tutti operai. Così la poesia: un mattone fra tanti, impastati dal sole.
E quindi ho capito, Francesco, che non posso sbagliare: persino al confine, dove adesso t’acquatti, tra niente e qualcosa, dalla miniera del sillabare continui ad estrarre, ma non lo sappiamo, riserve preziose al nostro rovello, e nemmeno ci pensi a reclamare (giacché non t’arrendi alle fatiche) l’ultima tregua dal tuo lavoro. Difatti non conta, e tu lo sai, che ne faremo coi tuoi sacrifici: noti o perduti. Se ne sapremo calcare l’impronta: l’hai conosciuta, e t’ha già ferito, l’indifferenza; t’ha poi lusingato, non credo appagato, l’elogio tardivo, buono in sostanza a ristorare quel sé da Narciso col quale camuffa, ogni impiegato di umili lasse, la propria fobia d’una carta, d’un fiato, di sentimenti sprecati. Importa soltanto che una volta m’hai detto: “Scrivo, appena, ciò che scritto da altri non trovo, per evitare ci manchi qualcosa”. Vale questo rigore – e nient’altro – nell’essere sguardo: l’aver vita ansimato durante la marcia, a precipizio nel vuoto, che tutti ci chiama. Perché un verso che offra presenza, dove c’era l’assenza, può, più di altri, non andare disperso, pur senza l’autore a cantarlo. Si nutre di ciò che trascorre, si vuole precario come quello ch’afferra mentre scompare, non cerca rimedi contro l’oblio, sembra allora non sappia durare, e invece magari resiste, anche un attimo solo di un’era in rovina, quale orma dell’orma di quant’è svanito. Traccia sommessa che alcuni e qualcosa, prima del crollo, non hanno trasceso, nascosti, la propria immanenza. L’hanno vissuta.
Anche nella penombra del nostro commiato, Francesco, irrompe la fretta, meschina, dell’orologio: un pugno di scatti per quella lancetta, e il parchimetro scade. C’è una misura che intendo violare: sapendo di farlo per l’ultima volta, ti abbraccio e ti bacio, come pure a Carmela destino l’uguale. A lei però chiedo lo stesso mio affetto di trasferirlo, appena li sente, a Giaky ed a Chiara, al nipotino. Un cenno d’assenso, un sorriso. Un altro indugiare ferma nei gesti, poi nulla: vocali sberciate in suoni interrotti. Frugo se in tasca ho l’accendino, mentre già sono ormai per le scale.
S’è chiuso il portone. Il palazzo ancora vicino, nascosto alla vista. Perché curva, il marciapiede, verso sinistra. La via Podgora è una mattina d’inizio febbraio, morbida quanto il ricordo che non addolora.
(6 febbraio – 30 aprile 2021)
Francesco Scarabicchi: Ancona, 10 febbraio 1951 – 22 aprile 2021. Tra i suoi libri di versi: La porta murata (1982); Il viale d’inverno (1989); Il prato bianco (1987, 2017); Il cancello (2001, 2018); L’esperienza della neve (2003); L’ora felice (2010). Ha tradotto da Federico Garcia Lorca e da Antonio Machado. È stato redattore, con Gianni D’Elia e Massimo Raffaeli, di Residenza, «settimanale radiofonico di riflessioni marchigiane sulla cultura» ideato e diretto da Franco Scataglini per la testata regionale di Rai Radio Tre. Si è occupato di arte figurativa: in special modo, di Lorenzo Lotto (L’attimo terrestre. Cronache d’arte 1974-2006, 2006; Con ogni mio saper e diligentia. Stanze per Lorenzo Lotto, 2013). Amava gli storici cantautori italiani (Tenco e De André più degli altri) e ha scritto su loro, per loro. Ha ideato nostro lunedì, «periodico di scritture, immagini e voci» diretto e coordinato assieme a Francesca Di Giorgio.
Tre testi da Il viale d’inverno:
˗ Il nome (il nome) / a nessuno mai detto / e che pronunci, / con un filo di voce, in gran segreto.
˗ Di chi è già stato qui / non sa niente nessuno / perché ogni volta / si sparecchia la tavola, // ogni giorno puliscono / il marmo freddo / delle pescherie.
˗ Tutto sommato, / quello che conta è poco, // il resto va, / polvere di ogni vivo, / quel di più che non giunge / a perfezione alcuna.
Un testo da Il prato bianco:
˗ Porto in salvo dal freddo le parole, / curo l’ombra dell’erba, la coltivo / alla luce notturna delle aiuole, / custodisco la casa dove vivo, / dico piano il tuo nome, lo conservo / per l’inverno che viene, come un lume.
Due lacerti di altrettante prose fra quelle incluse nella sezione Le cose, in L’esperienza della neve:
˗ Nessuno rammenta nessuno. Resistono gli oggetti. Una bottiglia più di una mela. La memoria si lega alle nature morte. Solo ciò che è concreto sopravvive: lo scheletro, un anello, i denti. Gli occhiali di tartaruga rimasti nella custodia sul comodino la notte in cui si è spenta. La coroncina del rosario fatta con i gusci delle noci, il ditale che portava nella tasca del grembiule, la spilla a balia, un pettinino d’osso.
˗ Il pesco grande, il nespolo, l’abete. La via Podgora è una notte di giardino, morbida come la memoria che non duole.
Non ci servivamo ancora della posta elettronica. Nella seconda metà degli anni Novanta, ci siamo scritti in varie occasioni, con Francesco. Tradizionali missive, generalmente vergate a mano. Ciascuna sua lettera recava un’intestazione, Biglietto, subito seguita dall’indicazione della data di stesura. Anche quella in cui mi consegnò un’esplicita dichiarazione di poetica:
«Rammenta sempre: accade solo ciò che è necessario. La realtà (la concretezza terribile e gentile del reale) è l’unica verità possibile. Al reale è indispensabile educarci, alla sua evidenza e asperità, alla sua inevitabilità.
La poesia è concreta, solida, come un sasso o un minerale, della stessa consistenza. Un verso pesa come un lingotto d’oro o una barra d’acciaio, come uno scoglio o un meteorite. Può essere leggero come le nuvole ma perché sa e proviene dalla durezza, dalla fatica, dal dolore che non ha voce per dirsi.
La vita è difficile. Respiriamo tra continue menzogne che dicono la vita meravigliosa nella sua falsità pubblicitaria, televisiva, gazzettiera, etc.
La vita è quel nodo che in te duole e ti fa felice, che ti toglie il respiro, ti spaventa e ti placa. Non credo nella consolazione, nell’indulgenza, nella medicina che lenisce senza togliere la causa del male.
La poesia non è consolazione, non è indulgenza, non è remissione né risarcimento. È un atto della necessità lungo il cammino della ricerca del senso. È domanda. Assumi la tua esistenza come un atto necessario, non giudicarla».