di Marco Nicastro

[LPLC si prende un periodo di vacanza. Per non lasciare soli i lettori, ripubblicheremo alcuni post usciti nel corso del 2017. Quello che segue è apparso il 31 ottobre].

Capita raramente di avere la possibilità di conoscere e stabilire un rapporto personale con l’autore di un libro che ci ha particolarmente colpiti; credo quindi di essere stato veramente fortunato a conoscere direttamente l’autore di uno di quei pochissimi testi di critica poetica che ho avuto il piacere di leggere e rileggere, anche a distanza di molto tempo. Parliamo di Lorenzo Renzi – già docente di Filologia romanza all’Università di Padova e uno dei massimi linguisti italiani – e il libro è Come leggere la poesia, pubblicato dal Mulino per la prima volta nel 1985 e di cui si contano ad oggi diverse fortunate ristampe.
La mia sensazione è sempre stata quella di un libro molto ben pensato (con revisioni e aggiunte nel corso delle varie edizioni), sia relativamente alla completezza dei riferimenti bibliografici che allo stile di scrittura – sobrio, preciso, incisivo e non di rado venato d’ironia – del quale ho avuto poi modo, nel tempo della nostra conoscenza, di constatare con assoluto piacere una rara coerenza con lo stile personale dell’autore. Nel testo le argomentazioni sono sempre portate avanti con rigore e hanno il pregio raro della sinteticità; nonostante ciò, il lettore non ha mai la sensazione che qualcosa non sia spiegato o chiarito a sufficienza. L’analisi critica di Renzi sonda in profondità per poi riemergere con naturalezza alla superficie della realtà quotidiana di molti lettori, portando al lettore esempi concreti e ancora attuali, anche tratti dalla canzone d’autore italiana, a suffragare alcune posizioni teoriche.
Con un linguaggio semplice ma senza per questo perdere mai in profondità d’analisi, Renzi riesce a farci entrare dentro alcuni meccanismi e caratteristiche propri del testo poetico pur senza alcuna pretesa di esaustività, lasciandoci intravedere contemporaneamente (cosa rara nella critica letteraria) la sua passione per la poesia e i processi linguistici che le sono propri.
Per questi motivi credo si possa dire che Come leggere la poesia, pur avendo ormai quasi trent’anni, sia un libro capace di stimolare ancora oggi il lettore, ben più di tanti saggi di critica poetica anche recenti.
Forte così del rapporto umano che è cresciuto da quando l’ho incontrato per la prima volta, e a seguito di fertili confronti personali che hanno avuto come oggetto la poesia (ma non solo, fortunatamente), è maturata in me l’idea di fare alcune domande all’autore, sperando che possano toccare questioni sufficientemente interessanti anche per altri – “forti” e meno “forti” – lettori di poesia.

Lorenzo, nel libro inizia parlando della dignità di forme poetiche “minori”, nel senso di meno curate formalmente e a più larga diffusione popolare, come i testi delle canzoni. È una posizione interessante, specie dopo il Nobel per la letteratura a Bob Dylan. Ritieni inoltre che le canzoni possano essere il primo gradino da salire per accedere (penso ad esempio ai più giovani) a forme di poesia più elaborate, più letterariamente raffinate. Sei ancora su questa posizione? Potresti dircene qualcosa?

Quando scrivevo che le canzoni che piacevano ai ragazzi erano una forma di poesia, il mio scopo era quello di affermare che il bisogno di poesia è innato nell’uomo. Avrei potuto appoggiare la mia affermazione a una rassegna di popoli vicini e lontani, esotici (quelli che una volta gli etnografi chiamavano i “selvaggi”) per dire che possiedono tutti qualche tipo di poesia, così come hanno qualche tipo di organizzazione sociale o di credenza superiore. Invece ho preferito non fare ricorso all’etnologia, ma all’osservazione di qualcosa di più vicino a noi e che possiamo facilmente osservare: che nella nostra società anche i giovani più estranei alla scuola e alla cultura, che qualche volta addirittura disprezzano, vivendo in assoluta e incolta spontaneità la loro gioventù, si nutrono di poesia. Non lo sanno, ma è così: solo che questa poesia è rappresentata dalle canzoni. I giovani camorristi di Gomorra deperirebbero e forse morirebbero senza le loro canzoni neomelodiche. Dicendo questo modernizzo un po’ quello che scrivevo nel 1980 (e ristampavo nel 1985 in Come leggere la poesia): allora ero ancora abbastanza fresco del ricordo del mio servizio militare, nel quale avevo incontrato molti giovani soldati analfabeti o semianalfabeti, tutt’altro che superbi e nemici della cultura ma del tutto estranei alla scuola, che non gli aveva mai aperto le porte.
Eppure appassionati dei testi delle canzoni in voga, come per es., scrivevo:

Amore, ritorna
Le colline sono in fiore
ed io, amore
sto morendo di dolore…

Questi versi predispongono naturalmente al godimento di poesie come Passero solitario di Leopardi e forse anche di Solo e pensoso di Petrarca, nel senso che possono essere naturalmente propedeutiche a questi grandi testi, a patto che il maestro o il professore sia capace di fargli fare il passaggio.
La stessa cosa si potrebbe dire della musica: quando suonava il silenzio fuori ordinanza (lo eseguiva allora alla radio un trombettista che si chiamava Nini Rosso (oggi si può ascoltare facilmente in Internet) alcuni soldati piegavano la testa piangendo, come faccio io ascoltando il preludio e la morte di Isotta di Wagner. Se a uno piace Nini Rosso, può piacergli anche Wagner.
Sì, quindi, in conclusione sono rimasto della mia idea.
Aggiungo, scusandomi di cadere un po’ nell’aneddotico e nel personale, che al tempo dell’apparizione del mio libro, alcuni lettori, in particolare professori, avevano preso molto sul serio la mia valutazione positiva dei testi delle canzonette. C’era allora una polemica in atto in certe scuole tra ragazzi e professori, perché i primi pretendevano che le canzoni fossero più belle delle poesie che si leggono a scuola, e le loro professoresse naturalmente non erano d’accordo. Un paio di volte sono stato chiamato come arbitro in questo genere di contese, per es. mi ricordo a Trento in una scuola media, a classi riunite, e addirittura un’altra volta a Novara addirittura in un teatro gremito di ragazzi. Accanto a me quella volta c’era Roberto Vecchioni, che era anche lui, oltre che cantante, professore. Non so più cosa ho detto, non certo che Celentano era meglio di Leopardi, ma me la sono cavata meglio di Vecchioni a giudicare dalle reazioni dei ragazzi, che, durante il suo intervento, approfittando del fatto che in teatro c’era il buio, se ne andavano alla chetichella. Ma non durante il mio! Ma poi il Festival di Sanremo l’ha vinto lui.
In quelle occasioni mi sono spesso tradito: conoscevo ben poco di musica leggera (oggi niente), e per es. non sapevo che si dice “gli otto-otto-tre” e non “ottocentottantatre” come avevo detto io allora suscitando l’ilarità generale.

A proposito dell’approccio dei giovani alla poesia, ho spesso pensato che il modo in cui tale approccio avviene nelle scuole sia sbagliato, o almeno non adeguato specie per chi parte da una condizione di svantaggio culturale, o semplicemente di minore interesse o inclinazione allo studio delle materie letterarie, nello specifico.
Più che studiare correnti di pensiero, poetiche astratte e vite degli autori, credo potrebbe essere più utile, almeno inizialmente, soffermarsi sulla riflessione di cosa può caratterizzare una poesia e di far esercitare i ragazzi stessi a comporre testi poetici o a discutere in classe testi poetici di autori magari a loro più vicini (si tratti anche di cantanti). Fare quindi concretamente poesia e leggerla direttamente in classe stimolando riflessioni personali, più che studiare innanzitutto teorie e storia della letteratura, per sviluppare quella che lei chiama la “capacità precostituita dell’animale uomo a capire la poesia”.
Cosa ne pensi dell’insegnamento della poesia nelle nostre scuole?

Credo che anche oggi il primo contatto con la poesia avvenga alle scuole elementari direttamente con alcuni testi poetici che i maestri o le maestre ritengono particolarmente adatti ai bambini. Ai miei tempi uno di questi testi era:

Com’è triste il giorno di maggio
dentro al vicolo povero e solo!
Di tanto sole neppure un raggio;
con tante rondini, neanche un volo.

Ecco alcuni versi di Diego Valeri che ho imparato da bambino, che mi ricordo e che mi piacciono ancora adesso; e com’è bella la continuazione e soprattutto l’ultima strofa! Prego te e i lettori di leggerla in Internet. La mia prima figlia, nei primi anni Ottanta, aveva studiato una poesia del grande poeta indiano Rabindranath Tagore che, tradotta in italiano, non aveva né versi veri e propri né rime, ma era molto bella e non solo lei ma tutta la famiglia la sapeva a memoria, e la recitavamo continuamente girando per la casa:

Il sonno che scende
su gli occhi di un bimbo,
sai tu dirmi da dove viene?
Si, dal villaggio delle fate,
all’ombra di foreste illuminate
dal chiarore delle lucciole…
Di là viene a baciare
gli occhi del mio bambino.

Bene, no? Credo, e spero, che anche oggi nella scuole primarie i bambini imparino a memoria delle poesie, e che questo succeda anche all’inizio delle scuola media. È una buona cosa perché ci fornisce di un piccolo patrimonio di poesie che ci accompagna per tutta la via. Purtroppo, raramente questo tesoretto si accresce col tempo. Io ho cercato nella mia vita di imparare altre poesie a memoria, soprattutto in lingue straniere che stavo imparando, ma mi è riuscito di rado. Capisco che altri, meno appassionati della poesia di me, non ci abbiano provato più. La scuola ci dà tutto quello che potremmo avere, e invece rinunciamo ad avere, per tutta la vita. A un certo punto della scuola però, voglio precisare, lo studio mnemonico deve finire, anche quello delle poesie. È il momento in cui si impone il fatto che imparare vuol dire capire, non sapere a memoria. E si pone anche il problema non solo di sapere una poesia a memoria e di goderla così com’è, ma anche di capirla con una certa profondità, così come per es. non si tratta più di imparare fatti e date storiche a memoria, ma di saperle collocare nella grande storia.
Mi fermo qui. Purtroppo a causa della mia età avanzata (ho 78 anni) il mio contatto con la scuola non è più vivo, come quando ero io stesso scolaro, poi professore, infine papà di due figlie di cui potevo osservare quotidianamente l’effetto della scuola, come ho ricordato anche con un piccolo aneddoto. Ormai la mia esperienza della scuola è remota, e dovrei parlare per sentito dire o peggio, in base a ricordi, come ho fatto fin adesso, e non sarebbe bene.
Sono d’accordo con la tua idea di far scrivere poesie ai bambini, completamente d’accordo. Tempo fa c’erano dei maestri (e ce ne saranno, credo, anche adesso) che facevano scrivere poesie ai bambini delle elementari con risultati meravigliosi. Così faceva per es. un maestro di Marcianise (Caserta), Francesco Valentino, di cui ero diventato amico. A un certo punto gli avevo suggerito di insegnare ai ragazzi a introdurre la rima, e lui l’aveva fatto con risultati davvero sorprendenti. Un’altra volta aveva fatto leggere degli haiku giapponesi ai suoi alunni, e poi loro ne avevano scritti di propri, anche questa volta con risultati poetici sorprendenti. Mi mandava ogni anno per posta i “giornalini” che faceva a fine d’anno raccogliendo i lavori dei bambini. A un certo punto li ho regalati alla biblioteca di Pedagogia dell’Università di Padova. Spero che siano lì ben conservati nonostante il loro aspetto modesto. A dire la verità non li trovo nell’OPAC, il catalogo dei libri in rete, ma forse sono raccolti comunque da qualche parte. Speriamo. Si trova invece in alcune biblioteche il libro di Francesco Valentino − Poesia, fantasia, filosofia: la didattica della creatività nell’esperienza educativa, Roma, Armando 2002 − che merita senz’altro di essere letto, nonostante i molti errori di stampa di cui non era responsabile e che, all’apparizione del libro, l’avevano fatto disperare.

 Nel libro parli anche di un rapporto conflittuale tra storia e storia letteraria nello specifico e poesia. Ci puoi spiegare meglio in che senso la storia della letteratura non “spiega” adeguatamente la poesia, pur potendo facilitare in qualche modo la sua comprensione?

Mi sembra di aver usato l’espressione “rimuovere gli ostacoli” e di aver detto, più o meno, che la storia può rimuovere alcuni ostacoli alla comprensione della poesia, ma non spiegarla. Questa espressione “rimuovere gli ostacoli”, che vuol dire appunto “facilita”, come parafrasi con esattezza tu, o “favorisce”, l’ho presa dalla Costituzione italiana, articolo 3, dove si dice che la Repubblica “rimuove (cioè: deve rimuovere) gli ostacoli di ordine economico e sociale” che impediscono l’uguaglianza di fatto dei diritti dei cittadini. Un compito non da poco, quindi, e che non si risolve mai del tutto: la Repubblica dovrebbe ogni giorno rimuovere qualche ostacolo e, visto che le difficoltà da superare sono numerose e sempre nuove, ricominciare spesso da capo in questa opera di rimozione degli ostacoli e di promozione delle capacità dei cittadini. Nello stesso modo non conosciamo mai abbastanza storia per chiarire una volta per tutte le condizioni storiche, materiali e culturali che hanno condizionato gli scrittori del passato. Dobbiamo leggere le cose che scrivono quelli che hanno studiato e capito più di noi, per cercare di penetrare i rapporti tra la storia e l’espressione letteraria di un’epoca. Ma, attenzione! quelle condizioni non ci dicono perché un autore a quel tempo scriveva proprio quelle cose e proprio in quel modo, con quella forma. Ci sono vari passaggi e non tutti semplici, tra la realtà sociale, e anche tra la realtà interiore di uno scrittore, e l’espressione poetica. C’è in mezzo per es. la tradizione letteraria, che è una specie di forza di attrito che frena il cambiamento, ma d’altra parte senza quella tradizione il poeta non saprebbe da dove cominciare. Magari vorrebbe sbarazzarsene, ma non riesce a farlo, sotto pena di rinunciare a scrivere.
Ma torniamo alla questione più generale della poesia e della storia. La poesia lirica scorre come un fiume che ci sembra quasi parallelo a quello della storia, mentre per es. la storiografia è come una corrente interna a quel grande fiume. Nella letteratura italiana, per es., mettiamo, Francesco Guicciardini, mentre racconta letterariamente quella storia, ne fa anche parte, agisce in lei, e ci racconta sia cosa succede sia cosa fa lui stesso al suo interno, sia cosa ne pensa. È qualcosa di meravigliosamente complesso. Invece Petrarca nella sua lirica ignora quasi sempre la storia (non proprio sempre: ricordiamo la Canzone all’Italia, e c’è anche qualche altra poesia). Pur rappresentando al massimo livello la sensibilità religiosa, civile, culturale del suo tempo, fa pochi riferimenti a quello che succede attorno a lui. Molti suoi componimenti avrebbero potuto essere scritti prima e soprattutto dopo, e infatti i Petrarchisti hanno continuato a scrivere sonetti e canzoni il più possibile simili alle sue per secoli, non solo in Italia, ma anche in altri paesi. Dei grandi poeti stranieri, francesi, spagnoli, inglesi, hanno scritto duecento anni dopo il Petrarca, come se fossero loro ser Francesco, rimando e sospirando come lui, come se vivessero come lui sotto il bel cielo d’Italia, ognuno con la sua Laura. Possiamo fare un parallelo con la pittura: un grande pittore francese, Nicolas Poussin, ha dipinto in Francia nello stesso stile e gli stessi soggetti che avevano dipinto un secolo prima in Italia Giorgione e il suo amato Guercino. Tuttavia i suoi quadri, essendo stati dipinti in un altro secolo e in un altro paese, vanno interpretati naturalmente in un altro modo da quello in cui interpreteremmo i suoi modelli. La stessa cosa se esaminiamo due grandissimi petrarchisti, uno francese e uno spagnolo, come Ronsard e Góngora: era a poeti come questi che pensavo.
Perché questa digressione? dirai. Per mostrare, con un esempio forse un po’paradossale, che ci sono nella poesia, come ho fatto vedere per la pittura, degli autori e delle opere che non si devono spiegare senza un riferimento esterno, storico, anche se apparentemente scrivono in un modo del tutto astorico.
Un’altra prova. Ci sono delle belle collane di poesia mondiale, che di quando in quando ci propongono il fiore della poesia italiana, francese, ecc., ma anche araba, cinese, giapponese, indiana. Quando leggiamo, appunto, qualcuna di queste ultime, cioè delle poesie arabe, indiane o gli haiku giapponesi, possiamo trovarle belle, bellissime, ma dobbiamo confessare che non le capiamo bene. Non sappiamo bene cosa pensare, siamo spaesati. Questo non solo perché non sappiamo com’è l’originale, di cui non capiamo la lingua, o addirittura perché nel libro l’originale non c’è (e quindi ci chiediamo invano: ci saranno delle rime, i versi avranno lo stesso numero di sillabe, e addirittura: ci saranno versi così come li intendiamo noi? ci sarà un accompagnamento musicale?), ma anche perché la poesia tradotta se ne sta in uno totale isolamento. Non sappiamo niente di chi l’ha scritta, del tempo in cui è nata, se c’era pace o guerra, se l’avevano commissionata dei re o dei sacerdoti, e se c’erano se l’avevano approvata o avevano magari fatto tagliare la testa al poeta per quello che aveva osato scrivere… Se troviamo da qualche parte che nella nostra città c’è, mettiamo, un corso di poesia araba, ci aspettiamo, iscrivendoci, non solo che ci si faccia leggere qualche bella poesia, ma anche che si rimuovano gli ostacoli perché la capiamo nel suo contesto storico, cioè che ci si dica anche in che secolo e in che paese è fiorita la poesia araba, ecc. ecc.

Qual è oggi il tuo approccio al testo poetico? Rimane ancora basato sui presupposti dello Strutturalismo, come mi pare di aver inteso dal libro, o qualcosa è cambiato in questi ultimi trent’anni?

Eh sì, lo Strutturalismo, che è stato una grande corrente di pensiero, è passato di moda… sì perché, in effetti, lo Strutturalismo è stato anche una moda. Come ogni moda è stata passeggera, ed è passata abbastanza presto, è durata, in Italia, circa vent’anni o poco più, dal 1960 al 1980. Circa, ripeto. Bisogna però precisare che lo Strutturalismo non era nato in Italia, e che le sue origini nella linguistica di Ferdinand de Saussure o nella poetica dei Formalisti russi risalivano al primo Novecento. L’Italia accoglie lo Strutturalismo in ritardo rispetto ad altri paesi, e lo accoglie con molta prudenza, anche se con qualche sviluppo originale, soprattutto con la semiotica di Umberto Eco e con la poetica del gruppo di “Strumenti critici” con Cesare Segre, Maria Corti, D’Arco Silvio Avalle e altri. Nella linguistica è stata la Grammatica generativa che ha dato una forte spallata allo Strutturalismo, e l’ha gettato di lato. Io personalmente, nella mia attività di linguista (e lo Strutturalismo è stato soprattutto linguistico) ho cercato una specie di compromesso tra le due scuole, Strutturalismo e Grammatica generativa. Il risultato di questo compromesso è presente nel mio manuale di Filologia romanza, che è un libro molto eclettico, ma anche un classico universitario, visto che si ripubblica, seppur con modifiche, ma in fondo non davvero essenziali, dal 1971 fino ad oggi[1]. Nella poetica, invece, o critica letteraria, il mio libro a cui tu fai sempre gentilmente riferimento, resta Come leggere la poesia, del 1985, che, dopo tanti anni e tante ristampe, è finalmente uscito dal catalogo, come si dice, cioè non si ristampa più. Con questo atto, certamente con un buon ritardo, la casa editrice ha sancito il fatto che quel vecchio libro strutturalista che aveva avuto tanti lettori, era ormai superato. Vero.
Cos’ho fatto io, nel frattempo? sono rimasto strutturalista dopo la morte dello Strutturalismo, come i tre granatieri di Heine rimasti bonapartisti dopo la morte di Napoleone? oppure ho aderito a un’altra tendenza, o ne ho creata una io? Non so bene, ma nessuna di queste cose. Ma ho scritto altri due libri di letteratura: due non sono molti, ma la mia vita non è consistita solo nello scrivere libri, quanto soprattutto nell’insegnare, nel ricoprire qualche carica piccola ma onerosa all’Università, e anche in molte altre cose. E scrivere libri è molto, molto faticoso. Nel primo di questi due libri, Le conseguenze di un bacio (il titolo che avevo proposto io era però Per Francesca[2]), esamino l’episodio di Paolo e Francesca dell’Inferno di Dante da molti punti di vista. Ma il lettore attento si accorge che il punto di vista più personale e anche, dico io, più fruttuoso, si trova verso il fondo, è il capitolo X, intitolato Struttura di Francesca. Ahi, ahi, mi accorgo adesso, mentre scrivo, del titolo: Struttura…! Allora vuol dire che siamo rimasti lì, che abbiamo fatto un viaggio così lungo, più di 200 pagine, per tornare a casa, allo Strutturalismo! Non proprio; forse credo di essermi servito di alcune di quelle categorie che lo Strutturalismo ha lasciato in eredità alla critica letteraria di oggi, categorie che sono ancora valide. Lo strutturalismo è morto, ma ha lasciato una ricca eredità metodologica, un’eredità, appunto, di “strumenti critici”.
Il secondo libro è Gli Elfi e il cancelliere. In Germania con Proust, del 2014. Differentemente dai precedenti e dal breve Proust e Vermeer. Apologia dell’imprecisione (1999), ha avuto un’accoglienza piuttosto fredda, forse perché la materia risulta poco interessante in Italia, trattandosi dei rapporti letterari tra Francia e Germania, e io invano ho gridato: guardate che si tratta dell’Europa!. Qui non abbiamo a che fare con la poesia, ma con la prosa, con la Recherche du temps perdu, un romanzo (“il” romanzo!), cioè con quella forma letteraria in cui culmina la prosa nel nostro tempo, con la forma che ha più bisogno della storia per essere capita, essendo lei stessa storia sui generis, storia fattualmente finta, o piuttosto vera ma in un altro senso, non fattuale. Questo libro l’ho scritto senza mai chiedermi qual era il metodo critico che stavo seguendo. È stato come se ci fosse un “io” ricercatore e lettore (lettore di molti altri libri, articoli, critica) che dettava all’io che scriveva. In questo libro ho dedicato molta attenzione ai due autori che, oltre ai Formalisti russi e agli Strutturalisti, mi hanno più influenzato nella mia attività di critico letterario: Leo Spitzer e Erich Auerbach. Questi due autori, particolarmente il secondo, mi hanno trattenuto da un’adesione acritica allo Strutturalismo e dall’astrattezza che questo poteva comportare. Auerbach, del resto, fornisce superbi modelli di analisi interna dei testi (la stessa a cui mira lo Strutturalismo), che l’autore correla poi con il quadro storico, che è quello che gli sta più a cuore (Auerbach era storicista, un profondo, originale storicista, mentre io non lo sono − a proposito, anche lo storicismo è morto, ma ha lasciato anche lui una ricchissima eredità). Dall’altro autore, Spitzer, ho imparato che ogni testo letterario può essere affrontato con un metodo diverso, seguendo la propria personale intuizione critica. Anche in questo caso il suo punto di vista mi è stato utile per combattere la meccanicità con cui sono condotte molte indagini strutturaliste sui testi, come quelle del grande Jakobson, con i suoi calcoli noiosi sulle vocali e sulle consonanti (alludo ai saggi raccolti in Grammatica della poesia e poesia della grammatica, non certo ai suoi esplosivi saggi giovanili, o al suo meraviglioso e sempre giovane saggio Linguistica e poetica del 1960 (in italiano 1974).
Insomma, come ho già detto prima del mio orientamento in linguistica, anche nella teoria della letteratura credo di essere moderatamente eclettico e, benché questa parola sia usata spesso in senso negativo, non me ne pento. 

Leggendo il libro si ha l’impressione che emerga a tratti una qualche sfiducia che la critica (o forse solo una certa critica?) possa approcciarsi efficacemente all’interpretazione di un testo letterario o poetico. È corretta questa impressione? A che punto ti pare sia giunta la critica poetica o letteraria?

Alla prima parte della domanda rispondo certamente di sì: la tua impressione è giusta, e mi pare di aver portato elementi a favore di questa interpretazione nella risposta precedente.
La seconda domanda è troppo vasta e io non posso rispondere anche per mancanza di informazione. Ma si può leggere alcuni libri a questo proposito, come per es. Modernità italiana: cultura, lingua e letteratura dagli anni Settanta a oggi, a cura di Andrea Afribo e Emanuele Zinato (Roma, Carocci, 2011). 

Nel testo, parlando dell’opera poetica di Dante e di Foscolo, accenni al fatto che l’elemento “politico” o la tensione “civilizzatrice”, tipici di molte opere di questi poeti, costituiscono elementi “impuri” in poesia. Cosa intendi esattamente?

La poesia si trova raramente allo stato puro, come – credo − i minerali pregiati, che si trovano sempre mescolati a altri del tutto vili. Il fatto sta che il poeta che vive solo di poesia è una rarità assoluta, e anche una figura un po’ marginale che può essere patetica e perfino ridicola. Dante, poeta impuro per eccellenza, nella Divina Commedia scriveva poesia davanti a Dio e agli uomini, per glorificare il primo e condannare o assolvere i secondi, in questo secondo caso prendendo il posto di Dio stesso. Apparentemente questo ha poco a che fare con la poesia, eppure per noi oggi è poesia, poesia alla massima potenza: questo malgrado, o forse proprio perché Dante si occupa così intensamente della vita del suo tempo, e ci mette dentro tutto il suo violento, e talvolta ingiusto, livore politico. Ai ragazzi piace moltissimo quando Dante maledice Pisa, la sua Firenze, la “serva Italia”, il Papa: è difficile spiegare perché questa è poesia, è più facile intuirlo. Ci sono moltissime altre poesie che sono nate per fini assolutamente non-poetici, anzi sono forse la maggioranza. Tra queste il Cantico delle Creature di san Francesco, che è una preghiera, ma che noi leggiamo come una poesia, ben comprendendo che resta sempre anche una preghiera. E facciamo benissimo. In questo modo, tra l’altro, noi non solo educhiamo il nostro gusto poetico, ma capiamo che non dobbiamo essere così confessionali da apprezzare solo ciò che appartiene in poesia alle nostre tradizioni: il Cantico delle creature, come poesia e come espressione di sensibilità e di civiltà, può essere apprezzato anche da un musulmano, così come dei cristiani ferventi hanno apprezzato per secoli quell’opera, così pagana, che sono le Metamorfosi di Ovidio. Lettori politicamente moderati non sono esentati dall’apprezzare le infuocate poesie rivoluzionarie di Majakovskij, ecc. Si dice che le buone intenzioni non fanno sempre la buona letteratura, ma bisogna anche aggiungere che quelle cattive non fanno sempre cattiva letteratura. Vedi Ezra Pound, Céline, e molti altri che hanno sostenuto tesi sbagliate e nocive. Il grande dantista Guglielmo Gorni ha affermato con ragione, ma anche con un certo coraggio (perché Dante è un poeta che in Italia non si può toccare!) che le idee politiche di Dante erano pessime, e non solo in generale e per il nostro tempo, ma anche per il suo.
Gli scrittori e i poeti, insomma, sono come gli altri uomini, gente del loro tempo, pieni di idee, spesso sbagliate, come sono spesso le nostre. Sono spesso particolarmente fegatosi e fanatici, come Dante, come ho già detto, come il fanatico Jacopone da Todi, altro grandissimo poeta, come Pound, come spesso Pasolini. Non scrivevano per i posteri, anche se ad alcuni non gli dispiaceva l’idea di essere letti e ammirati anche dopo la morte (sottolineo “anche”), ma soprattutto per i contemporanei, spesso per dirgliene quattro e per accapigliarsi con loro. Altre volte aderivano semplicemente al potere in vigore al momento, erano puri opportunisti, ma scrivevano belle poesie.
Anche per questo l’insegnante deve ricostruire per i ragazzi il mondo spesso tormentato da idee religiose, politiche, perfino da teorie economiche (come nel caso di Pound) e, ahimè, anche da odii, rancori e pregiudizi personali, e, peggio, etnici e nazionali, da cui nasce in concreto la letteratura, poesia compresa. Potrà dare particolare rilievo, se vuole, a quella letteratura con il cui contenuto noi siamo oggi in genere (ma solo in genere) più in sintonia, la poesia della tolleranza, dell’amore per l’umanità, il progresso. Ma al rischio di un certo conformismo. Meglio dar voce a tutti e in particolare a quelli che, qualsiasi cosa dicano, sembrano fare una poesia migliore degli altri.

Ma cos’è per te la poesia? chiederai tu. Rispondo: l’“in più” che resta, tolti gli elementi impuri. Alle volte niente, alle volte molto, moltissimo. Ma è difficile essere più precisi[3]. 

Nel linguaggio poetico tradizionalmente assumono particolare rilevanza gli aspetti fonetici e formali o, in assenza di questi, l’elevato tasso di simbolismo del contenuto. Il genere poetico risulterebbe cioè caratterizzato, oltre che da specifiche strutture formali che contribuiscono per altre vie ad espandere il senso di quanto comunicato dal linguaggio, anche dalla finzione, dall’illusione, nel senso di una dimensione fittizia “separata dalla vita normale”, per usare le parole di Callois citate nel libro.
Che considerazioni si possono fare oggi su questo genere letterario considerando che, negli ultimi decenni, tanta poesia tralascia spesso quegli aspetti, virando modalità di espressione e temi prosaici? Credi che la questione della distanza dal senso comune, dalla realtà “reale”, sia centrale nel demarcare il campo della poesia da quello della prosa? Oppure le differenze tra i generi sono più connesse alle convenzioni culturali delle varie epoche storiche e, fatto salvo il carattere fittizio del testo letterario, null’altro distingue realmente i due generi?

Gli elementi formali sono necessari alla poesia, come credi anche tu e come si vede dalla tua domanda. Lo Strutturalismo ci ha dato indicazioni preziose in questa direzione: penso soprattutto a Jakobson, di cui ho già detto, ma anche a Eugenio Coseriu nella sua Linguistica del testo, (trad. it. 1997). Solo non è detto una volta per tutte quali debbano essere questi elementi formali. Possono anche essere ridotti al minimo come nei “poèmes en prose”, in cui però subentra, come dici giustamente tu, il simbolismo. Coseriu mostra molto bene come avviene questo, anche con degli esempi. Questo processo avviene in molta poesia moderna, che abbandona i versi (o li riduce a semplici apparenze grafiche), le rime e gli altri procedimenti formali della tradizione poetica. Ma se il contenuto diventa troppo banale, terra terra, inadatto a fare da supporto a un valore simbolico, è difficile che ne venga fuori qualcosa. Come sottintendi tu, mi pare, questo è quello che succede a una certa poesia contemporanea, che puntando troppo sul sottotono e magari sull’ironia può cadere nell’insignificanza. Può, dico, ma non sempre questo succede. 

Sempre rimanendo su questo tema, nei paragrafi finali del libro, parlando della poesia prosastica dei poeti della cosiddetta linea lombarda, ti interroghi più esplicitamente sul rapporto tra poesia e prosa e su cosa le può distinguere o accomunare. Giungi poi alla conclusione provvisoria che, al di là dei tratti distintivi di tipo formale che da sempre sono propri della poesia, ciò che la caratterizza è la sua capacità di rimandare ad altro, magari a molteplici altri significati (il suo coefficiente simbolico, mi verrebbe da dire). Ma, in effetti, tale caratteristica può essere propria anche di un discorso in prosa, non caratterizzato cioè dalle strutture formali più tipiche della poesia. Concludi però questo ragionamento problematicamente, facendo l’esempio di Duchamps che ritenne di poter fare arte semplicemente con una ruota di bicicletta (un oggetto molto “prosastico”), provando a dotare di pregnanza simbolica quel manufatto anche solo attraverso la sua esposizione in una mostra d’arte, in un contesto cioè che lo definisse già come tale.
Tu mostri un certo scetticismo, nel libro, relativamente ad operazioni di questo tipo, ritenendo comunque importante affidarsi ad un qualche criterio estetico, o ad una qualche abilità tecnica dell’autore (tipica ad esempio di alcuni poeti della linea lombarda) che trasformi la prosa più banale in poesia. Ha ulteriormente approfondito tale questione?

A dire la verità no. Non ho scritto un Come leggere poesia 2. Non ho più fatto quasi nuove interpretazioni poetiche. A proposito della “linea lombarda”, con il suo minimalismo, vorrei dire che ha prodotto poesie belle, bellissime, che si salvano senz’altro, e altre che cadono miseramente. Diciamo che il minimalismo fa una scommessa che è difficile vincere, quella di dire cose di ogni giorno, con la lingua di ogni giorno, per significare molto di più. Ma anche la scommessa della linea precedente e opposta, quella dell’ermetismo, con il suo tono spesso sacrale, non era facile da vincere. Negli ermetici il tono si innalza troppo e il povero lettore lo insegue difficilmente fin lassù. Spesso la poesia, come un palloncino, si perde nel cielo e il lettore rimane a mani vuote.

Per concludere questo lungo dialogo, andato oltre le nostre attese iniziali, un’ultima domanda: conoscendoti un po’ meglio in questi anni, ho avuto la sensazione che, rispetto all’epoca in cui hai scritto Come leggere la poesia, ti sia allontanato dal quel mondo e dalla critica poetica, pur mostrando sempre, devo dire, un grande interesse e piacere a leggere di poesia. Puoi dirci qualcosa in proposito? Ti sei dedicato ad altro?

Vedi, per me, che ho insegnato tutta la vita Filologia romanza, la critica poetica è stata una cosa fatta un po’ a parte. Ho scritto sì qualche lavoro impegnativo di stilistica, o diciamo pure di poetica, “poetica strutturale” alla Jakobson. Il più importante è stato dedicato ai canti narrativi popolari romeni, il cui tema era ben nei limiti nel mio dominio disciplinare; poco dopo i Canti (1969) ho scritto “Come leggere la poesia”, che a rigore ne era fuori. Con il passare del tempo, sono stato sempre più richiamato al dominio disciplinare, che del resto amavo moltissimo. La problematica metodologica sul come leggere la poesia, come interpretarla, con quali strumenti farlo, ecc. è del resto interdisciplinare, e la poesia italiana moderna è solo uno spicchio. Nel mio libro su Dante e anche in qualche altro saggio, ma non su autori moderni, ho adottato i principi della narratologia di Genette, propaggine moderna di quella di Vladimir Propp ai tempi del Formalismo russo. Era un modo di seguire alcuni recenti sviluppi dello Strutturalismo, che mentre altrove decadeva, nella narratologia dava ancora qualche accecante bagliore. Avrebbe potuto uscirne un Come leggere la prosa! Un’idea, no? Ci ho spesso pensato, ma non l’ho fatto; non ne ho scritto nemmeno un minutissimo frammento, che sarebbe stato pur sempre qualcosa. Ma non avevo e non ho più la forza, il tempo e anche il coraggio della gioventù. Ormai quel che ho scritto ho scritto.
Concludo ringraziandoti, Marco, di avermi sollecitato con le domande della tua intervista a queste confessioni in ordine alla mia vita intellettuale. Temo infatti di avere parlato più di questa che della poesia, di cui in fondo so poco. Come un malato che parlerebbe sempre delle sue malattie, l’uomo di cultura, soprattutto se anziano come me, parlerebbe sempre di sé, di quello che ha pensato e che ha scritto o non ha scritto. Rimugina sempre le sue cose tra sé. Tu invece, da buon psicoterapeuta quale sei, oltre che poeta, mi hai aiutato a metterle in pubblico.
Adesso vediamo un po’ se qualcuno le vuole leggere, e dire almeno: mi piace/I like, o non mi piace/I don’t like.

Padova, 18 settembre 2017.


[1] Il mio libro ha avuto prima il titolo di Introduzione alla Filologia romanza, poi di Nuova Introduzione, infine di Manuale di linguistica e filologia romanza, questa volta in collaborazione con il professore, già mio allievo, Alvise Andreose.

[2] Nel libro difendo dai detrattori antichi e moderni la figura letteraria (sottolineo “letteraria” ) di Francesca, e preciso anche che Francesca è il nome della mia prima figlia, quella del Sonno che scende. Per questo Per Francesca.

[3] Ho provato a dire cos’è la poesia nel cap. II di Come leggere la poesia, in un quadro teorico a dire la verità molto specialistico, quello della “teoria degli atti linguistici”, parte della filosofia del linguaggio. Siete esentati dal leggerlo.

[Immagine: Sol LeWitt, Wall Drawings]

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