di Nicoletta Vallorani
Pensare obliquo, rubrica a cura di Nicoletta Vallorani
Sono tornata a inciampare in Derek Jarman, l’amore sconfitto e vincitore, l’artista che non si riesce a strapparsi di dosso una volta che lo si è incontrato, il combattente scavezzacollo. Che mi accada ora è significativo, e non del tutto casuale: anche questi sono tempi barbari per le forme d’arte che potrebbero, invece, salvarci. Ma non stiamo trovando lo sguardo giusto. Procediamo a tentoni affidati a risoluzioni biomediche utili ma insufficienti a riconsegnarci la percezione di un tempo capace di srotolarsi verso il futuro. In questa cornice, riavvicinarsi a Jarman è un esercizio paziente e istruttivo, una consumazione inesausta del tempo, la fioritura ostinata e invincibile di un giardino sul terreno desolato intorno a Prospect Cottage.
A Dungeness, l’artista arriva per caso nella primavera dell’86, con Keith Collins (l’amatissimo HB) e Tilda Swinton (l’amica e la complice). Stanno cercando un campo di papaveri, da inserire in un lavoro in corso, un film che si sarebbe chiamato The Garden (1990). Fermarsi, mangiare in una taverna, rimanere incantati dal paesaggio, individuare un cottage in vendita e decidere di farne un rifugio sono tutti fotogrammi di una stessa sequenza: l’inconsapevole costruzione di una speranza di vita quando ancora non si ha coscienza della presenza della morte. Jarman si deciderà a fare il test nel dicembre dello stesso anno, dopo averlo rimandato per mesi. E si scoprirà sieropositivo.
La musicista Alessandra Novaga, che a Prospect Cottage e a questo insolito, eclettico e affascinante artista ha dedicato un album visionario e toccante (I Should Have Been a Gardener), dice una cosa molto vera. Succede a tutti: si incontra Jarman, per lo più per caso, negli interstizi di una cultura che si va sempre più impoverendo, e non si riesce più a staccarsene. Ci si riempie la casa di fiori mentre ci si innamora dei suoi diari, gli scritti più privati (Modern Nature e Smiling in Slow Motion) e le autobiografie più pubbliche (Kicking the Pricks e At your Own Risk), e si finisce per cercarvi le tracce di una resistenza ostinata, ironica e poetica a una malattia che conduceva, allora, a un’unica conclusione possibile. “Non vincerò la battaglia contro il virus”, dice un Jarman ormai cieco in Blue (1993). Non si vive con l’AIDS. Non ce n’è modo. Il meglio che si riesce a fare è accompagnare la vita verso la propria conclusione, studiandosi modi per farne arte. Ed è in quello sforzo che la cecità può e deve diventare visione, poetica rappresentazione di un reale ingarbugliato e per certo non facile da dipanare.
È difficile, specie oggi, capire come si arrivi a questa straordinaria capacità di “vedere”. Come ci arrivi Jarman, cioè, seguendo un passo dopo l’altro la trasformazione del suo corpo. Il processo, dalla diagnosi in avanti, è una progressiva sottrazione di peso (fisico e simbolico), il riconoscimento di una ineluttabilità che trasforma la cecità fattuale in una straordinaria capacità di visione.
In Blue, una delle frasi sue che amo particolarmente, tra le mille che mi hanno folgorata, è questa: “Mi sono sorpreso a guardare un paio di scarpe in una vetrina. Ho pensato di entrare a comprarmele, ma poi mi non l’ho fatto. Le scarpe che ho addosso saranno abbastanza per accompagnarmi fuori dalla vita”. L’atto di “camminare fuori dalla vita” è al tempo stesso poetico e ironico. Traduce l’intuizione che quel che si è fatto è ormai fatto, e sperabilmente lascerà una traccia, e quello che si deve ancora fare va riconfigurato nell’ottica di un tempo breve, che ha da essere intenso. Esso è la parentesi preziosa che serve a drappeggiarci addosso l’abito simbolico con cui vogliamo andarcene, un abito che diventa la dimostrazione pratica del saper morire.
Siamo in grado di farlo? Tutta questa corrente consuetudine con la morte – numero, statistica, garanzia di futuro o dimostrazione della sua assenza – sta producendo consapevolezza? È possibile, come ha fatto Jarman, adoperare l’arte per arredare di atti importanti il tempo che resta? Siamo consapevoli che si possa diventare giardinieri di se stessi? Possiamo imparare questo dalle forme della cultura? Che è inutile, e in quanto tale, preziosissima.
Jarman muore di AIDS all’inizio del ’94. Scopre di essere malato dopo Caravaggio (1986) e mentre sta girando The Last of England (1988). La diagnosi è uno spartiacque, meticolosamente raccontato nei diari di regia dell’apologo sullo stato dell’Inghilterra thatcheriana che sta mettendo insieme. Essa arriva, lo si è detto, subito dopo la morte del padre, militare disciplinato, neozelandese di sangue Maori e aviatore della RAF. “Disgustosamente in forma” per tutta la vita (Kicking the Pricks, 1987), Lance Jarman se ne va dopo che la malattia lo ha reso del tutto dipendente dai figli, muto, quasi privo di ogni possibilità di muoversi. C’è una poetica consonanza tra la liberazione dall’ingombrante figura paterna e la coscienza di una condanna senza appello. Per più di un motivo, quindi, la diagnosi diventa il momento preciso nel quale si rende necessario fare una scelta, con la precisa consapevolezza di essere stato “spinto in un angolo, una volta per tutte” (Kicking the Pricks). Per quanto lo splendore della vita degli altri diventi intollerabile, per quanto urgente si faccia il desiderio di disperarsi, Jarman decide in questo preciso momento di “essere uno dei padri” (Kicking the Pricks). Di fatto, significa rimodellare il tempo che gli resta come spazio di una simpoiesi artistica capace di pervenire a due risultati: la consolazione e la denuncia.
Jarman vive gli anni della malattia in una comunità deragliata, dove quella che in partenza viene definita come la peste dei gay – GRID, ovvero Gay-Related Immuno-Deficiency – non produce consapevolezza scientifica e coesione sociale ma sanzioni legali dispotiche (Clause 28) e l’idea condivisa che potesse aver senso creare dei campi di concentramento per i malati di AIDS. L’accanimento mediatico alza muri invalicabili, cancella la visibilità dei gay nella comunità, o rendendoli visibili come veicoli di contagio.
A tutto questo, Derek Jarman resiste.
A che cosa sia servita allora la sua ostinata resistenza, non saprei dirlo. Ma ci serve ora. Registro una commovente utilità di questo artista ora. Quel che ci sta accadendo, come comunità, è singolare. Abbiamo, in questa sciagurata contingenza, una consuetudine urlata con la morte. Accanto a essa, coltiviamo una profonda, assoluta incapacità di ricorrere agli strumenti della cultura e dell’arte per ricapitolare con senso i rischi che il corpo corre e per sopravvivere alla dimenticanza. La scienza è rifugio e salvezza. La scuola è inutile. La cultura anche peggio. Le istituzioni intellettuali sono chiuse, con la convinzione che questa chiusura non faccia danno. C’è una straordinaria, paralizzante cecità in quello che stiamo vivendo: un’aporia della vista che si coniuga, a me pare, con la perdita di contatto con quello che conta a favore di un’apparenza che vorrebbe consolarci, ma non ci riesce.
Le visioni per ciechi di Jarman insegnano una strada diversa. Conducono cioè a scavalcare l’ostacolo – di un corpo che per sua natura a un certo punto si svuota di vita – e a capire che un’emergenza biomedica non può essere solo tale, e non si affronta con i soli strumenti della scienza. Essa si dipana in un contesto sociale, che è complesso, empatico, non riducibile a numeri e algoritmi. L’incapacità di comprendere questo dato produce danni incalcolabili.
Quando realizza il suo ultimo (non)film, Blue, Jarman ha una quantità di infezioni opportunistiche e stava progressivamente perdendo la vista. Il progressivo sfarinarsi del mondo reale è registrato con uno sguardo attento, impietoso e lirico in una quantità di diari. Ha preso posizioni, abbracciato un corpo irriconoscibile, amato molto e perso moltissimo, senza perdere per questo se stesso. L’azzurro che invade il suo ultimo film è l’equivalente più prossimo del suo campo visivo nell’ultimo periodo della sua malattia. Pensare da ciechi, come lui stesso dice, è un dono: rivela quello che a occhi aperti non riesci a vedere.
Si impara a pensare da ciechi. Ritorno a Jarman per capire come sia mai possibile farlo ora.
[Immagine: Derek Jarman, Blue].
Avere come mito la morte denota quanto poco si ami la vita. Condannato dal suo disordine sessuale Jarman è diventato uno di quei miti che piacciono tanto alla generazione al potere; all’apice di questa morale vi è la morte come liberazione dalla vita. A ben vedere tutto questo risentimento non si discosta molto dai principi del cristianesimo, anzi, ne è il coronamento.
No, non concordo affatto. A leggere Jarman, si capisce quanto sia sbagliato, riduttivo e incompleto questo modo di affrontare la questione. Ma grazie per il contributo.
Il mio contributo alla questione è irrilevante e mi dispiace di aver disturbato la suscettibilità dell’autrice dell’articolo, me ne scuso vivamente, effettivamente ho esagerato nelle mie considerazioni; a mia scusante forse posso portare ad esempio il modo nel quale ho passato la mia adolescenza. Amicizie sbagliate mi hanno portato a giudicare certe culture ideologiche…
No, non si preoccupi: non deve scusarsi. Semplicemente, abbiamo una percezione diversa, ma va bene così. Jarman non è autore facile, ma i suoi diari sono di una bellezza travolgente. Sempre secondo me.
Non sono riuscito a trovare qualcosa di Jarman tradotto in italiano, forse il mio inglese è carente e comunque bisogna conoscerlo bene per seguire per filo e per segno ciò che è scritto nei diari. Se mi si può indicare qualche titolo in italiano, sarò felice di leggerlo ampliando il mio giudizio, anch’esso carente e viziato, legato soprattutto a Blue e ad altro della sua filmograf