di Axel Honneth
[È appena uscito dal Mulino La libertà negli altri, curato e introdotto da Barbara Carnevali e tradotto da Francesco Peri. Il volume raccoglie alcuni saggi di Axel Honneth sulla «libertà sociale», il concetto con cui il direttore dell’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte ha reinterpretato nei suoi ultimi lavori la tradizione filosofica della teoria critica. Riprendendo e correggendo la famosa distinzione di Isaiah Berlin tra due forme di libertà, la libertà negativa e la libertà positiva, Honneth aggiunge un terzo genere di libertà che ritrova nella tradizione del socialismo e negli scritti del giovane Marx: i membri di una società sono davvero liberi solo quando le loro condotte individuali si integrano vicendevolmente in modo tale che la libertà dell’uno costituisca il presupposto per la libertà dell’altro. La cooperazione tra lavoratori, l’amore e l’amicizia sono esempi di quel «Noi» in cui i fini dei singoli sono non solo intrecciati ma indistinguibili tra loro, in una comunità di soggetti solidali che si «sentono a casa propria negli altri». La libertà sociale concilia tutte le forme di libertà, ma ognuna delle tre è preziosa e imprescindibile.
Al tema della realizzazione della libertà è dedicato il saggio su Bob Dylan che chiude il volume, e di cui pubblichiamo un breve estratto. Da sempre fan della sua musica – il saggio è stato scritto nel 2007, prima del Nobel – Honneth considera Dylan come l’interprete esemplare delle aspirazioni morali e politiche della nostra epoca, e ne analizza le canzoni interrogandosi sul contenuto di verità della musica rock e sul suo rapporto con l’esperienza].
Tutti i principali esponenti del rock anni Sessanta e Settanta (John Lennon, Jimi Hendrix, Lou Reed, e potremmo citarne molti altri ancora) hanno contribuito a dischiudere nuovi continenti della sensibilità umana, senza limitarsi, tuttavia, ad affermare in modo non problematico, nella struttura compositiva e nei testi dei loro brani, le nuove libertà o l’autonomia e l’indipendenza conquistate rispetto alla generazione dei genitori. Negli stati d’animo articolati da quella musica si facevano strada elementi di complessità che mettevano in guardia dai rischi di una perdita di sé legati a un eccesso di autenticità. In nessun rocker dell’epoca, però, si avverte chiaramente come in Dylan l’intenzione soggiacente di articolare l’esperienza del carattere intrinsecamente contraddittorio della realizzazione della libertà. A un primo livello, il cantante Dylan, che fin da subito si mostra perfettamente padrone dei propri mezzi, tematizza nei suoi dischi e nei suoi live un’impetuosa volontà di indipendenza dalla tradizione, dall’ambiente circostante, da tutte le attese sociali. Già solo con le sue pose disinvolte, sostenute dal suono quasi arrogante della sua voce di «argento vivo» (Richard Klein), in diverse canzoni Dylan inscena se stesso come l’unica istanza autorizzata a decidere del proprio destino e della propria vita. I testi che fanno capo a questa prima categoria iniziano spesso e volentieri con il pronome «I», brandito in modo quasi trionfale o sussurrato in tono gelido, mentre il riferimento a un «we» comune è molto più raro[1]. Al centro del discorso c’è sempre una presa di distanza dalle attese di comportamento legate ad altri soggetti, concreti o generici che siano. Eppure il motivo liberatorio che rimanda al perenne avvento di un nuovo inizio, «strike another match, start anew», non ricalca affatto il modello romantico di una ricerca dell’autenticità e della realizzazione di sé, perché qui manca ogni riferimento alla necessità di sintonizzarsi sulla voce interiore della propria personalità per ricavarne il modello di un progetto di vita futura. Dylan sembra avere capito fin da subito che anche la scelta di orientarsi in base ai dettami del cuore, cioè in funzione dei propri sentimenti, implica sempre un passaggio ulteriore, cioè la decisione di creare una personalità di un certo tipo: prima di poter assumere una nuova identità, occorre elaborare un progetto di vita individuale sulla base delle indicazioni frammentarie ricavabili dalle nostre sensazioni e dalle nostre emozioni (qualunque sia lo specifico contenuto che emerge nella propria interiorità)[2]. Il modo in cui il motivo della libertà si articola a livello musicale con quello della presa di distanza rimanda a un motivo esistenzialistico, quello della scelta di sé, il pathos di ascendenza sartriana di una continua reinvenzione di sé. Con la sua costante sperimentazione di nuovi arrangiamenti, con il fraseggio eccentrico delle sue canzoni e con l’accento blasé della sua vocalità Dylan si faceva difensore del diritto del singolo a ricrearsi incessantemente in forme radicalmente nuove nel cuore stesso del movimento di protesta e della cultura hippie, due correnti sociali che esercitavano sull’individuo pressioni notevoli nei termini di una condotta politica ritenuta corretta o di un comportamento considerato autentico.
Già solo questo aspetto della sua opera basterebbe a fare di Bob Dylan un poeta rock di raro fascino. Rivendicare la libertà di una ridefinizione permanente di sé in un’epoca di avanguardie sociali che imponevano pur senza volerlo un elevato grado di conformità significava lavorare con mezzi estetici contro le forze dell’oblio e della rimozione. Non per nulla i protagonisti dei movimenti che, all’epoca, esigevano dai loro aderenti un allineamento politico e culturale erano stati quasi sempre, fino a pochi anni prima, degli accesi sostenitori dell’esistenzialismo di Sartre, i cui scritti avevano additato loro la strada dell’indipendenza[3]. Quando inneggiava in musica alla presa di distanza e alla scelta di sé (poco importa che lo facesse in modo mirato o solo intuitivo) Bob Dylan ricordava a tutta la sua epoca una preistoria dimenticata che continuava ad agire: senza gli eccessi della libertà radicale e dell’incondizionato essere-se-stessi oltre ogni vincolo predicati dall’esistenzialismo negli anni Cinquanta quella cultura dell’autonomia politica e delle libertà sociali e culturali, nella quale peraltro viviamo ancora oggi, non sarebbe mai potuta esistere. Eppure questa caparbia, scontrosa, aggressiva rivendicazione di una libertà incondizionata è solo un aspetto dell’opera di Dylan, al quale viene a contrapporsi senza mediazioni una seconda tematica del tutto estranea all’epoca e alla sua mentalità: una nota di congedo, di perdita, di lutto.
Per cantare le lodi di una spassionata presa di distanza, per insistere musicalmente sul diritto dell’individuo a ricominciare ogni volta da capo e per fare l’elogio poetico della libertà di scegliersi da sé occorre non sentirsi intimamente vincolati al passato individuale o collettivo, ma nell’opera di Dylan si trova ben altro: non è raro che nell’economia di una stessa canzone, accanto ai toni e ai modi nei quali l’accento cade sulla rivendicazione della libertà individuale, ricorra anche l’espressione di un congedo dall’intonazione malinconica, un addio al mondo del padre e della madre. Uno dei pezzi nei quali la collisione tra una trionfale presa di distanza e la nostalgia per il passato risulta particolarmente evidente è Desolation Row. Mentre l’ultima strofa, sostenuta da un accompagnamento musicale fattosi nel frattempo molto più sonoro, canta con arroganza aggressiva la conquista di una libertà nuova e il rifiuto del già noto («don’t send me no more letters no»), la prima strofa inizia con la dolorosa rievocazione del «circus […] in town» e dei luoghi dell’infanzia, rimasti impressi nella memoria in uno strano accostamento. Varie canzoni di Dylan sono dedicate a una lunga e protratta presa di congedo, articolata da un cantato ricco di gemiti e sospiri che mette in risalto l’intero spettro cromatico della sua voce. L’oggetto di questo processo di elaborazione del lutto in forme estetiche è sempre il mondo dei padri e degli antenati, che pur non venendo rappresentato con colori vivaci, in forme armoniose e nobili, viene spesso evocato con rispetto e non di rado perfino con ammirazione. L’esperienza centrale che emerge in quei passaggi è quella del costo emotivo della separazione dagli oggetti amati nell’infanzia, l’esperienza della fatica e degli sforzi implicati da quella presa di distanza. Il debito enorme che fin dagli esordi Dylan ha contratto con il retaggio musicale dei suoi predecessori, sia nelle registrazioni che nei concerti, è un chiaro indizio del fatto che il lutto del ricordo non finisce mai, perché configura un compito irrisolvibile[4].
Il contrasto tra un passato investito in senso emotivo e il mondo del presente viene evocato per mezzo di immagini che comunicano soprattutto l’ottusità e la corruzione delle metropoli americane. Come cantautore Dylan è più un poeta delle patologie sociali che non un paladino della giustizia politica. L’inclinazione surrealista dei suoi testi trova terreno fertile soprattutto nella descrizione delle forme deteriori dell’alienazione umana, del disfacimento e della nevrotizzazione strisciante (Bob Dylan’s 115th Dream). Queste evocazioni di stati di anomia sociale, però, servono per lo più da sfondo di contrasto, come un bizzarro e scioccante pendant che fa apparire il passato perduto come tanto più desiderabile al confronto. Le canzoni che sviluppano una diagnostica sociale non si liberano mai del tutto dell’intonazione malinconica e luttuosa, anche quando la voce scade nell’ironia più amara e nel cinismo più deliberato. Particolarmente importanti per il contenuto dell’opera dylaniana, però, sono i momenti nei quali nello spazio di una sola canzone o nell’avvicendarsi tra due pezzi di una stessa scaletta questa nostalgia rivolta al passato cozza senza mediazione con gli inni alla libertà incondizionata. Due impulsi e due moti diversissimi sul piano affettivo vengono così a fronteggiarsi senza che l’uno possa mai riconciliarsi con l’altro: il prezzo da pagare per la reinvenzione radicale di sé alla quale aspiriamo come individui è la rinuncia alle cose che un tempo abbiamo amato e desiderato. Restare legati a quelle cose, continuare a tributare loro amore e attenzioni, significherebbe infatti voltare le spalle all’ambizione di attingere una libertà individuale incondizionata. Quando Dylan canta con voce trionfante «Forget the dead you’ve left, they will not follow you»[5], l’effetto è quello di un auto-esorcismo o di una forma di difesa contro l’angoscia.
Come se questa esperienza della confusione dei nostri intenti e dei nostri desideri non bastasse, nell’opera di Bob Dylan emerge anche un terzo filone tematico legato al problema della libertà. Anche in questo caso, a impartire la giusta intonazione emotiva sono un registro vocale ancora diverso e un altro tipo di approccio alla melodia. In molte delle sue canzoni, dagli esordi a oggi, Dylan parla di una libertà che non si esplica nella presa di distanza e nella reinvenzione di sé, ma in un immergersi nell’altro, in un pervenire a se stessi nell’altro (I Want You, Temporary Like Achilles). Varie canzoni, in Dylan, parlano soprattutto dell’esperienza della separazione e del dolore che la accompagna, ma perfino in questo caso, seppure e contrario, trova espressione un anelito, la nostalgia della ricchezza che deriva dalla fusione con l’altro. Questi accenni a una libertà intersoggettiva, presente sia nelle ballate amorose (per cui vedi soprattutto i testi di Blood on the Tracks) che nei gospel di ispirazione cristiana, costituiscono un’ulteriore linea di contrappunto alla fissazione esistenzialistica sull’io e al pathos della libertà. L’esperienza di una libertà che possiamo attingere davvero soltanto quando ci troviamo presso noi stessi nell’altro in un atteggiamento di cura e dedizione, infatti, contrasta in maniera irriducibile con la pretesa di dovere la nostra libertà soltanto a noi stessi. Spesso due umori tra loro incompatibili vengono contrapposti all’interno di una stessa scaletta o addirittura nell’arco di una sola canzone. La voce rotonda e lirica, la melodia dolce della chitarra o del pianoforte accompagnano l’articolazione della libertà nell’altro, mentre i passaggi nei quali la libertà viene fatta dipendere da una presa di distanza da tutti gli altri esseri umani sono enfatizzati da un suono più tagliente e metallico.
L’aspetto caratteristico di questa forma di presentazione estetica va al di là della mera affermazione di stati d’animo tra loro incompatibili, perché qualunque poeta rock di seconda categoria sarebbe capace di inscenare musicalmente dei conflitti emotivi di questo tipo, modulando i propri mezzi di conseguenza. L’aspetto seducente, addirittura ammaliante dell’opera di Bob Dylan consiste piuttosto nella capacità di articolare simultaneamente tre diversi stati d’animo, ciascuno dei quali, preso di per sé, costituisce un momento necessario dell’esperienza della realizzazione della libertà individuale: l’impulso radicale della reinvenzione permanente di sé trova un limite nella nostalgia per gli oggetti d’amore abbandonati, ma anche nell’ambizione di riconciliarsi con l’altro. Non è facile sottrarsi come se niente fosse a questa confusione degli intenti e dei desideri, tanto è vero che spesso oscilliamo tra le alternative come il proverbiale perpetuum mobile che Dylan stesso evoca in chiave ironica in una canzone («Stuck inside of Mobile with the Memphis Blues Again»). Per questo l’esperienza che Dylan articola più di frequente è quella del rimanere fermi mentre il tempo scorre senza posa. Prigionieri delle contraddizioni interne che viziano i nostri tentativi di realizzare la libertà, incapaci di trovare una via d’uscita, sentiamo con crescente disperazione che «it’s not dark yet, but it’s getting there».
[…]
Le canzoni di Bob Dylan e le sue esibizioni dal vivo articolano con vigore lirico e polifonia di soluzioni musicali l’esperienza di una dolorosa oscillazione tra tre diversi stati d’animo tra loro incompatibili in ciascuno dei quali si esprime l’ambizione della libertà individuale. Quello che ancora non sappiamo, in compenso, e se l’esperienza appena descritta corrisponda anche alla realtà, cioè se davvero la consapevolezza diffusa di essere irrimediabilmente presi in un processo di realizzazione della libertà è un’esperienza che si può indicare come determinante per il nostro tempo, che è anche l’epoca di Bob Dylan.
Rispondere a una domanda del genere non è per nulla semplice. Occorrerebbe procurarsi delle testimonianze capaci di valere come documenti per una storia dell’esperienza di un’intera epoca. A titolo di esempio si potrebbero citare senza fatica alcuni romanzi particolarmente notevoli che tematizzano in modo esemplare frammenti del sistema di contraddizioni articolato da Dylan. Si può pensare a L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera, a La scoperta del cielo di Harry Mulisch, oppure a Falso movimento di Peter Handke, per citare anche un autore di lingua tedesca. Sono tutti libri che mostrano come la realizzazione di una forma di libertà si scontra sempre con altri momenti di libertà. Se si riconosce che queste rappresentazioni di intrecci e collisioni tra libertà diverse sono un fenomeno tipico del nostro tempo, però, occorre anche ammettere che l’esperienza articolata da Bob Dylan possiede tratti universalizzabili. Nel corso degli ultimi tre decenni anche in ambito filosofico ha preso piede una corrente di pensiero nata dall’incontro di concezioni diverse della libertà individuale. Prendendo le mosse dalla nozione sartriana di una libertà incondizionata, ancora largamente dominante negli anni Sessanta, vengono successivamente introdotte limitazioni sempre più restrittive fino a ottenere un concetto di libertà intesa come legame con un oggetto di cura o amore[6]. A ulteriore riprova del fatto che Dylan ha dato voce a un’esperienza chiave che nell’epoca appena trascorsa ci ha riguardati tutti, insomma, si può quindi addurre anche un filone del dibattito filosofico contemporaneo.
Può darsi però che un approccio del genere sia erroneo di per sé. Per quanti documenti possiamo addurre come indizi di una storia carsica delle contraddizioni interne della libertà, resterebbe comunque da dimostrare che Bob Dylan è stato capace di articolare in termini estetici una delle esperienze che hanno segnato un’epoca. Come parte di un’industria culturale in espansione anche le sue canzoni e i suoi concerti hanno contribuito alla formazione di quell’esperienza. Risulta insomma difficile distinguere in modo netto tra esperienze pregresse e la loro articolazione artistica, come Dewey poteva ancora permettersi di fare. Ovunque scegliamo di cominciare, qualunque prova della preesistenza di un certo stato di coscienza vogliamo addurre, l’atteggiamento corrispondente risulta già sempre influenzato dalle opere d’arte che raggiungono una circolazione mondiale. La musica di Bob Dylan ha insomma contribuito a risvegliare in noi esperienze che costituiscono una delle possibili reazioni ai processi che si accavallano e sovrappongono nel presente. Le persone che hanno ascoltato le sue canzoni e assistito ai suoi concerti saranno in grado di ricondurre i loro stati d’animo ancora imprecisati, le loro sensazioni di incompiutezza e contraddittorietà alle complicazioni che risultano inscindibili dal processo di realizzazione della libertà. Nelle sue canzoni e nei suoi concerti Bob Dylan ha saputo dire meglio di chiunque altro che la libertà, seppure internamente contraddittoria, è l’unica alternativa.
Note
[1] Cfr. Elizabeth Brake, «To live outside the law, you must be honest». Freedom in Dylan’s lyrics, in Peter Vernezze e Carl J. Porter (a cura di), Bob Dylan and Philosophy, Chicago-La Salle, Open Court, 2006.
[2]Anche per questo non sono affatto sicuro che in Dylan il motivo della libertà individuale vada interpretato in termini di autenticità intesa come determinazione dei propri «veri» desideri, cfr. Martin van Hees, The free will in Bob Dylan, in Vernezze e Porter, Bob Dylan and Philosophy, cit.
[3] Della preistoria rimossa dei movimenti del maggio 1968 si è occupato di recente Uwe Timm nel suo bel «racconto» Der Freund und der Fremde, Köln, Kiepenheuer & Witsch, 2005, trad. it. L’amico e lo straniero, Milano, Mondadori, 2007.
[4] Richard Klein mi ha invitato a osservare che anche i celebri concerti inglesi del 1966, forse, vanno interpretati nel senso di un confronto tra il dolore della separazione e il gesto della liberazione. Mentre nella prima parte del set, acustica, Dylan torna ancora una volta a rievocare in toni melanconici (seppure con mezzi vocali nuovi) il mondo dal quale proviene, nella seconda parte, elettrica, viene articolata in forme tra il trionfale e il beffardo la liberazione da quello stesso passato.
[5] Cfr. anche «No, I ain’t got my childhood / Or friends I once did know / But I still got my voice left / I can take it anywhere I go». Ringrazio Richard Klein per avermi segnalato il passo.
[6] Cfr. Harry G. Frankfurt, Necessity, Volition, and Love, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1999.
[Immagine: Milton Glaser, Bob Dylan (particolare)].
Credo che nelle tematiche di Dylan sia ricorrente la centralità narcisistica di un Io rivolto su se stesso in cui l’Altro esiste solo in quanto risonanza o rispecchiamento . Reazione od opposizione ai vincoli ideologici dell’epoca o piuttosto artista maledetto incapace di entrare in contatto vero con l’Altro ? Spesso la sensibilità espressiva dell’artista confligge con quella dell’Uomo , talora incapace di avere un rapporto intimo,capace di prendersi cura dell’Altro
Dylan ha saputo esprimere uno dei pochi passaggi che l’uomo vive lungo la propria esistenza. Una maturazione che ha espresso componendo e cantando.
La conflittualità tra il prima ed il presente-dopo con sguardo attento e sensibile.
Non Gli riconoscerei altro.
“Due impulsi e due moti diversissimi sul piano affettivo vengono così a fronteggiarsi senza che l’uno possa mai riconciliarsi con l’altro: il prezzo da pagare per la reinvenzione radicale di sé alla quale aspiriamo come individui è la rinuncia alle cose che un tempo abbiamo amato e desiderato. Restare legati a quelle cose, continuare a tributare loro amore e attenzioni, significherebbe infatti voltare le spalle all’ambizione di attingere una libertà individuale incondizionata.”
Molto interessante e molto vero. Credo che l’archetipo di questa antinomia della libertà sia la figura di Perceval, che per la “reinvenzione di sé” come cavaliere abbandona il castello, la madre, e la vita di ragazzo nei boschi. Che ci sia un “prezzo da pagare” è sottolineato dalla colpa di cui, senza volerlo e senza saperlo, Perceval si carica partendo, poiché la madre muore di dolore poco dopo.
La madre che muore mentre Perceval si allontana a cavallo senza voltarsi indietro è anche la figura dell’impossibilità di raggiungere la realizzazione di sé direttamente per questa via, che è necessaria ma aporetica: è la colpa di cui si è oscuramente macchiato che gli impedisce di riconoscere il Graal e di attingere alla perfezione di sé e del mondo.
Al mito di Perceval Pascoli dedica una poesia, “Breus”, dove peraltro, alla maniera italiana per cui è meglio stare vicini alla mamma, o se si vuole al “nido”, appiattisce l’antinomia e la risolve nel rimorso del cavaliere che, tornato dopo anni di imprese e di gloria al castello ora vuoto e cadente, si dice che era meglio non andarsene affatto.
Bob Dylan fa e farà sempre pena: plagiatore, ladro, pessimo musicista e arrivista assoluto
Joan Baez ha ragione nel criticarlo
Il suo caso è esagerato e tipico del cantautore impegnato che poi si fantasmizza e quindi brilla per assenza.
Dylan è altresì antimusicale, totale. Diciamolo: tre accordi e una voce (fantastica) adesso non bastano a farne un genio.
I testi sono un frullato di tutta la southern gothic, Pearl S Buck Faulkner etc.
Fa schifo