di Azzurra D’Agostino
[E’ appena uscito per Marcos y Marcos, nella collana Le Ali diretta da Fabio Pusterla e Massimo Gezzi, Cosmic Latte, il nuovo libro di poesia di Azzurra D’Agostino. Ne pubblichiamo alcuni testi].
Questo tempo
Un silenzio cade sul fondo del mondo
lento come un sasso nell’acqua
si posa dopo la lunga discesa
tra alghe, radi coralli, pesci mostruosi
con un piccolo sbuffo di fango
e terrore.
Tutto è mutato: il paesaggio del fondale
è l’atto che sa di finale e spaesamento
le conchiglie incrostate sono vuote
vuoti i resti del teschio rosicchiato
vuote le orbite dei pianeti mentre la ruggine
corrode le lattine e fluttua un sacchetto
come un velo che passa sugli occhi
e poi butti giù. Il pianto non è abbastanza
non dice la parola dei morti la paura
degli insorti – non è come quella volta
la vecchia in fila per il pane che chiede
“Lei potrebbe dire tutto questo?”
e il poeta che risponde “si, io potrei”.
Non è quel tempo. Eppure scrivo.
*
Cosmic latte
Una donna che passa con un cane
attraversa il paesaggio, discende
il viottolo scosceso fino al centro
del suo bianco, si spoglia di figli
amanti, ricordi, si spoglia di tutto
per cercare l’accordo, va verso
il bianco, il bianco, il bianco
colore invisibile dell’universo.
*
Sta léngua l’è na piènta
mata: la mort la strapa
e lî la sèlta fôra d’in t’al crêp
c’a i ho senza gnec savîrl
léngua d’avrîl, mia primavera
c’al bussa con un fiôr in t’la bufera.
Questa lingua è una pianta / matta: la morte la strappa/ e lei salta fuori dalle crepe/ che ho senza neanche saperlo/ lingua d’aprile, mia primavera/ che bussa con un fiore nella bufera.
*
Lettera all’Appennino
Quante volte guardando una frana un orrido un crollo
di scarpata ho pensato alla frattura che sei, un costone
di piante semplici, di rovi, castagni, un pezzo di terra
inospitale, che spacca in due il mio paese di mare
il porto naturale dove attraccavano i Greci, dove gli
Etruschi dipingevano vasi scuri e mescolavano miele.
Tu ci spezzi e il tuo spezzare è uno sguardo che rotola
per valli che si adombrano, strade piene di curve che
pochi hanno la pazienza di andare a cercare.
Tu mi spezzi come spezzi
i rami dei boschi abbandonati
il tempo che corrode essiccatoi
lasciati ai tassi, ai nidi dei ghiri
mi spezzi nel mio essere
una donna qualunque
a cui manca l’ultimo spettacolo teatrale, il fiume
di gente che prende la metropolitana
le scale, mi spezzi come spezzi
le case, come ti spezzi per una regola di natura
senza saperti di spezzare.
Scende a valle il Limentra
il Reno, va a finire a mare, si sporca
di solitudine, di nessuno che ti viene a cercare.
*
Voltare le spalle
Libero il coniglio. C’è odore di terra
smossa e si respira nebbia insieme all’aria nuova.
L’alba è l’ora degli addii, dei sentieri di sassi
che rasentano i burroni. I rumori sono pochi
stavo per dire nessuno è umano ma sospetto
che il battere dentro sia lo stesso. Ecco i campi
di ragnatele, ecco il cielo viola, il cervo che passa
e un freddo che rende felici sotto la pelliccia.
La sensazione di essere vivi è animale
mescola paura, meraviglia, potenza
e questo spazio immenso accade dentro
il coniglio, che non sa dove andare, non ha
progetti, sensi di colpa, pensieri
ma sangue, zampe sulla zolla, fili d’erba
remoti mugolii, una sorgente sotterranea
e filoni, strati pieni di ossa macerate e radici.
Tutto questo non è un ragionamento
e cercare le parole per dirlo è questo modo
che abbiamo di lasciar entrare il bosco
con tutta la sua ostilità, e poi città, mare,
quello che ci ha fatto male, ogni miseria, i morti
che non abbiamo seppellito, o pianto.
Un modo come un altro per ammansire
la tigre che abbiamo in petto, o così ci piace
credere. Per un secondo il coniglio mi ha liberata
non si gira indietro se non un’ultima volta
gli occhi rossi sbarrati su di me pieni di sospetto.
*
Quasi un sonetto delle parole
Le parole non dormono nei dizionari
non si stendono come pelli al potere
non si piegano al gergo dei funzionari
non sventolano come stendardi e bandiere
le inseguo le bracco frugo il bosco d’assenza
le strappo dai buchi di quello che ci diciamo
mentre si attende in un ospedale la sentenza
mentre finisce il mondo, mentre ci lasciamo.
E io che pensavo che scrivere fosse un giardino
metto un piede nel vuoto e con l’altro cerco un gradino.
Va segnalato che rispetto alla poesia cimiteriale dominante in accademia, questo rifugio nella pre-urbanizzazione offre almeno un minimo di elan, se quello ancora si va cercando. Di forme o lingua e altre immanenze, diranno le onoranze critiche militanti e autorizzate.