di Ludovica Maura Santarelli
[Ludovica Santarelli è una giovane studiosa che ha da poco discusso all’Università di Roma Tre una tesi intitolata: Guerra, violenza mediatica e censura. Il caso Palestinese. Una parte del suo lavoro di ricerca si è svolto tra Istanbul e Roma. E proprio muovendosi a cavallo fra queste due città cosmo, le due antiche capitali del mondo, ha scelto di scrivere queste poche pagine, un diario intimo e allo stesso tempo politico, sulla distruzione di Gaza. Il suo sguardo, severo, tragico, privo di risarcimenti narcisistici, è quello di una generazione consapevole di trovarsi senza riparo in un’età ormai estrema. (Daniele Balicco)]
Da lontano. Diario sulla distruzione di Gaza.
(Istanbul 15 ottobre 2023 – Roma 15 maggio 2025)
Bambina sventola la bandiera palestinese durante la manifestazione di Maltepe. Istanbul, 15 ottobre 2023.
Istanbul, 15 Ottobre 2023
L’aria attorno alla stazione metro di Maltepe sembra essere tesa. Appena accanto alle scale mobili, un signore ha posizionato un mucchio di bandiere della Palestina ed altri striscioni da vendere; sarà solo il primo di una lunga serie di venditori che incontrerò sulla strada per raggiungere il luogo della protesta. Poco più avanti noto i primi poliziotti; sul lato della piazza alcuni di loro si erano sistemati davanti alla camionetta, coperti da uno scudo. Mentre aspetto il mio collega, penso che abbiamo fatto bene a stampare dei tesserini da giornalista con i nostri nomi: “se si mette male, li indossiamo” mi aveva detto lui. Dal nostro punto di vista europeo, rispettivamente italiano e spagnolo, un evento del genere aveva tutte le carte in regola per sfociare in un’insurrezione; il fatto che fossimo in Medioriente non ci sembrava meno pericoloso. Ma i timori si rivelarono presto infondati.
La Turchia infatti, ed in particolar modo il suo presidente Recep Tayyip Erdoğan, non ha mai nascosto il suo supporto alla nazione palestinese. Lo ha sottolineato in seguito agli aventi degli ultimi giorni, in dichiarazioni ufficiali in cui parla di attacchi israeliani come privi dei valori umani più basilari, ed invita la comunità internazionale ad agire per fermare queste brutalità. Il sostegno turco ha una forte componente religiosa: pur non essendo una nazione a statuto religioso, la comunità musulmana rappresenta la maggioranza della popolazione. In quest’ottica, i palestinesi diventano i “fratelli musulmani” da difendere, come cita uno dei volantini distribuiti durante la protesta: “è tempo di proteggere la Palestina! Gli occupanti israeliani vogliono sterminare i nostri fratelli, lasciandoli senza acqua, pane, elettricità e respiro. Musulmani! Ora è il momento di difendere i nostri fratelli sotto i bombardamenti”.
L’orgoglio religioso è d’altronde uno dei capisaldi del partito conservatore di Erdoğan, l’AKP. La stessa protesta di Istanbul, rinominata Raduno per la Palestina Libera, è stata organizzata da partiti di destra in linea con il governo centrale: in testa c’è il Saadet Partisi (Partito della Felicità) i cui adepti si possono trovare sparpagliati intorno al sito dell’evento, immediatamente visibili grazie alle loro casacche rosse. Ciò che per noi europei è un discorso che viene affrontato per lo più nei circoli di sinistra ed ampiamente censurato dai media ufficiali, in Turchia diventa un problema fortemente sentito dal governo nazionale di destra.
Vengo raggiunta dal mio collega ed i suoi amici e ci incamminiamo; la strada che ci separa dalla manifestazione non è lunga, ma è già piena di carretti pronti a dispensare cibo e striscioni ai manifestanti. Da lontano, l’arena sembra immensa. Sì, perché il raduno è stato organizzato e si terrà all’interno di un’area circoscritta e sorvegliata; per entrare, bisogna sottoporsi ai controlli di sicurezza. Non ci faccio troppo caso, qui in Turchia sono ormai abituata a passare sotto i metal detector ogni qualvolta decida di entrare in un centro commerciale o in altri luoghi pubblici; temo però per la mia macchina fotografica. Davanti a noi, alcuni manifestanti sono stati bloccati ed esortati a lasciare i propri cartelli; non ho idea di che cosa avessero scritto, ma immagino che neanche in occasione delle manifestazioni sostenute dal governo sia lasciata piena libertà al popolo di esprimersi. Tutto deve essere controllato, la censura permea ogni aspetto della società turca. Ci dividono, uomini da una parte e donne dall’altra: non possiamo farci perquisire da poliziotti dell’altro sesso. Tale divisione rimane una volta superati i controlli: l’arena è stata divisa in due, al suo centro si sviluppa una passerella battuta solo dai giornalisti. Gli uomini devono rimanere sulla destra, noi donne a sinistra. Mi sembra quasi assurdo. La consapevolezza che la Turchia sia uno stato laico, a volte, fallisce nel ricordarmi che mi trovo comunque in una terra di forte tradizione e cultura musulmana; non tanto per la sua popolazione, che si dichiara in parte non praticante o non credente, quanto per l’immagine che il suo governo conservatore vuole mostrare: un popolo fedele all’Islam. È ciò che più lega la Turchia al resto del Medioriente. In effetti, guardandomi intorno, la maggior parte delle donne indossa il velo; a Istanbul non è così scontato.
Ai bordi dell’arena sfilano appese una serie di enormi bandiere turche e palestinesi. Il rosso della bandiera nazionale appare un elemento costante tra la folla; se non ci si fa caso, sembra quasi di essere ad una manifestazione per la Turchia. D’altronde, non è difficile notarla passeggiando per le strade di Istanbul; i suoi abitanti ci tengono ad esporla alle finestre, fuori dai negozi, in giro per le strade. Su alcune colline della città si ergono addirittura dei pali le cui bandiere risultano visibili a grandi distanze; ricordo, la prima volta che ne ho visto uno, di aver pensato di trovarmi all’interno di una distopia in stile George Orwell. Il nazionalismo turco è fortemente radicato, in parte fanatico, a tratti estremo; è parte dell’identità di ogni turco, anche di chi si professa lontano dagli ideali comuni e dalla soft dictatorship del suo governo. Esso non manca di trasparire in occasioni di questo tipo, per sottolineare la centralità e l’importanza della Turchia; che possa apparire come egocentrismo o meno, il messaggio è chiaro: siamo dalla parte della Palestina ma lo siamo in quanto turchi e musulmani, la nostra nazione sostiene il popolo palestinese in quanto entità politica, il suo ruolo è cruciale nello scacchiere internazionale. Non è difficile scorgere anche le bandiere verdi del partito di Hamas. “Hamas’a selam, direnişe devam” ovvero “Saluti ad Hamas, continuate la resistenza”, cita il cartello scritto da una ragazza.
La manifestazione sembra una festa: canzoni popolari alternano gli interventi sul palco di personalità politiche e di spicco della società turca. Non posso capire ciò che dicono, ma ognuno viene acclamato sventolando le bandiere, accompagnato dai canti intonati in unisono dai partecipanti. Non succede nulla, o meglio, nulla che possa minare alla sicurezza della manifestazione stessa. E non succede nulla nemmeno a noi stranieri, arrivati nel parco sì come sostenitori della causa, ma anche come osservatori, visibilmente fuori dal coro ma accolti da chi ci sta intorno. Non ci sono scontri, la polizia si limita a tenere sotto controllo l’area, il tutto si svolge nella maniera più serena possibile. Forse quei tesserini non servivano, forse ci siamo fatti trasportare da preconcetti insensati; o forse poco poteva accadere in una situazione le cui redini sono mosse dal governo.
Due ragazze si coprono dietro a cartelli pro Hamas. Istanbul, 15 ottobre 2023.
Istanbul, 12 novembre 2023
Sono scesa al porto di Üsküdar. Noto, mentre mi accingo ad iniziare la solita passeggiata verso casa, una scritta sul marciapiede: “Terörist Israil”, Israele terrorista. Nella piazza antistante al mercato del pesce stanno leggendo, su un piccolo palco, alcune poesie per la Palestina. Mi capita spesso di incontrare presidi di questo genere: il conflitto si inasprisce giorno dopo giorno ed il popolo turco non teme di additare lo stato di Israele come criminale di guerra, o di accusarlo di genocidio, e rinnova continuamente il suo sostegno alla popolazione palestinese massacrata, sotto assedio e sotto bombardamenti. Il gruppo di gente che si è fermata attorno al palco è piccolo, ma mosso dalla commozione. Curiosi osservano mentre passano, l’aria è calma e silenziosa. Un alone di rispetto e di ascolto pervade la piazza.
Istanbul, 5 febbraio 2024
Avere la possibilità di salire su un traghetto ed attraversare il Bosforo ogni qualvolta io lo desideri è uno dei più bei regali che Istanbul mi ha fatto. Poter lasciare i propri pensieri al mare, perdersi nell’orizzonte disegnato dai minareti, lasciarsi cullare da quell’acqua che accarezza centinaia di navi ogni giorno, restare tra Asia ed Europa come in un limbo… per me non si limita ad essere un mezzo di trasporto, ma parte stessa del viaggio. Oggi prendo il traghetto che percorre il Corno D’Oro, direzione Eyüpsultan, l’ultima stazione. Il cielo è nuvoloso, il vento freddo mi scuote, ma il paesaggio dalle panchine della poppa della nave è ipnotico, ripararsi all’interno sarebbe un sacrilegio. Quasi non mi accorgo che passa un’ora prima di arrivare a destinazione. Tra le sponde riconosco i posti che visito spesso, come Balat, lo storico quartiere ebraico che ora è colmo di manifesti e cartelli per la Palestina, in cui si accusa l’Occidente di essere complice assassino di un Israele sionista e criminale. Eyüpsultan, pur essendo lunedì, pullula di gente. Molti scendono qui per raggiungere la famosa collina di Pierre Loti. Io, prima di continuare il viaggio, voglio visitare la moschea di Eyüp, caratteristica per le sue piastrelle di Iznik. È nel tragitto tra il porto e la strada principale che mi imbatto in un altro presidio pro Palestina. Questa volta, però, ciò che vedo non è facile da digerire: a terra, una serie di lenzuola insanguinate, riempite come se coprissero dei cadaveri di bambini, sono disposte una accanto all’altra; davanti e dietro ad esse, figurano le fotografie dei bambini uccisi dallo stato israeliano. Un’immagine li ritrae ancora in vita, sorridenti ed inermi; accanto, quella dei loro corpicini senza vita. Sono più di 27.000 i morti palestinesi dall’inizio del conflitto del 7 ottobre, quasi la metà bambini, e stragi e bombardamenti non accennano a fermarsi. I palestinesi si ritrovano ora rifugiati nel sud della striscia, a Rafah, ma quello che doveva essere un luogo sicuro sta diventando il nuovo obiettivo militare degli israeliani. Si teme il peggio.
Due donne sfilano con la bandiera palestinese e turca. Istanbul, 15 ottobre 2023.
Istanbul, 6 ottobre 2024
Domani ricorre l’anniversario del 7 ottobre 2023. Ieri, a Roma, una grossa manifestazione per la Palestina si è trasformata in una serie di scontri sul campo. Nonostante i divieti, 10.000 persone sono scese in piazza, a Piramide, per protestare contro il genocidio palestinese. Quasi tutti gli autobus che sono arrivati in capitale durante la notte e la mattina stessa sono stati fermati, bloccati e controllati. A molti di questi è stato impedito di ripartire, sono stati notificati 51 fogli di via per impedire alle persone di arrivare a Roma. Un amico mi racconta dell’incursione sul suo pullman di linea di alcuni agenti, delle domande scomode, dei tentativi di indagare sul passato dei passeggeri e sulla reale motivazione per cui, proprio quel giorno, si stavano recando lì. La zona della manifestazione è stata completamente circondata dalle forze dell’ordine, controllata e senza vie di uscita. Piccole azioni violente hanno giustificato il lancio di lacrimogeni, idranti e le cariche effettuate dalla polizia. I manifestanti sono stati malmenati, manganellati ed arrestati: a fine giornata erano diversi i feriti, più quattro fermi; tre rilasciati subito, uno trattenuto. Mi faccio raccontare dai miei amici cosa è successo, l’atmosfera di tensione che si respirava in piazza, la confusione e la paura di farsi seriamente del male, il dover ripararsi dai lacrimogeni e dagli idranti sparati a tutta forza contro i corpi dei presenti, mentre ci si teneva per mano per non perdersi. Nella folla, sono stati travolti anche molti anziani. Il governo italiano, con il suo Ddl sicurezza, intende reprimere con la forza ogni tipo di protesta e dissenso, e la giornata di ieri ne è stata la prova e la scusa perfetta. Manifestare per la Palestina in Italia è pericoloso. Io mi trovo ad Istanbul, e qui la situazione sembra molto diversa. Negli ultimi giorni si sono moltiplicate le bandiere palestinesi in giro, sono molti di più i graffiti ed i manifesti in supporto alla causa palestinese. Mi imbatto in un presidio quasi per caso: nei pressi del porto di Üsküdar, un gremito gruppo di persone suona i tamburi, canta, urla slogan pro Palestina; tutti indossano una kefiah. Sui muri retrostanti, oltre a numerose bandiere, sono affissi una serie di cartelli che descrivono le barbarie compiute da Israele nell’ultimo anno di conflitto; davanti ad essi, una fila di donne, statuarie e silenziose, regge immagini e messaggi contro Israele, e le fotografie di alcuni dei bambini vittime degli attacchi ebraici. Ad un angolo, un piccolo altare circondato da fiori ospita le fotografie di una giovane ragazza, il giorno della sua laurea: probabilmente una vittima turca morta per mano delle IDF.
Una leader del corteo lega la bandiera palestinese al carro. Roma, 25 gennaio 2025.
Roma, 25 gennaio 2025
Più di 50.000 palestinesi massacrati. Solo qualche giorno fa, la notizia della tregua ci aveva scosso tutti. Le immagini dei palestinesi che pregano, cantano, festeggiano e tornano a casa percorrendo chilometri e chilometri di nulla, di macerie e di sabbia, con una gioia ed una forza immense, non hanno smesso di farmi piangere. È un sollievo misto ad inquietudine, quello che sento e che sentiamo tutti. Un cessate il fuoco non può cancellare il genocidio e le migliaia di vite spezzate; può portare però ad una fine del massacro. Ma che sia una vera fine è difficile da credere. Conosciamo la natura di Israele: uno stato nato dal sangue non può prosperare nella pace. L’occupazione, l’apartheid, la deportazione ed il genocidio non sono figli del 7 ottobre, ma di 76 anni di oppressione. I periodi di apparente quiete si sono già susseguiti, ma non sono mai stati per sempre. Israele non ha nessuna intenzione di fermare la colonizzazione: può inventare nuove scuse, attribuire nuove colpe, giustificarsi in altri modi. Ma il suo scopo è sempre stato uno solo: impadronirsi di tutto il territorio palestinese (e non solo) per edificare un unico stato con un’unica etnia ed un’unica religione. Per i palestinesi, in questo sedicente stato, non c’è alcun posto.
I Giovani palestinesi hanno organizzato una serie di manifestazioni in vista del 27 gennaio, Giornata della memoria. Se è giusto ricordare l’orrore dell’Olocausto, è anche giusto che questa memoria venga ora aggiornata: in Israele si sta compiendo un genocidio, ed è iniziato 76 anni fa con la Nakba. Oggi si scende in piazza a Roma, e non so cosa aspettarmi. Solo 3 mesi fa, in questa città, i cittadini venivano manganellati dalle forze dell’ordine per la sola colpa di chiedere stop al genocidio palestinese. E la giornata di oggi è importante, forse provocatoria.
Quando esco dalla metro la prima cosa che vedo sono le camionette della polizia. Ce ne sono sempre troppe. A volte, vedere i poliziotti bardati dalla testa ai piedi e coperti da quegli enormi scudi trasparenti mi fa ridere: da cosa dovreste difendervi? Qui le manifestazioni sono anche troppo pacifiche. Io continuo a partecipare perché credo che la presenza sia fondamentale, è una forma di dissenso diretta e rumorosa; ma ho smesso di pensare che camminare tra le strade della città per qualche ora possa servire a qualcosa: si dice tanto nella folla, ma poi ci si disperde sempre. Eppure c’è un senso di impotenza che ci accomuna. Nessuno sa cosa fare, come risolvere i problemi del mondo; nessuno ci ascolta. Sembra che qualsiasi cosa si faccia non sia mai abbastanza, e ci si sente piccoli, inutili. Come ci siamo sentiti in questi ultimi 15 mesi, bombardati dalle immagini dei civili massacrati a Gaza, incapaci di poterli difendere, o di poter reagire; ci siamo assuefatti all’orrore tanto da dissociarci da esso. Quando mi infilo tra la gente che si raduna per protestare mi sento parte di un qualcosa, ma non l’affronto più con la stessa determinazione, con la stessa gioia. Il ripetersi incessante delle cose mi rassegna, mi sembra di rivivere sempre le stesse scene, applaudire sempre agli stessi discorsi, urlare sempre gli stessi slogan… ma nel frattempo non cambia nulla.
Come sempre, piazza Dante è dipinta di colori. Tante sono le bandiere che sventolano tra i palazzi; tante le sigle, i partiti e i collettivi presenti. Aspettando la partenza del corteo si ha modo di sfogliare libri sulla Palestina, leggere i giornali comunisti che commentano le notizie che arrivano dalla striscia di Gaza. Sono tanti i giovani, ma tanti anche quelli che appartengono alle generazioni passate. Ogni volta non posso fare a meno di chiedermi quante a battaglie abbiano assistito quegli occhi, quanti popoli abbiano difeso quelle voci, quante piazze abbiano occupato quei piedi, quanti anni di indifferenza abbiano dovuto sopportare le loro anime. Sul carro, prima della partenza, un ragazzo dei Giovani palestinesi commenta lo slogan from the river to the sea, Palestine will be free: “Ci accusano, con questo slogan, di voler epurare ogni persona di etnia ebraica. Ci accusano di essere violenti perché reclamiamo la nostra terra libera dal fiume al mare. Ma questo è il loro progetto, sono loro che ci hanno scacciati, che ci hanno uccisi, ci hanno perseguitati. E noi, con questo coro, ricorderemo loro che non lo accetteremo mai”.
Il corteo è gremito di persone. Si seguono cartelli, simboli, colori. Le canzoni palestinesi sono intervallate dagli interventi e dalle urla dei motti che ci ricordano che stiamo protestando contro un genocidio in corso e contro uno stato sionista e terrorista. Un gruppo di ragazzi sale le scalinate di un palazzo storico; dalla balconata accendono i fumogeni: uno bianco, uno rosso, uno verde e uno nero. I colori della Palestina salgono in cielo, accompagnati dai versi di una canzone araba e dai cori della folla sottostante. Il fumo che fluttua e si alza è ipnotizzante; in questa atmosfera quasi mi perdo. Mi chiedo cosa abbiano provato i palestinesi cinque giorni fa, mentre tornavano in quelle che una volta erano le loro case, e cosa abbiano sentito di fronte a tutte quelle macerie. Mi vengono in mente le immagini di una donna che tira fuori una coperta da un cumulo di detriti, o di un ragazzo che, rientrato nel suo appartamento, seppur malconcio, ancora intatto, scoppia in lacrime baciando il pavimento. Mi chiedo se si sentano ancora abbandonati.
È una processione rumorosa, arrabbiata, commossa. Giungiamo ai Fori Imperiali che il sole sta già tramontando; le luci del crepuscolo accolgono la fiumana. Qualcuno al microfono accusa il governo di essersi voltato dall’altra parte, di finanziare un progetto colonialista, di essere complice della strage. Non mi aspettavo di trovarmi ancora qui, 15 mesi dopo. Non mi aspettavo neanche che una questione quasi secolare potesse risolversi in poco tempo. Ma arrivare dopo più di un anno con la consapevolezza che non siamo riusciti a far nulla per fermare un genocidio mi devasta. Abbiamo lasciato che uno stato illegittimo radesse tutto al suolo, mentre nei nostri salotti gli intellettualoidi si incartavano tra i tentativi di giustificare i crimini ed il timore di essere tacciati di antisemitismo, se disposti a parlare di ciò che stavano subendo i palestinesi. E soprattutto, non siamo riusciti ad ostacolare il nostro governo che, mentre vedeva i suoi cittadini protestare nelle piazze, continuava ad inviare armi agli occupanti. Abbiamo distolto lo sguardo davanti alle grida di aiuto dei nostri fratelli palestinesi, che non sapevamo come soccorrere. Ed abbiamo reso la violenza la normalità. Non ci è ancora dato sapere come la storia ricorderà queste pagine, ma di una cosa possiamo essere sicuri: abbiamo lasciato che l’orrore si ripetesse.
Una donna mostra un cartello che invita a ricordare i bambini palestinesi vittime del genocidio. Roma, 25 gennaio 2025.
Roma, 15 maggio 2025
Non è cambiato niente. Forse, le cose sono peggiorate. Il vecchio Occidente sembra incespicare nel caos, fatto esplodere dal malaugurato ritorno di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, indaffarato sin da subito a sconvolgere e destabilizzare i già fragili equilibri internazionali. Di Gaza, come del resto, ne parla come se gli mancasse qualsiasi contatto con la realtà, con toni così assurdi da diventare distopici, mentre fantastica sul ricostruire la striscia per renderla la nuova riviera americana, risolvendo il problema dei milioni di palestinesi sfollati spostandoli altrove. Un’ipotesi di deportazione di massa presentata come un mero fatto organizzativo.
La tregua, come presagito da molti il giorno stesso del suo inizio, è stata presto rotta da Israele che, a metà marzo, durante il Ramadan, ha lanciato una serie di raid su tutto il territorio, provocando più di 400 morti. Negli scorsi giorni, Netanyahu si è compiaciuto di star distruggendo sempre più case a Gaza, impedendo così ai palestinesi di avere un posto in cui tornare. È passato un anno e mezzo dal 7 ottobre, ma a Gaza il tempo si è fermato. Il bilancio dei morti è fuori controllo, e il mondo continua a guardare, distrattamente, superficialmente. Quando studiavo storia a scuola mi ritrovavo spesso a chiedermi come fosse possibile che eventi come la venuta del fascismo o l’Olocausto fossero semplicemente accaduti, come fosse possibile che le folle non si fossero opposte, quantomeno non subito. Vivere in questo periodo storico mi ha dato la risposta. L’indifferenza è l’atteggiamento che dilaga maggiormente, assieme all’impotenza. Ci sentiamo sopraffatti, e allora distogliamo lo sguardo. Abbiamo il privilegio di guardare la distruzione da lontano, di poter tornare alla quiete delle nostre vite in ogni momento. Ciò che non si vive sulla propria pelle non lacera. Chi sa riconoscere i pattern storici dice che stiamo vivendo un periodo di recessione, che la guerra mondiale è già iniziata e non ce ne siamo ancora resi conto. L’Unione Europea presenta un kit di sopravvivenza per essere autosufficienti per 72 ore in caso di crisi, e c’è chi teme si tratti di un messaggio in codice per quello che verrà. Gli ultimi eventi mondiali tracciano una linea incerta sul futuro.
E quanto mi ferisce questa Italia, questa democrazia sempre più finta, controllata, in cui i tentativi di ribellione vengono repressi sempre con più forza. Ormai basta sventolare una bandiera palestinese, affiggere uno slogan antifascista davanti al proprio negozio, distribuire volantini che invitano i cittadini all’informazione ed al voto, per essere fermati e identificati dalle forze dell’ordine; le stesse forze dell’ordine che lasciano sfilare e proteggono i cortei fascisti. È questo quello che succede prima che un paese si trasformi in una dittatura? In questi giorni si sta svolgendo l’Eurovision, il festival che si ostina ad ospitare Israele e che, in risposta alle numerose voci che chiedono il ban dello stato come era accaduto per la Russia, vieta nel regolamento la presenza di bandiere palestinesi nella venue.
“Non vorrei diventassimo come la Turchia” mi dicevo spesso a Istanbul, pensando alla rotta che stava prendendo il nostro governo. I turchi, che vivono in un regime quasi dittatoriale, dove i cittadini sono costantemente controllati, dove non esiste libertà di stampa ed espressione, dove chi è scomodo viene silenziato e arrestato, sanno cosa significa vivere in libertà vigilata. La mia coinquilina mi raccontava delle proteste a cui partecipava quando era più giovane, di tutti i suoi amici che finivano in carcere. Spesso, quando chiacchieravamo di questioni politiche, mi confessava la paura che lei e molti altri giovani avevano: quella che la Turchia potesse diventare l’ennesima nazione in cui si applica la legge della Shari’a, perdendo ufficialmente il suo status di democrazia. Era convinta che il governo di Erdoğan volesse e potesse arrivare a questo, se non ostacolato. E non stento a crederci. A marzo, il presidente ha fatto arrestare il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, con generiche accuse di corruzione ed affiliazione terroristica con il PKK. Sono le solite giustificazioni che il governo turco usa per eliminare personaggi scomodi, proprio come nel caso del sindaco, individuato come principale avversario di Erdoğan nelle prossime elezioni presidenziali. È già successo tantissime altre volte con i sindaci curdi democraticamente eletti, destituiti poco dopo l’inizio del loro mandato con accuse sostanzialmente false. Solo che, questa volta, l’impatto generato dalle proteste che sono scoppiate prima ad Istanbul e poi in tutto il paese, ha condotto la discussione sulla libertà di rappresentazione e di opinione verso nuove frontiere. Sono centinaia di migliaia i cittadini turchi scesi in piazza, non tanto per difendere personalmente la causa di Imamoğlu, quanto per proteggere la democrazia, per schierarsi contro un regime che per troppi anni ha dettato legge a discapito del volere della sua stessa popolazione, spadroneggiando su una scena politica spianata dall’assenza di avversari, tutti messi a tacere con la forza. Le immagini che ci arrivano non sono pacifiche, le manifestazioni diventano scontri aperti e violenti tra i cittadini e la polizia, e fioccano gli arresti.
Anche oggi Israele ha bombardato la striscia di Gaza. Nelle aule del parlamento italiano le opposizioni si scontrano con la maggioranza per chiedere di condannare il governo Netanyahu, nel frattempo si aggiungono altri 100 morti al conteggio delle vittime e Human Rights Watch definisce “strategia di sterminio” il blocco degli aiuti alla popolazione palestinese dettato dallo stato ebraico. Il nuovo papa, Leone XIV, invita ad una pace disarmata e al cessate il fuoco a Gaza. C’è un ragazzo palestinese, Tamer, che ogni tanto mi scrive su Instagram per chiedermi aiuto e donazioni per ricostruire la sua casa, e mi racconta delle condizioni estreme che lui e la sua famiglia sono costretti a vivere in Palestina: la mancanza di acqua, il costo esorbitante della farina, l’assenza di beni di prima necessità, la sofferenza e la fame, i bombardamenti continui. Mi ringrazia e mi benedice, chiedendo ad Allah di proteggermi e prendersi cura di me; da non credente, ne rimango comunque commossa. A volte un retropensiero mi scuote, chiedendomi quando sarà l’ultima volta che parlerò con lui, se avrà modo di poter utilizzare le donazioni, se riuscirà a sopravvivere. Non posso fare altro che rimanere a guardare mentre un intero popolo viene cancellato nell’inettitudine generale. Ma non posso distogliere lo sguardo, e spero che non sia ancora arrivato l’ultimo giorno di Gaza.
Alcuni manifestanti accendono dei fumogeni con i colori della Palestina. Roma, 25 gennaio 2025.
molto interessante nella sua capacità di comprendere la complessità della realtà politica in cui viviamo. E questa complessità è la stessa che nasconde le reali occasioni di opporsi alle necrofile e fasciste tendenze che ogni giorno ci troviamo davanti, E del resto come scrisse Don Milani ” chi non fa politica , la subisce”.