di Silvia Righi

 

[È uscito in questi giorni per Nuova Editrice Magenta il primo libro di Silvia Righi, intitolato Demi-monde. Pubblichiamo alcuni testi e un estratto della prefazione di Tommaso Di Dio].

 

Premessa

 

Il concetto di ‘demi-monde’ proposto in questo libro non esiste.

 

È un artificio.

 

L’espressione deriva dall’omonima commedia scritta nel 1855 da Alexandre Dumas figlio, che rappresenta gli amori e la corruzione di un ambiente sociale parigino che non è né borghesia né vero «gran mondo». Il termine poi acquisisce un diverso significato nella serie tv horror Penny Dreadful, dove con ‘demi-monde’ s’intende il mondo sospeso tra la vita e la morte, tra l’umano e il soprannaturale, popolato da creature ibride come gli spettri, i licantropi, i vampiri, le streghe.

 

Da entrambe queste definizioni ho tratto degli elementi per creare le tre sezioni del libro, ma ogni mondo, se inteso come la singola esistenza esperita da una creatura vivente, può chiamarsi demi-monde: è e sarà sempre un (non) luogo, sospeso tra i mondi possibili che l’hanno preceduto e i mondi possibili che sono destinati a seguirlo. Il ‘demi-monde’ è l’intercapedine, la porta socchiusa, il riflesso del riflesso.

 

L’occhio che si spalanca mentre il sogno è ancora in corso.

 

 

*

 

Se mi addormentassi

una notte, senza premonizioni.

Se mi addormentassi per trent’anni

la camera comprimerebbe gli oggetti

fino a ridurre le cose in sogni

e i sogni in mondi.

 

Ci siamo conosciute ovunque,

ovunque è stato un ritorno.

 

All’origine

si incastra il dilemma del dolore,

le scelte sono le figlie

cresciute in abiti d’argento

a nascondere gambe magre come sedani.

Esiste come un’eccezione o un errore

la porta senza porta

nel trapasso non sei chi sei stata

né chi attende.

 

*

 

Accetta che il trauma ti ha scissa

difenditi, resta vicina.

La bambina che s’infila le dita negli occhi

la strega che mangia arance

pregando il succo che le gonfi il seno

la madre col ventre isterico

la vergine che teme

il buco della serratura

 

io sono io sono io sono.

 

Io sono una mutante,

abbraccio il mutamento.

 

*

 

Qui, l’acqua si muta in legno

una fantasia di dimora.

Avvicina l’occhio alla casa

delle bambole, la famiglia

è di cartongesso; servono.

Sono oggetti che servono

devo dire qualcosa sul desiderio

di non essere sangue del tuo sangue.

Sotto la finta-casa

il segreto segreto

sta aggrappato come un polpo.

 

*

 

È pronta per essere l’animale.

Cuce i dolori alle caviglie,

le formiche nutrite nell’incavo del braccio

cadono come piombi. Lei tocca un petalo,

una radice o una muta di serpente

e tutto diviene nervo di pietra,

piccoli miracoli irrigiditi

da chiudere in sacchetti di lino

come amuleti.

Dietro la costola da cui è nata

un lembo molle vibrando

suscita la nostalgia, ancora

la nostalgia.

 

*

 

La creatura ha provato a rimanere immersa nella vita, a fingersi reale; ha provato a non guardare fuori dalla finestra, a non indicare l’artificio delle piante, delle staccionate, la commedia delle persone che cantano; ha provato a essere fratello e sorella, promiscua e monogama, lattante e filosofa, ha provato a farsi macellare e poi a iniziare una carneficina. È forma mancata e viva e tutta la storia si disperde nelle stanze della sua mente. Dove noi viviamo, dove rimbombiamo come echi. Come quarti di bue che da una torre precipitano.

 

*

 

Prefazione

di Tommaso Di Dio

 

È possibile imparare ad essere altro da ciò che si è. È possibile esercitarsi in questa salutare ginnastica del reale. È, anzi, la percezione a tratti più acuta di questo spazio d’alterità che sempre vive accanto ai nostri giorni più feriali, più trasandati, più trascinati, ciò che ci àncora al fondo germinante della realtà, che ce ne fa sentire più vero il flusso, più complice il trasporto. Noi siamo e non siamo noi: ad ogni momento mutiamo. Contro ogni autismo autoritario dell’identità, contro ogni idiozia del medesimo, la poesia da tempo immemorabile custodisce l’arte della trasformazione; è anzi lo strumento più comune – da ben prima che esistesse la letteratura – attraverso cui la mente può vedere e, vedendo, spostare se stessa in altro, trasmigrare, vivere e conoscere altre vite dentro la propria.

 

Che il primo libro di una giovane scrittrice sia interamente dedicato all’esplorazione di questo segreto può forse stupire soltanto chi continua a pensare la poesia come un mezzo “per dire delle cose” (magari per raccontare brani edificanti della propria biografia) e non un strumento con cui esplorare questa fascia intermedia, questa intercapedine baluginante. In Demi-monde, l’autrice non fa altro: aprire piccole, ma profonde fessure nel nostro immaginario e provare ad entrarci, indagandone i contorni, i margini, gli oggetti che le popolano, evocati affinché diventino, per lei come per noi, «derma e febbre». Ogni poeta ha i suoi personali percorsi, le proprie miniere; e Silvia Righi ce le svela subito: ha appreso quest’arte dai poeti provenzali, dalle infinite riscritture dei miti greci e dalle migliori pagine del ‘900, che per tanto del suo tratto non è stato altro che una riscoperta del paganesimo antico. Eppure sentiamo che, nelle vene di questa scrittura, non c’è soltanto la tradizione dotta, c’è anche altro; ed è la presenza di questo altro intrecciato al primo a rendere la lettura di queste pagine così ammaliante. Appaiono lampeggianti i motivi e i misteri della fiaba popolare, con le sue streghe, le sue litanie incantatorie e le sue inquietudini, i suoi feticci e i suoi orrori, i suoi mille anfratti oscuri. Un mondo sommerso di magie dimenticate rivive nelle pagine di Silvia Righi accanto ai frantumi della tradizione più alta dell’Occidente; ma nella scrittura di Demi-monde non c’è né compiacimento né intellettualismo. Non c’è nella sua poesia nessuna ansia di influenza né desiderio erudito, nessuna magra volontà di mostrare altro da ciò che la parola da sola può e sa mostrare. C’è semmai una grande libertà, un’aria fresca, così tipica delle scritture migliori di questo nuovo millennio. In questo libro tutto è adoperato solo se può tornare utile allo scopo, sia esso un romanzo del ‘700 o una serie TV, senza alcun pregiudizio, senza più né gerarchia né postmoderno snobismo: l’intento della poesia è solo la schietta creazione di uno stato fisico, di un «profumo», di un’atmosfera.

 

Ecco perché, fin da subito, Demi-monde è un libro che ha molto a che fare con l’eros. E se la pornografia è evocata in più punti, essa è solo un tema, riguarda più lo sfondo carnale in cui viviamo, piuttosto che l’essenza del libro. Silvia Righi ha scritto in realtà un libro erotico, puramente erotico, supremamente erotico: per tutte le pagine del libro, il lettore si trova dentro una camera dei desideri, una stanza chiusa a chiave, uno spazio subacqueo e regressivo, un ritrovato eden artificiale dove potrà finalmente essere libero di giocare con gli oggetti delle proprie fantasticazioni. Per l’autrice la poesia sembra essere una terapia del desiderio, o meglio: il suo teatro, liberato però dai generi che la natura ha imposto ai corpi e dalle tristi solitudini senza orgasmo. Ed è così che i pronomi fra i versi dimenticano di essere crudi referenti di una supposta realtà oggettiva e diventano invece subito maschere di un gioco a incrocio e incastro: l’io nasconde un tu, il lei un noi, il noi dilata il me ancora di più, fino a sciogliersi nelle pagine finali in una misteriosa terza persona.

 

Come nei giochi dei bimbi e nelle supreme perversioni, ai personaggi di questo libro si assegnano dei nomi di fantasia; nomi che tornano e riverberano per tutte le pagine del libro. Uno dei personaggi principali fra i tanti che animano questo libro è Lei. Come la Signora Neve e le ragazze-ibis «dedite a cose deliziose», Lei è l’avatar, il nome-maschera, il senhal attraverso cui l’io dell’autrice si sdoppia e si disgrega, si decuplica: grazie al quale torna analfabeta del proprio sesso. Lei è più una funzione autopoietica che un personaggio nel senso romanzesco del termine. Sarà inutile cercare in questo come negli altri personaggi una psicologia, una trama, una storia o un’evoluzione. Lei è semmai lo specchio in cui si guarda Narciso nel del Roman de la rose, è il punctum, è il vettore che permette a chi dice io di “ammalarsi”, aprire una breccia e fuoriuscire da sé. La trama, quando vi si accenna, è una pista di accelerazione e il personaggio una funzione di emergenza: rappresenta una concentrazione di intensità erotica tale da permettere a chi scrive di oltrepassare i propri confini, di diluirli, di sfaldarli: «mi hai strofinata come fossi/ una pietra focaia», scrive di Lei l’autrice. Silvia Righi eredita, attraverso la cultura medievale che le è cara, l’idea greca dell’amore come malattia; ma la malattia, la morbosità malinconia di Eros, l’amor hereos è qui accolto però in senso positivo ed è addirittura invocato, proprio perché distruttore, capace di rovesciare la solidità del genere a cui Natura ci ha destinato e di riportarci in una condizione di «strano androgino»: la vita torna possibile e galleggia, fra le pagine, senza più delimitazioni nette, fluida, equorea, mentre abbraccia in uno solo movimento chi legge e chi scrive. L’amante ideale di questi versi è, insomma, colui che è disposto a vivere questo deliquo attraverso le parole e le immagini del testo; che cerca, anzi, con la lettura dei versi, il godimento di animare e intensificare questo trapasso, di provocarlo nel tremore della propria mente.

(…)

 

[Immagine: © Amy Friend, Borrowed Light].

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