di Pablo Calzeroni

 

[Pubblichiamo un estratto dal volume di Pablo Calzeroni Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, uscito di recente per Mimesis].

 

Con lʼavvento del capitalismo flessibile – nel collasso generalizzato del tessuto sociale e sotto i colpi di crisi sistemiche di ogni genere – si è registrato un cambio di paradigma epocale che ha messo in stallo il soggetto come prodotto sociale promuovendo, in modo perverso, la sua singolarizzazione. La mutazione si è realizzata quando il lavoro si è spostato dal centro della scena della soggettivazione alla sua periferia. Da una società industriale inclusiva che richiedeva mass[e di forza lavoro plasmate a dovere secondo le esigenze di un sistema razionale di produzione, da utilizzare e licenziare a seconda delle esigenze di mercato o incanalare ordinatamente nella sfera sregolata del consumo, si è passati a una società esclusiva in cui si è registrata una radicale precarizzazione della figura del lavoratore. Gli individui subiscono la flessibilità produttiva nella forma di una devastante incertezza esistenziale che può declinarsi in diversi modi: qualcuno si trascina il lavoro a casa e in vacanza, qualcun altro si dispera nella ricerca di un impiego, altri ancora si consumano in un disumano iperattivismo sul luogo di lavoro. Certamente, in questa condizione di instabilità generalizzata risulta molto difficile trovare una dimensione entro cui elaborare il senso di un progetto personale, a medio e a lungo termine. Il luogo della soggettivazione, oggi, appare dislocato sempre più allʼesterno del mondo del lavoro, in un altrove difficilmente individuabile, ma senz’altro più vicino alla sfera del consumo, della comunicazione e agli altri ambiti di vita extra-lavorativi. Ambiti caratterizzati da relazioni sociali qualitativamente instabili che non offrono punti di riferimento sostanziali. In questo altrove fluttuante l’individuo non riesce più a individuarsi come soggetto, precipitando in un drammatico isolamento. Leggendo questo fenomeno in termini psicoanalitici, potremmo dire che la rottura del legame con l’esterno si realizza nella forma di una neutralizzazione delle strutture superegoiche proprio perché quelle strutture non trovano nelle relazioni sociali un ordine significante attraverso cui costituirsi. Ciò comporta che le funzioni di controllo del Super-io vengono ora rimpiazzate da Es. L’individuo cede il comando alla spinta pulsionale e si consegna al circuito della soddisfazione rapida, esponendosi continuamente a un eccesso di sregolazione.

 

Sarebbe riduttivo pensare che questa modalità abusiva di appagamento abbia acquistato un peso specifico eccessivo solo per il fatto di essere funzionale alle esigenze del mercato. Se è vero che è un fattore strategico per un certo tipo di sfruttamento economico perché banalmente promuove efficacemente il consumo di merci, è altrettanto vero che altri meccanismi di sfruttamento – ad esempio quelli che impongono certi standard di produttività sui luoghi di lavoro – esigono al contrario repressione. In generale diventa estremamente problematico e contraddittorio analizzare la centralità del richiamo al godimento prendendo come riferimento esclusivo la critica dell’economia politica, perché si finisce sempre per considerarla come una determinazione generica di un altrettanto generico capitalismo, se non addirittura il suo presupposto o la sua stessa essenza. In questo modo si perde di vista, insieme, la portata reale della sregolazione nella nostra vita e la complessa multi-sfaccettatura del sistema capitalistico.

 

Detto questo, sarebbe assurdo ritenere che l’imperativo di godimento non sia figlio delle grandi trasformazioni sociali determinate da un certo modello economico. La sua densità deriva proprio da una concatenazione di fenomeni storici che hanno dato una certa forma alla nostra società. Per citarne alcuni: flessibilità produttiva, terziarizzazione, volatilità contrattuale, precarietà, crisi della rappresentanza. Il godimento consumistico e la sregolazione pulsionale sono proprio un effetto dell’espressione attuale, storica, del rapporto tra universo psicosomatico interno e realtà sociale esterna. In altri termini, come Deleuze e Guattari avevano ribadito (anche se in modo non del tutto chiaro) nella loro critica al potere repressivo del logos capitalistico, non esiste né una pulsionalità originaria orientata a un godimento bestiale, né un limite originario immanente alla produzione desiderante. Più semplicemente, non esistono elementi originari. Se la caratterizzazione del dinamismo pulsionale è un fenomeno sociale, allora l’emergenza di un limite è una delle sue possibili configurazioni. Una configurazione che nell’attuale fase storica fatica ad emergere.

 

La situazione da decifrare è molto complessa perché i richiami del godimento non solo entrano in gioco da protagonisti quando spiamo spinti ad acquistare merci o a consumare la nostra stessa vita in modo compulsivo, ma persistono paradossalmente in una posizione di dominanza anche quando subiamo le istanze repressive o regolative che la società continua ad esprimere negli ambiti di vita regolati dal lavoro o in qualsiasi altro ambito regolato da un ordine normativo.

 

Sembra ragionevole supporre, allora, che il processo di soggettivazione oggi sia entrato in crisi a causa di un conflitto permanente e non dialettico che oppone da una parte il comando assoluto di una pulsionalità dominata dalle dinamiche della sregolazione e dall’altra un mondo esterno che non offre all’individuo appigli per la costruzione di un ordine interno di contenimento. Questo conflitto può essere colto solo dentro il soggetto, nella sua lacerazione, ma non è l’esito di un evento accaduto interamente al suo interno. La realtà non è affatto scomparsa come qualcosa di rimosso e poi ricostruito da un soggetto psicotico. Essa esiste, ovviamente, ma è talmente impoverita da non poter competere con le forze eruttive del godimento.

 

Ne consegue che l’alienazione, a differenza di quanto potesse pensare Marcuse, non è affatto l’esito di una detronizzazione del principio di piacere, ma deriva, propriamente, dalla dissoluzione del principio di realtà. L’individuo oggi è doppiamente alienato: non solo costitutivamente, per il fatto di essere una singolarità intrappolata nelle dinamiche del godimento, ma anche socialmente, per il fatto di non riuscire a trovare una mediazione sostenibile tra le sue esigenze di soddisfazione e le istanze esterne. Non avendo modo di dare un senso alla voce dell’interdizione, l’Io subisce la realtà come un campo oppressivo di forze estranee, continuando ad avvitarsi su se stesso, attorno al richiamo scomposto del godimento.

 

Se il principio di prestazione marcusiano o quello di coercizione foucaultiano esistono ancora, si innestano non più su un Io socializzato, quanto piuttosto su un Es antisociale. Invece di articolare il processo di soggettivazione insistono nelle pieghe del suo fallimento, perché premono su individui isolati, chiusi in se stessi e costitutivamente alienati rispetto a qualsiasi ordine di senso. L’effetto è un corto-circuito devastante: più il dinamismo pulsionale si rende ingestibile, più la repressione-regolazione sociale sarà insostenibile. Viceversa, più il mondo sociale si impoverisce e diventa inospitale, più accentuato e devastante sarà l’isolamento individuale derivato dalla neutralizzazione delle strutture superegoiche e dalla sregolazione.

 

La soggettivazione del nostro tempo è in fin dei conti una desoggettivazione, sospesa tra la spinta pulsionale, che non trova modo di ricodificarsi attraverso i meccanismi della sublimazione, e una realtà sociale che rimbalza con violenza sulla corporeità come un sasso scagliato sulla superficie di uno stagno. Da una parte esiste un dinamismo psichico scomposto, orientato al consumo illimitato di oggetti e/o performance di godimento (come per esempio lo shopping o il gioco dʼazzardo), e dall’altra una forza opposta che esige asservimento in rapporto a determinati ordini di contenimento (nel lavoro e fuori dal lavoro). Entrambi i meccanismi sono fallimentari: se il gesto del consumo rappresenta la scarica di una tensione inesauribile ed è destinato a ripetersi illimitatamente fino all’esaurimento, le pressioni esterne non scalzano Es dalla sua posizione di dominanza e promuovono, sotto forma di un controllo asfissiante e continue forzature, una soggettivazione incompiuta.

 

Nella società dellʼinformatizzazione l’individuo subisce dunque due principi prestazionali contrapposti e paradossalmente sovrapposti: un principio di prestazione sregolativo e un principio di prestazione repressivo di tipo francamente marcusiano. La loro combinazione è il riflesso psichico di quel variegato sistema post-disciplinare della tarda modernità che potremmo chiamare società del comando. Un sistema (o meglio, un non-sistema) sociale che ruota attorno al comando del godimento e che esprime un potere economico-sociale-politico, insieme, autoritario, in relazione alla sua carica oppressiva, e sfuggente, in relazione alla sua costitutiva incertezza: agendo in contesti sociali del tutto instabili e su individui dominati dal principio prestazionale sregolativo, il potere oggi si impone ma non può innescare soggettivazione.

 

È come se il processo di individualizzazione descritto da Foucault, attraverso cui il soggetto della società disciplinare poteva individuarsi all’interno di un contesto sociale in rapporto a un preciso ordine normativo, si inceppasse continuamente e, fallendo, lasciasse a nudo il proprio dispositivo repressivo. La Norma della società disciplinare ha perso oggi la sua subdola dolcezza e si mostra al contrario nella sua durezza. Invece di produrre soggettività dall’interno, spingendo gli individui all’autodisciplina, adesso si impone da un esterno assoluto rispetto alla dimensione incontenibile psiche-soma. Il potere post-disciplinare, in definitiva, può esistere solo come comando governamentale esterno, opposto al comando interno, supremo, del godimento.

 

Si prenda come esempio la variabilità dei contratti che disciplinano i rapporti di lavoro. Se la si intende come un dispositivo disciplinare essa dovrebbe individuare un soggetto all’interno di una precisa organizzazione sociale, come in effetti accadeva un tempo, all’interno della fabbrica. Oggi, dalla prospettiva del lavoratore, è a tutti gli effetti un dispositivo di comando. Non esprime un ordine di individualizzazione che si insinua, come un tarlo, all’interno della volontà e del corpo degli individui, invitandoli a gareggiare o ad adeguarsi a determinati standard di produttività per conquistare posizioni socialmente riconosciute. Al contrario, è un potere che si impone dall’esterno come una minaccia e si mostra per quel che è: un puro strumento di abuso e di singolarizzazione che spinge lavoratori isolati in una disperata lotta fratricida per la sopravvivenza. In questo caso anche la conquista di una posizione riconosciuta non individua soggettività, ma è, ancora, un mero meccanismo di sfruttamento perché si gioca all’interno di raggruppamenti sociali effimeri che impediscono un riconoscimento personale definito e definitivo, tant’è vero che, nel linguaggio comune, è diventato inconsueto descrivere la propria vita professionale in termini soggettivi (sono un operaio, sono un insegnante), mentre appare naturale definirsi in termini performativi e oggettivi (faccio questo, mi occupo di quello).

 

Nella società del comando il potere non solo è espressione di rapporti sociali volatili ed effimeri, ma è esso stesso intermittente. Non producendo soggettività, incombe sull’individuo in base agli input di determinati centri di comando o specifici sistemi disciplinari. Potremmo dire che è un programma di comando, applicabile a seconda delle esigenze o dei contesti. È dunque dolce nella sua assenza e duro nella sua applicazione, a prescindere dagli interessi che può rappresentare e che lo attivano. Se riprendiamo i termini del discorso foucaultiano, esso appare più simile al dominio imperioso della società di sovranità che al biopotere della società disciplinare. Il suo obiettivo principale non è tanto la gestione della vita, ma la propria applicabilità ed efficienza su una vita costitutivamente ingovernabile. Pur essendo un dominio instabile, perché instabile è il tessuto sociale ed esistenziale in cui si impone, ha ricadute pesantissime sulle condizioni di vita delle persone[1].

 

Nella società del comando il potere si manifesta, in primo luogo, negli effetti di distorsione che produce all’interno degli individui. Potremmo dire, sviluppando il discorso di Foucault sul concetto di governamentalità, che si palesa effettivamente nel momento in cui entra in contraddizione con il nostro principio interno di sregolazione. Così, in una corsia d’ospedale come in un’aula scolastica o sul lavoro, possiamo percepirlo come un sistema sgradito e abusivo di gestione del corpo. Allo stesso modo, di fronte a un ordine normativo più generale, quando per esempio dobbiamo pagare le tasse o rispettare il codice della strada, possiamo viverlo come un limite intollerabile imposto da regole formali puramente contenitive-punitive. Oppure ancora, quando siamo alla ricerca di un lavoro e lottiamo per la nostra stessa sopravvivenza economica, lo interpretiamo come un ordine di sfruttamento minaccioso costituito da grandi interessi e poche opportunità.

 

Il capitalismo digitale ha intercettato in pieno la crisi della soggettivazione utilizzandola a proprio vantaggio per estrapolare dalla vita informazioni e ricchezza. È la manifestazione di un potere che ha imparato a capitalizzare il comando del godimento. Ciò si rende evidente nell’ambito della comunicazione digitale: i social network sono organizzati proprio per amministrare, dirigere e incrementare la sregolazione degli individui. In questo senso si comportano come dei veri amplificatori pulsionali, spingendo gli utenti ad un uso compulsivo delle piattaforme per garantire un’adeguata produzione di dati valorizzabili.

 

Ma l’economia dei Big-data si estende ben al di là delle reti di comunicazione. In generale, nella connettività digitale lʼesistenza è messa al lavoro – e venduta al miglior offerente per immediati o futuri profitti – nella sua interezza, non solo nell’ambito ristretto degli scambi comunicativi. Mentre in Europa gli stabilimenti industriali sono ridotti ai minimi termini, gli impianti che estraggono dati digitali e producono merci attraverso i consumatori di beni e servizi sono ovunque. Non solo all’interno dei social network, ma (potenzialmente) in ogni punto della vita e del mondo che è interconnesso: attraverso il Gps dello Smartphone che ci localizza, una videocamera di sicurezza, la cassa di un supermercato. Si tratta di un’economia basata sullʼeccesso e sullʼeccedenza perché sfrutta i circuiti del godimento allo scopo di mantenere alto il livello di produzione di dati e di individuare, lavorando sulle eccedenze di produzione (potremmo dire, sulla diversificazione dei dati), nuovi settori di sviluppo commerciale. Questo non significa che siamo spinti a godere attraverso il Gps o i sistemi di videosorveglianza, ma che la vita – su cui oggi preme il principio di prestazione sregolativo – può essere messa in produzione, sia quando ci spostiamo nello spazio sia quando facciamo la spesa. Anche se nessuno ci spinge a trascorrere del tempo sui social network o a prendere l’auto per spostarci da un posto a un altro, qui vale un’unica semplice equazione: produrre più dati significa assicurare maggiore ricchezza e varietà nei database aziendali e quindi maggiori profitti. Lo scopo ovviamente non è la liberazione della vita. Ciò che interessa non è affatto la qualità della vita, né tantomeno la sua omologazione, ma la vita presa dal comando pseudo-liberatorio della sregolazione, quella che (si) consuma e che, consumando ossessivamente, può produrre in grande quantità dati e metadati commerciabili.

 

Ovviamente, al momento, non tutti coloro che accumulano informazioni riescono a valorizzarle. L’affare dei Big-data è in mano a un ristretto numero di società che ha un controllo quasi totale del mercato. Stiamo parlando di aziende come Google o Facebook che hanno costruito il proprio modello di business proprio sulla sorveglianza dei fruitori dei servizi digitali offerti. A questo proposito si può parlare di un capitalismo di sorveglianza che osserva e manipola le informazioni prodotte on line per prevedere e indirizzare i comportamenti dei consumatori, i quali nella maggior parte dei casi non sanno nemmeno di essere costantemente monitorati[2]

 

Lo scopo principale della sorveglianza non è quello di gestire la vita, come accadeva negli ambienti di reclusione della società disciplinare, ma di tracciarla e valorizzarla nella sua interezza per connettere in modo più stringente rispetto a quanto finora era stato possibile la domanda e l’offerta di beni e servizi. Se lo scopo principale è lo sviluppo di un mercato fondato sulla previsione dei comportamenti della classe degli osservati, questo non significa che il patrimonio di dati e metadati non possa anche essere utilizzato per altri fini, ad esempio politici, come il controllo degli attivisti durante una rivolta popolare o la manipolazione del consenso durante una campagna elettorale.

 

Mentre il capitalismo industriale aveva bisogno di far convergere nelle fabbriche e nelle città masse di lavoratori pagandone poi il prezzo in termini di conflitti e lotte per la concessione di diritti, il capitalismo della sorveglianza deve semplicemente far vivere masse di consumatori il più possibile autosussistenti (con maggiore tempo libero) e dinamici. Il problema del conflitto non si pone nemmeno: gli individui sono talmente singolarizzati da non riuscire a sviluppare soggettività e antagonismo. Se il lavoro era un tempo la dimensione dello scontro e della contraddizione, oggi è del tutto ininfluente. Dal punto di vista delle imprese informatiche i consumatori possono pure, come forma di protesta, rifiutarsi di lavorare. E addirittura pretendere, a patto che sia qualcun altro a pagare, un reddito di cittadinanza adeguato. Lʼimportante è che siano costantemente sorvegliati e continuino a produrre dati consumando se stessi.

 

Note

[1] Non di rado è orientato verso la sospensione dei diritti, la violenza e l’annientamento. Il potere del comando al suo picco massimo di oppressione può essere quello che regola la vita all’interno di un centro di detenzione come Guantanamo. In questo caso appaiono significative le riflessioni di Giorgio Agamben sul rapporto tra potere sovrano e nuda vita. Il comando biopolitico, secondo Agamben, implica la cattura del vivente attraverso dispositivi giuridici e di altra natura che consentono la riduzione della vita al grado zero di anonima materiale governabilità. E così anche all’interno di un sistema democratico e civile fondato sul rispetto dei diritti degli individui può essere previsto un ambito in cui questi diritti sono negati in nome della sicurezza della collettività. Anche nel civile Occidente la vita è esposta potenzialmente a diverse forme di violenza governamentale. Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995; G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.94

[2] Sul tema della sorveglianza informatica si rimanda all’intervento dell’esperto di sicurezza informatica Bruce Schneier alla “SOURCE Boston conference” (aprile 2014) citato in F. Y. Rashid, Surveillance is the business model of the Internet: Bruce Schneier, «Security Week», 9 aprile 2014. Sul capitalismo di sorveglianza cfr. S. Zuboff, A Digital Declaration, «Frankfurter Allgemeine», 19 settembre 2014; S. Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Profile Books, London 2019.

1 thought on “Desoggettivazione e prestazionalità nella società del comando

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