di Solomon Volkov
[Lietocolle ha da poco pubblicato i Dialoghi con Brodskij di Solomon Volkov, a cura di Gala Dobrynina. In questi dialoghi raccolti nell’arco di quindici anni, Iosif Brodskij racconta la sua infanzia nella Leningrado della guerra, la vita di poeta clandestino, la detenzione nei manicomi sovietici, la sorveglianza del KGB, l’espulsione dall’Unione Sovietica e l’emigrazione negli Stati Uniti, i rapporti con Auden, Achmatova, Frost e Cvetaeva. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1998, tradotto successivamente in molte lingue, il libro per la prima volta appare in Italia. Ne anticipiamo alcune pagine].
Volkov: Iosif, le vorrei chiedere del processo del 1964, dei suoi arresti e della sua permanenza nei manicomi sovietici. So che non le piace parlarne e che spesso si rifiuta di rispondere quando le chiedono di questo argomento. Ma noi stiamo parlando di Leningrado, e per me il caso Brodskij e il processo fanno parte dell’atmosfera di Leningrado di quegli anni, quindi, se non le dispiace…
Brodskij: Sa, Solomon, non sono né pro né contro. Ma non ho mai preso seriamente questo processo: né durante il suo svolgimento, né dopo.
Volkov: Perché all’improvviso si è messa in moto tutta questa macchina repressiva? Perché proprio Leningrado, perché lei? Infatti, dopo la campagna contro Pasternak nel 1958, le autorità sovietiche, per un certo periodo, avevano smesso di inventare nuovi processi contro gli scrittori. Cosa pensa che ci fosse dietro tutto questo?
Brodskij: A dir la verità è una cosa che non ho ancora approfondito, non ci ho riflettuto sopra. Ma se dobbiamo parlarne, è ovvio che dietro ad ogni fatto c’è sempre qualcuno di concreto, una persona concreta. Dopo tutto ci vuole un uomo per mettere in moto una macchina, ed è proprio questo che lo differenzia dalla macchina. E col mio processo è avvenuta la stessa cosa. È stato Lerner a metterla in moto, pace all’anima sua, dato che, immagino, sia già morto.
Volkov: È quello stesso Lerner che, nel novembre del 1963, ha pubblicato in un giornale di Leningrado un articolo contro di lei in-titolato Un parassita del sottobosco letterario?
Brodskij: Proprio lui; aveva già da diverso tempo interessi lettrari. Ma in quel momento era un dirigente del VDP, la polizia popolare. Sa chi erano queste squadre del VDP? Avevano pensato a un ottimo sistema per fascistizzare il popolo e, in particolar modo, i giovani: reclutavano volontari.
Volkov: Lo so. Conoscevo anche un tizio di queste squadre di vigilanza, un idiota fatto e finito.
Brodskij: Uno degli obiettivi principali di questa polizia popolare era l’Hotel Evropejskaja, dove alloggiavano diversi stranieri. Come sa, si trovava in via Isaak Brodskij, e chissà, forse è per questo che il signor Lerner ha cominciato a interessarsi a me… Davano la caccia soprattutto ai trafficoni. E tra l’altro, quando questi sbirri volontari frugavano nelle tasche di quei trafficoni, molte cose, soldi e anche icone, rimanevano incollate alle loro mani. Ma lasciamo perdere…
Volkov: Il suo arresto nel 1964 non è stato il primo?
Brodskij: No, la prima volta mi hanno preso quando è uscita Sintaksis, il progetto letterario di Alik Ginzburg, si ricorda?
Volkov: La rivista di poesia scritta a mano, che usciva a Mosca, mi sembra, verso la fine degli anni cinquanta? Chi l’ha arrestata, la polizia o il KGB?
Brodskij: Il KGB. In epoche antiche.
Volkov: Cosa volevano da lei?
Brodskij: Non è mai chiaro quello che queste persone vogliono da te. Pensavo che il KGB fosse un’agenzia come tutte le altre, e come tutte, vittima della statistica. Cioè, il contadino che arriva nel suo campo non deve fare altro che falciare l’ultima striscia non mietuta. Un operaio come arriva nel suo reparto trova già una consegna che lo aspetta. Quando, invece, i KappaGiBisti entrano nel loro ufficio non vedono altro che la fotografia del loro fondatore, il loro Feliks di Ferro, non è così? Ma bisogna pure che facciano qualcosa per giustificare la loro esistenza, no? E così fabbricano tutti i loro casi. E tutto quello che succedeva non dipendeva dal fatto che il Soviet fosse malvagio di per sé, o, che so, dal fatto che Lenin e Stalin fossero dei mostri, o che un diavolo bazzicasse lì intorno. È solo burocrazia, un puro fenomeno burocratico che in assenza di un controllo esterno, si espande a dismisura e inizia a fare solo il diavolo sa cosa.
Volkov: Anch’ io ho sempre avuto l’impressione che il KGB si reggesse solamente su una base burocratica.
Brodskij: Credo che, in fondo, l’idea della Ceka di difendere la rivoluzione dai nemici esterni e interni fosse, tutto sommato, naturale. Sempre se consideriamo naturale il fenomeno della rivoluzione, che di per sé è già qualcosa di abbastanza innaturale. Ma poi, col passare del tempo, questa creatura innaturale diventa naturale e si conquista un proprio spazio ben determinato. Quando si va a dormire, non si chiude forse la porta a chiave? È una cosa normale, no? La Ceka è come un lucchetto su questa porta; poi ci si mette davanti un guardiano. Ma quest’uomo deve avere un superiore, e quel superiore deve averne a sua volta un altro che lo controlla, e così via. Nel caso del KGB tutto si è svolto al contrario; il guardiano è rimasto lì senza che nessuno lo controllasse. Volendo, poteva andarsene a dormire oppure pugnalarti con una baionetta. E qui inizia il casino. Penso che il novanta per cento dell’attività del KGB consista nel fabbricare casi. A lei non è mai capitato di incontrare delle persone che s’inventano un’occupazione tanto per fare qualcosa?
Volkov: Ne ho incontrate quanto basta.
Brodskij: Ecco, i KappaGiBisti sono proprio persone che s’inventano delle occupazioni perché non hanno altro da fare, punto. E poi, in Russia chi avrebbe dovuto rovesciare il sistema? Nessuno!
Volkov: Almeno per quello che possiamo ricordare…
Brodskij: Già, per quel che possiamo ricordare… Forse, prima del ‘37, a qualcuno sarà anche venuto in mente di mettere una persona diversa a capo del paese; ma dopo il ‘37 è improbabile che nascessero ancora idee del genere. Ed è fuori questione che ci fossero delle armi nelle mani della popolazione. Forse con qualche eccezione. E questi casi la polizia avrebbe potuto gestirli facilmente. Ma non era questo il problema. Così, perché questi tizi della sicurezza potessero esistere, hanno iniziato a organizzare un sistema di denunce. E a partire da queste denunce si accumulavano informazioni. Poi, sulla base di queste informazioni, diventava possibile fare qualcosa. Tutto questo funziona ancora meglio se si ha a che fare con uno scrittore, non è così? Perché per ogni monsieur c’è sempre un suo dossier, e questo dossier continua a crescere. E se tu sei uno scrittore il dossier cresce ancora più velocemente perché ci finiscono dentro tutti i tuoi manoscritti, poemetti e romanzi, no?
Volkov: Insomma, sei tu stesso che produci materiale per il tuo dossier al KGB!
Brodskij: E alla fine il tuo dossier comincia a occupare sullo scaffale del KGB uno spazio spropositato e allora devi essere arrestato, devono avviare un’indagine su di te. Ed è quello che succede; direi una versione neandertaliana del computer. Potremmo dire che quando si è alimentato un eccesso di informazioni, si prende il soggetto e si comincia a sciogliergli la lingua, con tanto di tariffario prefissato. In fondo è molto semplice.
Volkov: Così, i suoi problemi col KBG sono cominciati con la comparsa delle sue poesie in Sintaksis?
Brodskij: Sì, e poi c’è stato il cosiddetto caso Umanskij.
Volkov: Se ricordo bene, le autorità hanno enormemente gonfiato il caso Umanskij durante il processo. Di che cosa si trattava esattamente?
Brodskij: Detto tra noi, non si trattava di niente. Tutto è cominciato quando avevo diciott’anni, e Šura Umanskij doveva averne circa una ventina. Abbiamo incontrato un uomo che si chiamava Oleg Šachmatov. Era più vecchio di noi, aveva già prestato servizio nell’esercito ed era un pilota. Era stato espulso dall’esercito, perché beveva o forse perché correva dietro alle mogli degli ufficiali. Forse tutte due le cose. Se ne andava a zonzo da una parte all’altra del paese, non stava mai fermo in un posto, e poi in qualche modo ci siamo incontrati, aveva trovato un lavoro a Leningrado, credo all’osservatorio geofisico Voejkov. Umanskij aveva una grandissima passione per la filosofia, yoga e cose del genere. E a casa aveva una libreria ben fornita. Così Šachmatov ha cominciato a leggere tutti questi libri. Ha idea di quello che può succedere nella testa di un ufficiale dell’esercito sovietico, per di più un pilota, quando prende in mano per la prima volta nella sua vita Hegel, Ramakrishna, Vivekananda, Bertrand Russell e Karl Marx?
Volkov: No, non riesco ad immaginarlo.
Brodskij: Nella sua testa avviene un Bang, un cataclisma! E inoltre Šachmatov era un uomo dotato, aveva un talento colossale per la musica, suonava la chitarra con grande maestria. Era molto interessante stare con lui. Ed ecco cosa è successo: una volta, per ripicca, ha pisciato nelle calosce e le ha buttate nella minestra della cucina della kommunalka in cui viveva la fidanzata; questo perché la sua ragazza non lo faceva entrare nella sua stanza dopo la mezzanotte. Poi l’hanno beccato, e gli hanno dato un anno di galera per atti di teppismo. L‘hanno messo in prigione, poi rilasciato, poi di nuovo è tornato a Leningrado. Andavamo d’accordo e con lui succedeva sempre qualcosa d’interessante. Quando si hanno vent’anni tutto è interessante. E inoltre era un pilota con una vita movimentata. Come dovrebbe essere.
Volkov: Niente da dire, movimentata davvero.
Brodskij: Poi Šachmatov è di nuovo scomparso dalla circolazione, per ricomparire all’improvviso a Samarcanda, dov’era andato per sfuggire al matrimonio; e qui ha cominciato a suonare la chitarra al conservatorio, e a vivere con la sua insegnante, anche lei una donna straordinaria, un’armena. E nello stesso tempo insegnava musica nella Casa degli Ufficiali. A un certo punto ha iniziato a scrivermi per invitarmi ad andare là, sa, quelle lettere pittoresche dall’Asia Centrale…
Volkov: Lo immagino. Tanto più che io sono nato in Asia centrale, a Chujand.
Brodskij: Anch’io avevo sempre sognato di andare in Asia centrale. Così ho messo da parte qualche soldo lavorando come fotografo per la televisione, e sono andato a Samarcanda. Laggiù io e Šachmatov vivevamo nella più totale indigenza: non avevamo neanche un tetto sulla testa, niente di niente. Dormivamo dove ci capitava. Detto tra noi, tutta questa storia era un’epopea degna di un romanzo. Per farla breve, un bel giorno, quando per l’ennesima volta Šachmatov si stava lamentando della sua perenne cattiva sorte (in considerazione di tutte le sofferenze che le autorità sovietiche gli avevano inflitto), ci è venuta un’idea: non ricordo a chi è venuta prima, forse proprio a me. Così gli dico: Oleg, se fossi in te, prenderei uno di quegli aerei ultraleggeri, uno Jak-12 ad esempio, e me la filerei in Afghanistan. Sei o non sei un pilota? Volerei in Afghanistan e poi, finita la benzina, continuerei a piedi fino alla città più vicina, Kabul, per esempio.
Volkov: E come ha reagito Šachmatov a questa idea?
Brodskij: Mi ha proposto di fuggire con lui in Afghanistan. Il piano era questo: dovevamo comprare i biglietti per un volo con uno di quei piccoli aerei. Šachmatov si doveva sedere di fianco al pilota, io mi sarei seduto dietro con una pietra, e… trac! Sulla capoccia del pilota. Poi lo avrei legato e Šachmatov avrebbe preso il timone. Saremmo saliti di quota e poi avremmo attraversato la frontiera planando per non farci rilevare dai radar.
Volkov: Questa è una fuga alla Kipling!
Brodskij: Non so fino a che punto questo piano fosse realizzabile, ma ne abbiamo discusso sul serio. Šachmatov aveva dieci anni più di me ed era anche un pilota. Insomma, doveva pur sapere di cosa si stava parlando.
Volkov: Per quel che ne so, nel suo dossier non si fa riferimento alla fuga vera e propria, ma solo ai preparativi per questa fuga. Cosa vi ha fermato?
Brodskij: Il fatto è che, almeno all’inizio, era soprattutto una mia idea. Ed è vero: sono proprio una canaglia e un mascalzone. Perché poi, quando avevamo già comprato i biglietti dell’aereo per tutti e quattro i posti, ho improvvisamente cambiato idea.
Volkov: Ha avuto paura?
Brodskij: No, è andata in un altro modo. Un’ora prima della partenza avevo comprato delle noci con un rublo che mi era rimasto in tasca. Ero seduto e spaccavo le noci con la stessa pietra che avrei dovuto usare per scassare la testa al pilota. In quei giorni, dopo aver letto de Saint-Exupery, amavo tutti i piloti. E li amo ancora oggi. Insomma, per me volare è sempre stata un’idea grandiosa. Quando sono arrivato negli Stati Uniti, nei primi tre o quattro mesi ho preso lezioni di volo, e persino volato, atterrato e decollato! Ma questo non conta… insomma sto spaccando le noci e improvvisamente capisco che la noce all’interno assomiglia a…
Volkov: Al cervello umano!
Brodskij: Esattamente. Allora ho pensato: perché mai dovrei spaccargli la testa? Che cosa mi ha fatto di male dopotutto? E per di più quel pilota l’avevo già visto… e comunque, a cosa serviva tutto quell’Afghanistan? Patria o non patria, queste categorie per me non avevano certo importanza. Poi d’un tratto mi sono ricordato della ragazza che avevo a quel tempo a Leningrado. Anche se lei era sposata… allora ho capito che non l’avrei mai più rivista. E ho realizzato che non avrei più visto nemmeno altre persone, amici, conoscenti. E questo mi ha fatto male, mi ha punto nel vivo. Insomma, sono voluto tornare a casa. Alla fin fine, il Medio Oriente ci circonda, ma io sono un uomo bianco, no? In breve, ho detto a Oleg che non potevo andare avanti con quella storia. E siamo tornati ognuno per conto nostro nella parte europea dell’URSS. Più tardi ho rivisto Šachmatov a Mosca, dove viveva in condizioni abbastanza precarie. Un anno dopo lo hanno arrestato a Krasnojarsk con addosso una pistola.
Volkov: Questo è stato l’inizio del caso Umanskij?
Brodskij: Sì, perché Šachmatov, a quanto pare, per paura di essere nuovamente condannato, dichiarò che avrebbe spiegato il motivo del possesso del revolver solo a un rappresentante del KGB; e quel tizio gli si è immediatamente presentato, perché in Russia non c’è niente di più facile che far venire un KappaGiBista, facile come usare un quick coin laundry qui a New York.
Volkov: Negli atti processuali la vostra idea di fuga è stata qualificata come un progetto di tradimento della Patria o qualcosa del genere. Vuol dire che le autorità erano al corrente di tutto, è così?
Brodskij: Sì, perché Šachmatov ha raccontato tutto a questo rappresentante del KGB. Non bisogna volergliene, perché cercava solo di salvarsi la pelle, ma tra di noi alcuni si sono trovati nei guai, soprattutto Umanskij. Perché Šachmatov ha fatto i nomi di tutti quelli che conosceva, inventandosi che erano grandi nemici dei Soviet. E hanno cominciato ad arrestarci tutti. Hanno chiamato a testimoniare circa venti persone. Anch’io sono stato chiamato a testimoniare e poi tenuto lì come un sospetto. Ma questo era normale.
Volkov: Come ha fatto a scamparla quella volta?
Brodskij: Prima mi hanno trattenuto e poi liberato, perché era emerso, dopo aver interrogato una ventina di persone, che l’unica prova contro di me era la deposizione dello stesso Šachmatov. E la cosa non era proprio comme il faut neppure per il sistema giuridico sovietico. A Umanskij è andata peggio, perché contro di lui aveva testimoniato prima Šachmatov, poi sua moglie e anche l’amante di sua moglie.
Volkov: Quindi, la catena del processo Brodskij parte direttamente dal caso Umanskij?
Brodskij: Penso in realtà che sia stato tutto più interessante e più complicato. Ma non ho voglia di rifletterci sopra, né di provare a capirci di più. Non voglio, perché le cause non m’interessano assolutamente. Sono le conseguenze che m’interessano. Perché le conseguenze sono sempre più spaventose. Cioè, almeno in prospettiva, sono uno spettacolo più interessante.
Volkov: Tornando a quel diavoletto della tabacchiera, a Lerner, come gli è venuta l’idea di scrivere un pezzo? Non era neanche un giornalista di professione.
Brodskij: A quanto pare, l’idea non è venuta proprio a Lerner. Evidentemente è stato aizzato dal KGB. E poiché il mio dossier cresceva sempre di più, immagino che fosse arrivato il momento di agire. Lerner non contava nulla. Se non ricordo male, era stato un fervente KappaGiBista; o forse non era stato così fervente, non ricordo bene. Era uno di quegli entusiasti in pensione dall’occhio lacrimoso. L’altro occhio, mi sembra, era proprio di vetro. Tutto al suo posto! Un assoluto disastro! E lui, naturalmente, voleva dar prova di quello di cui era capace. E questo coincideva con gli interessi del KGB. E via di seguito. E quando mi hanno catturato per la terza volta, allora mi hanno elencato tutto: Sintaksis, il caso Umanskij, Šachmatov, Samarcanda, e tutti quelli che avevo incontrato lì.
Volkov: Quando tutto le è crollato addosso per la terza volta, come ha reagito: l’ha presa come una catastrofe? Come una sfida? Come un’occasione di affrontare il potere?
Brodskij: È difficile rispondere a questa domanda, perché è difficile resistere alla tentazione di interpretare il passato basandomi sulle posizioni di oggi. D’altra parte, ho ragione di credere che su questo aspetto non ci sia una particolare differenza tra i miei sentimenti di allora e quelli di adesso. Personalmente non vedo alcuna differenza. E posso dire che non sentivo tutti questi avvenimenti, né come una tragedia, né come un confronto con il potere.
Volkov: Non aveva nemmeno paura?
Brodskij: Sa, quando sono stato arrestato per la prima volta ero molto spaventato. Di solito vengono a prenderti abbastanza presto, alle sei di mattina, quando sei appena uscito dal letto, sei ancora tiepido, e hai i riflessi intorpiditi. Ero molto spaventato, naturalmente. Provi ad immaginare: ti portano nella Grande Casa, ti interrogano, e dopo averti interrogato ti sbattono in cella. (Aspetti, Solomon, mi prendo una sigaretta).
Volkov: Vuole dire che le celle sono proprio lì, nella Grande Casa?
Brodskij: Non lo sa? Beh, allora posso raccontarle. La Grande Casa è una faccenda piuttosto interessante. Nel senso che incarna concretamente l’idea della cosa in sé. La Grande Casa ha, come spiegarlo, un suo perimetro, no? È un edificio quadrato, al cui interno c’è un altro stabile, sempre quadrato. E il secondo edificio comunica col primo attraverso il Ponte dei Sospiri.
Volkov: Come a Venezia?
Brodskij: Esatto! Nella Grande Casa questo ponte è costruito, se non sbaglio, a livello del primo piano, cioè praticamente è un corridoio tra il primo e il secondo piano, attraverso il quale ti trasferiscono dall’ edificio esterno a quello interno, che è in realtà una prigione. E il momento più terribile arriva, infatti, dopo l’interrogatorio, quando speri ti lascino tornare a casa. Allora pensi: ―Adesso potrò uscire in strada! Finalmente! Poi, improvvisamente ti rendi conto che ti portano nella direzione completamente opposta.
Volkov: E qual è il seguito del rituale carcerario?
Brodskij: Ti dicono: Mani dietro la schiena! E ti portano via, e improvvisamente cominciano ad aprirsi delle porte davanti a te. Non ti dicono niente, capisci tutto da solo. Che altro c’è da dire! Non è possibile nessun’altra interpretazione.
Volkov: Quasi come in Contro l’interpretazione di Susan Sontag.
Brodskij: Alla fine, dopo che hai attraversato tutto il corridoio di questo Ponte dei Sospiri, ti consegnano alla guardia della porta del carcere interno. E questo guardiano comincia a perquisirti con il suo aiutante. Ti tolgono i lacci delle scarpe. E ti portano avanti. Io, ad esempio, sono stato portato al secondo piano. Se non sbaglio la mia cella era sopra quella di Lenin, e mentre mi ci portavano mi hanno detto di non guardare in quella direzione. Ho cercato di sapere il perché. Mi hanno spiegato che in quella cella era stato detenuto Lenin, e che io, come nemico della patria, non avevo diritto di guardarla.
Volkov: È davvero possibile che la Grande Casa sia un edificio così vecchio da aver ospitato Lenin?
Brodskij: La struttura interna esisteva già da prima della rivoluzione. E l’edificio esterno è stato costruito dai bolscevichi, negli anni venti, credo, quando di terrore staliniano non si parlava ancora. In effetti quei tizi sapevano già quello che volevano fare. Un sacco di persone meravigliose hanno partecipato al progetto dell’edificio. Credo che anche Aleksandr Benois fosse coinvolto nella costruzione, ma forse non dovrei calunniare il povero Benois.
Volkov: Se non sbaglio Benois andò a Parigi nel 1926, è una cosa che si può verificare…
Brodskij: Se le sembra necessario… In breve, ti mettono in una cella. E quando, per la prima volta nella mia vita, mi hanno portato in quella cella, devo dire che mi è piaciuto, davvero piaciuto! Sì, perché era una singola.
Volkov: Le porte delle celle venivano sbattute davvero con quel fragore brutale, come si vede nei film?
Brodskij: Sì, proprio con quel clangore.
Volkov: Bene, adesso si trova in una cella della Grande Casa. Me la descriva.
Brodskij: Beh, i muri sono di mattoni, ma sono ricoperti con una vernice a olio, se non sbaglio, color verde metallico. Il soffittino è bianco, ma poteva anche essere grigio, non ricordo bene. Ti chiudono a chiave. E rimani lì da solo con il tuo letto, il tuo lavandino e il tuo cesso.
Volkov: E quanto è grande la stanza?
Brodskij: Se non mi sbaglio, otto o dieci passi in lunghezza. Pressappoco come la mia stanza qui a New York, ma più stretta della metà. Cosa poteva esserci dentro? Un comodino, un lavello, un očko. Cosa puoi volere di più?
Volkov: Cos’è un očko?
Brodskij: Un očko? È un buco nel pavimento, una latrina. Non capisco, dove ha vissuto fino ad oggi, Solomon!
Volkov: A quell’epoca vivevo già a Leningrado, nella stessa città dove viveva lei, in un collegio musicale presso il Conservatorio. E non ho mai sentito la parola očko.
Brodskij: Cosa c’era ancora? Una finestra dalla quale non si vedeva niente, perché oltre alle normali sbarre, all’esterno c’era anche una specie di museruola. Le spiego subito: è come una custodia di legno per impedirti di affacciarti, di fare smorfie a qualcuno o sventolare la mano. Insomma, è per renderti tutto il più sgradevole possibile.
Volkov: Dov’era la luce, sul comodino?
Brodskij: No, era incorporata nel soffitto, anche questa sotto una grata, perché non ti venisse voglia di romperla. Nella porta, naturalmente, c’erano uno spioncino e lo sportellino da cui passavano i pasti, la nostra mangiatoia.
Volkov: Si apriva verso l’interno, come nei film?
Brodskij: Sì, verso l’interno. Ma il fatto è che, mentre me ne stavo lì seduto, non ho mai visto come si apriva, perché quello era solo un carcere investigativo, e gli interrogatori fuori dalla cella potevano durare anche dodici ore. Così quando mi riportavano indietro, il cibo era già sul comodino, e in questo dimostravano una certa intelligenza.
Volkov: Com’era il cibo?
Brodskij: Il solito cibo, niente di che. Ricordo che una volta mi hanno portato persino una polpettina, il che mi ha riempito di gioia. Beh, già a parlare del cibo della prigione non si sa se ridere o piangere, giusto? Comunque, il cibo durante gli interrogatori non è così male al confronto con quello di un vero carcere.
Volkov: E quando è stato arrestato per il caso Umanskij l’hanno portata di nuovo nella Grande Casa?
Brodskij: Sì. Ma la terza volta sono riuscito a evitarla. Mi hanno dato la caccia per strada e portato alla stazione di polizia, dove, mi sembra, mi hanno tenuto per circa una settimana. Dopo di che, mi hanno spedito per parecchie settimane in un manicomio alla Prjaţka, per la cosiddetta perizia psichiatrica. Ed è stato il momento peggiore della mia vita.
Volkov: Capisco, non è facile da ricordare. Anch’io al suo posto, probabilmente, mi sarei rifiutato di rispondere a domande su quel periodo. Ma in questo caso parlo come uno storico della cultura, se si vuole. Come un cronista della cultura. E vorrei sapere della sua permanenza nell’ospedale psichiatrico un po’ più dettagliatamente. Quante volte c’è stato?
Brodskij: Beh … due volte …
Volkov: Quando esattamente?
Brodskij: La prima volta nel dicembre del 1963. La seconda volta… in che mese è stato? Nel febbraio-marzo del 1964. E ho anche descritto tutto in versi, ricorda Gorbunov e Gorčakov?
Volkov: Sì, mi ricordo quello che ha descritto nei versi, ma ora mi racconti come è andata davvero. Mi interessa soprattutto il suo secondo arresto, quando le autorità l’hanno costretta a sottoporsi alla perizia psichiatrica.
Brodskij: Beh, era un comune manicomio, con camere miste, in cui tenevano insieme i pazzi furiosi e quelli normali, dato che sospettavano che sia questi che quelli…
Volkov: … simulassero la follia?
Brodskij: Sì, che fingessero. E la prima notte che ero lì, la persona nel letto accanto al mio si è suicidata. Si è tagliata le vene. Mi ricordo che quando mi sono svegliato alle tre del mattino c’era agitazione tutt’attorno e un grande tramestio. E quell’uomo giaceva in una pozza di sangue. Come si era procurato un rasoio? Mi è tutt’ora incomprensibile…
Volkov: Niente male come prima impressione.
Brodskij: No, la prima impressione è stata un’altra. Quando sono entrato nella mia stanza… pensavo di impazzire. Ciò che mi ha colpito è stata l’organizzazione dello spazio. Ancora adesso non capisco cosa fosse: se le finestre più piccole del normale, o i soffitti troppo bassi, o forse i letti troppo grandi. Erano come dei letti militari, di ferro, molto vecchi, quasi dei tempi di Nicola II. Ovunque c’era un’enorme violazione delle proporzioni. Come se si entrasse in uno spazio del XVI secolo, come le stanze del palazzo Pogankin, ma con un arredamento moderno.
Volkov: E i pitali?
Brodskij: Non c’erano. E questa violazione delle proporzioni mi faceva impazzire. Tra l’altro, le finestre non si potevano aprire, non si poteva uscire. Tutti ricevevano visite dai familiari, tutti tranne me.
Volkov: E perché?
Brodskij: Non lo so. Probabilmente mi consideravano il più pericoloso.
Volkov: Credo di capire bene questa sensazione di completo isolamento. Ma anche la cella singola del carcere non era certo una delizia, vero?
Brodskij: Nella cella in prigione, se ti capitava un attacco di cuore o qualcosa del genere, potevi chiamare la guardia. Potevi suonare, c’era una maniglia che si poteva tirare. Il problema era che, se tiravi la maniglia due volte, il campanello non suonava. Ma nel manicomio era molto peggio, perché ti iniettavano ogni sorta di schifezze e ti obbligavano ad ingoiare anche delle pillole.
Volkov: Le iniezioni erano dolorose?
Brodskij: Di solito no, a meno che non ti iniettassero dello zolfo. E allora anche solo il movimento di un dito provocava un dolore fisico inimmaginabile. Questo veniva fatto per rallentarti, per tenerti fermo, per non permetterti di fare assolutamente nulla, per non farti muovere. Di solito lo zolfo veniva iniettato ai pazienti violenti, quando cominciavano a correre e urlare come scalmanati. E inoltre era un modo per far divertire sia le infermiere che gli infermieri. Ricordo che in questo manicomio c’erano alcuni giovani non proprio normali: in parole povere, dei mentecatti. E le infermiere avevano cominciato a provocarli. Insomma li eccitavano sessualmente. E non appena questi ragazzi cominciavano ad avere un’erezione, subito saltavano fuori gli infermieri maschi, li immobilizzavano e gli iniettavano lo zolfo. Davvero ognuno si diverte come può. E lavorare nel manicomio, alla fine, era molto noioso.
Volkov: Gli infermieri vi tormentavano molto?
Brodskij: Provi ad immaginare: te ne stai sdraiato nel letto, stai leggendo, non so, Louis Buossenard, quando senza preavviso due infermieri ti prelevano dal tuo letto di forza, ti avvolgono in un lenzuolo e cominciano ad affondarti in una vasca. Quando ti tirano fuori non ti tolgono il lenzuolo, che, man mano che si asciuga, ti stringe sempre di più. Lo chiamano il rotolo. E devo dire che è veramente orribile. Veramente disgustoso… Si sbagliano di grosso i russi, quando pensano che il manicomio sia meglio del carcere. Sa come si dice, ―l’elemosina e la galera non si rifiutano mai, non è così? Era comunque un’altra epoca…
Volkov: Perché secondo lei i russi credono ancora che il manicomio sia meglio della prigione?
Brodskij: Da dove viene questa idea? Forse perché di solito si mangia meglio. Infatti, la sbobba del manicomio è migliore: a volte ti danno del pane bianco, del burro, anche della carne.
Volkov: Eppure lei insiste che il carcere è meglio.
Brodskij: Sì, perché in carcere almeno sai cosa ti aspetta, ci vai con una condanna e la sconti dall’inizio alla fine. Naturalmente ti possono anche infliggere un’altra condanna. Ma possono anche non farlo. E in fondo tu hai la certezza che prima o poi ti rilasceranno, no? Mentre in manicomio sei totalmente in balia dei medici.
Volkov: Capisco che non c’era da fidarsi di questi medici.
Brodskij: Credo che il livello della psichiatria in Russia, come quasi in tutto il mondo, del resto, sia estremamente basso. I rimedi usati sono molto approssimativi. Di fatto, queste persone non hanno alcuna idea di quello che avviene realmente nel cervello e nel sistema nervoso. Io, per esempio, so che un aereo vola, ma di come fa a volare ho un’idea piuttosto vaga. In psichiatria la situazione è più o meno la stessa. E così ti sottopongono a degli esperimenti mostruosi. È come aprire un orologio con un cuneo, non è così? Ti possono davvero mutilare irrimediabilmente. E in fin dei conti, cos’è comunque la prigione? È una mancanza di spazio, compensata da un eccesso di tempo. Niente di più.
Volkov: Vedo che in qualche modo si è adattato al carcere, ma non al manicomio.
Brodskij: Perché Il carcere, comunque, si riesce a sopportarlo. Non ti succede niente di così particolare, non sei obbligato a detestare nessuno, non ti fanno iniezioni. Naturalmente in carcere ti possono pestare sodo o sbatterti in uno šizo…
Volkov: Cos’è uno šizo?
Brodskij: Una cella d’isolamento! Ma in carcere è normale, no? Mentre in manicomio… Mi ricordo che appena ne ho varcato la soglia, la prima cosa che mi hanno detto è stata: ―Il primo segno di una buona salute è un sonno profondo. Io mi consideravo del tutto normale, ma non riuscivo a dormire! Proprio non riuscivo a dormire! Allora inizi a osservarti, a pensare a te stesso. E alla fine emergono dei complessi che non dovrebbero mai manifestarsi. Ma non importa …
Volkov: Mi racconti di Kresty. Credo che anche questo nome faccia parte del folclore di Pietroburgo-Leningrado, come la Grande Casa.
Brodskij: Dal punto di vista estetico Kresty è uno spettacolo formidabile. Non mi riferisco al cortile, che è abbastanza banale. E poi, l’avevo già visto quando lavoravo all’obitorio. Ma dall’interno è un’altra cosa! Perché questo carcere è stato costruito alla fine del XIX secolo. Non è proprio Art Nouveau, ma qualcosa di simile: tutte quelle gallerie, le molle, il fil di ferro…
Volkov: Come in Piranesi?
Brodskij: Un puro Piranesi! Assolutamente! Un Piranesi à la Russe. Addirittura, non tanto à la Russe, ma con una sfumatura germanica. Come la fabbrica Putilov, tutta in mattoni rossi, nell’insieme anche piacevole. Poi tutto è diventato meno interessante, perché mi hanno messo in una cella comune, ed eravamo in quattro. Ed è più complicato, perché entrano in gioco le relazioni umane. E una cella singola è sempre meglio.
Volkov: Come sono cambiate le sue emozioni dalla prima alla terza volta in carcere?
Brodskij: Beh, quando mi hanno portato a Kresty per la prima volta ero in preda al panico, stavo per avere una crisi isterica. Però mi pare di non aver lasciato trasparire la mia paura, non mi sono tradito. La seconda volta non ho provato particolari emozioni, ho soltanto riconosciuto dei luoghi familiari, ma la terza volta sono sprofondato nell’inerzia più assoluta. E comunque è l’arresto la cosa più penosa. Più precisamente, la procedura stessa dell’arresto, quando ti catturano e ti perquisiscono; perché non sei più libero ma non sei neppure in carcere. E credi di potertela ancora cavare. Poi quando ti ritrovi in prigione, tutto diventa irrilevante. In fin dei conti, è lo stesso sistema di quando sei in libertà.
Volkov: Cosa intende dire con questo?
Brodskij: Vede, una volta ho provato a spiegare ai miei compagni che la prigione non è una realtà tanto diversa da giustificare la paura. Vivere in silenzio, tenere la bocca chiusa, e tutto ciò solo per il timore di finire in prigione? Non c’era niente di particolare di cui aver paura, e forse noi non l’abbiamo conosciuta perché eravamo di un’altra generazione. Forse la nostra soglia di tolleranza era più bassa, chi lo sa?
Volkov: Vuol dire più alta?
Brodskij: Di solito, quando sei più giovane hai meno paura. Pensi che si possano sopportare più cose. Ed è per questo che l’idea di perdere la libertà non ti sconvolge.
Volkov: Quali erano i suoi rapporti con gli inquirenti?
Brodskij: Beh, ho semplicemente tenuto la bocca chiusa, ho rifiutato qualunque tipo di dialogo. Questo li ha fatti infuriare. Allora hanno cominciato a sbattere i pugni sul tavolo, a picchiarmi in faccia…
Volkov: La picchiavano veramente?
Brodskij: Sì, mi hanno picchiato. Tra l’altro, anche brutalmente, e più volte.
Volkov: Ma quello era un periodo, come amavano dire allora, relativamente vegetariano, non era previsto lo spargimento di sangue…
Brodskij: Che cosa importava se non era previsto.
Volkov: E non era possibile fare appello per le violenze subite durante l‘interrogatorio?
Brodskij: E come? Questo avveniva prima della fioritura del movimento per i diritti civili.
Volkov: Molti di noi, però, che non hanno assistito al processo Brodskij, ne sono venuti a conoscenza grazie al resoconto stenografico fatto in aula dalla giornalista Frida Vigdorova. Ne sono state diffuse moltissime copie in samizdat. Queste copie riferiscono con esattezza lo svolgimento processuale?
Brodskij: Sono accurate ma incomplete. Viene riportato solo un sesto del processo, perché la giornalista è stata cacciata dall’aula abbastanza presto, e gli episodi più importanti e drammatici sono venuti subito dopo.
Volkov: Io considero queste trascrizioni un documento eccezionale.
Brodskij: Lei forse le considera così, ma io no. Per non parlare del fatto che questo documento, da allora, è stato ristampato mille volte. Non è così interessante, Solomon, mi creda.
Volkov: Comunque, il fatto che sia stato pubblicato in tutto il mondo conferma la sua unicità. Tanto più che da allora è stato citato un numero incalcolabile di volte.
Brodskij: Ho avuto fortuna in tutti sensi. Altre persone hanno subito una sorte peggiore, e hanno dovuto sopportare delle condizioni più pesanti della mia.
Volkov: La particolarità di questo processo è che era un poeta a essere giudicato. In Russia, il poeta è una figura simbolica, soprattutto se di talento. E in quel momento, nessun altro poeta russo di pari talento aveva dovuto subire così tanto da parte delle autorità.
Brodskij: Beh, all’epoca non avevo alcun talento, almeno dal mio punto di vista. Forse dal punto di vista… del Signore Iddio, ma veramente non so…
Volkov: Anche se in Russia le sue poesie non venivano pubblicate, erano molto lette e apprezzate grazie all’ampia diffusione in samizdat. E ciò, in quel momento, era il massimo riconoscimento a cui si poteva aspirare. Il potere più o meno immaginava chi stava giudicando. Cosa vuole, non potevano certo farle il processo durante l’assegnazione del premio Nobel, no?
Brodskij: Poteva anche succedere!
Volkov: Il suo processo si è svolto in un momento storico molto importante per la Russia. A quel tempo molti speravano in una svolta libertaria… Chruščëv aveva permesso la pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovič di Solţenicyn. Si cominciavano a organizzare mostre e concerti di musica moderna. Ricordo bene quell’atmosfera carica d’attesa…
Brodskij: Beh, l’epoca di Chruščëv era quasi al tramonto. L’hanno silurato giusto nell’ottobre del 1964.
Volkov: Quando si rileggono i resoconti stenografici della Vigdorova, ci si accorge dell’ingenuità di queste speranze. Mi si rizzano i capelli in testa quando li rileggo.
Brodskij: Non ne vale la pena…
Volkov: Perché vedi con i tuoi occhi come la macchina dello stato, avanzando, schiacci tutto quello che è indipendente, creativo, libertario, proprio come un bulldozer.
Brodskij: Vede, per me era chiaro fin dall’inizio che erano loro i padroni, e che per questo si sentivano in diritto di calpestarci. Diventi un corpo estraneo, e allora contro di te si scatenano automaticamente le normali reazioni fisiche: isolamento, compressione, espulsione. In tutto ciò non c’è niente di straordinario.
Volkov: Lei oggi, col senno di poi, è così pacato nei suoi giudizi! Ma in questo modo, mi scusi, banalizza un avvenimento significativo e drammatico. Perché?
Brodskij: Guardi che io non sto inventando niente! Mi esprimo così perché è quello che penso! E anche allora pensavo la stessa cosa. Mi rifiuto di drammatizzare quella situazione!
Volkov: Capisco che fa parte della sua visione estetica. Ma anche lo stenogramma della Vigdorova, nel suo insieme, non drammatizza la situazione, non ne amplifica gli effetti. Eppure impressiona. Nonostante che, come dice lei, la parte più drammatica del processo non sia stata inserita in quella trascrizione.
Brodskij: A mio parere, la drammatizza.
Volkov: La cosa per me più spaventosa di queste note è la reazione del pubblico, della cosiddetta gente comune.
Brodskij: Come sa, l’aula era per metà costituita dagli agenti del KGB e dalla polizia. Non ho mai visto tante uniformi, neanche ai telegiornali sul processo di Norimberga. Mancavano solo i caschi! Anche il mio processo è stato, per inciso, un bel film! Una commedia! E questa commedia è stata molto più divertente di quello che ha descritto la Vigdorova. La cosa più buffa era che dietro di me stavano seduti due tenenti, e che a intervalli di un minuto, o poco di più, mi dicevano alternandosi: ―Brodskij si sieda bene!, ―Brodskij stia diritto!, ―Brodskij, si sieda normalmente!, ―Brodskij si sieda composto!. Me lo ricordo molto bene: questo cognome Brodskij dopo averlo sentito pronunciare così tante volte dalle guardie, dal giudice, dal giurato, dall’avvocato e dai testimoni, non aveva più alcun senso per me. Sa, è un po’ come nel buddismo Zen: se si ripete un nome, il nome scompare. Questa idea ha anche una sua applicazione pratica. Se tu, ad esempio, vuoi sbarazzarti di George Washington, devi ripetere: George Washington, George Washington, George Washington… la diciassettesima volta, per me anche la prima, quel nome ti diventa estraneo, e il solo pensiero di George Washington diventa completamente assurdo. Anche il processo si è rapidamente trasformato per me in una completa assurdità. L’unica cosa che in quel momento mi aveva colpito, mi ricordo, era la deposizione dei testimoni della difesa: Admoni ed Etkind. Perché dicevano delle cose positive sul mio conto. E devo dire che nella mia vita, di cose buone sul mio conto, non ne ho mai sentite. E quindi ero anche un po’ commosso. Ma per il resto era davvero uno zoo al completo. E mi creda, non mi ha fatto nessuna impressione. Assolutamente nessuna!
Volkov: Sempre a proposito del processo, vorrei chiederle una cosa. Al tribunale hanno nominato il suo diario giovanile in cui, si supponeva, lei avesse diffamato Marx e Lenin. Ha tenuto un suo diario in Russia?
Brodskij: No, perché avrei dovuto? Chi è quella persona che in Russia può permettersi di tenere un diario? Da ragazzo, quando avevo quattordici o quindici anni, ho provato a tenerne uno, in cui annotavo i miei commenti sul regime sovietico, che mi sembravano spiritosi. Niente di più. Ora si trova tutto negli archivi del KGB, e non c’era nessun altro diario.
Volkov: E qui in Occidente, non ha mai provato a tenere un diario?
Brodskij: Sa, Solomon, ci ho provato, e anche abbastanza di recente. Ma ho deciso che se lo dovevo fare, allora doveva essere alla maniera di un imperatore, e in inglese. Cioè, come l’ha fatto Nikolaša. E ho cominciato persino a buttar giù dei pensieri. Ma comunque no, alla fine io non tengo alcun diario. Beh, non c’è tempo, né la pace necessaria. Per scrivere un diario ci vorrebbe una vita à la Lev Tolstoj, non è d’accordo?
Volkov: Vivere a Jasnaja Poljana?
Brodskij: Sì, nella sua villa gentilizia. Dove la vita scorre misurata. Per tenere un diario occorre una vita regolare, stabile. E io non l’ho mai avuta.
[Immagine: Iosif Brodskij.]
Egregi Signori,
Vi chiedo cortesemente di correggere il nome d’autore del libro “Dialoghi con Iosif Brodskij”
che è SOLOMON VOLKOV
e poi potete cancellare il mio commento
Grazie