a cura di Massimo Raffaeli e Cristina Babino

 

[E’ appena uscito per Affinità Elettive Dico piano il tuo nome. Voci per Francesco Scarabicchi (a cura di Massimo Raffaeli e Cristina Babino), un volume che raccoglie scritti e testimonianze di amici e amiche del poeta di Ancona scomparso nel 2021. Il volume, promosso dal Centro Studi Francesco Scarabicchi, sarà presentato sabato 24 maggio presso la Sala Consiliare del Comune di Ancona.

Anticipiamo gli scritti di Massimo Gezzi e Angelo Ferracuti]

 

Massimo Gezzi

 

Lo sguardo di Francesco

 

Nel mio studio di Lugano c’è una foto, appesa al muro. L’ha scattata mia moglie Daniela nel 2009, a Jesi, in occasione di una presentazione di Cristi polverizzati di Luigi Di Ruscio. Che infatti è in prima fila, mentre ai lati o dietro ci sono Massimo Raffaeli, Massimo Canalini, Valentina Conti, Linnio Accorroni, Adelelmo Ruggieri, io. E Francesco Scarabicchi, sorridente e sereno, proprio al centro. Lui forse non l’ha mai saputo, ma tutti i giorni, da quando abito in questa casa, incrocio il suo sguardo e lo saluto, specialmente da quando non c’è più.

Francesco mi era molto caro. Lo conobbi quando io avevo vent’anni e lui i capelli ancora neri, in un incontro del Laboratorio di poesia tenuto da Antonio Santori. Mi aveva colpito, sin da subito, lo strano connubio di pacatezza e forza che le sue parole e la sua persona trasmettevano a chi lo ascoltava, nella sua dizione pulita ed essenziale. Negli anni imparai ad apprezzarne anche l’ironia, l’intelligenza acuta, la disponibilità ad ascoltare i più giovani, tratto che lo distingueva da molti altri poeti arroccati su sé stessi, quasi che la loro opera dovesse risultare immediatamente a tutti la cosa più importante del mondo. Ecco, Francesco non era così: scriveva, porgeva la sua poesia con la stessa discrezione e fermezza di chi difende qualcosa di vitale («Porto in salvo dal freddo le parole»), credeva nell’amicizia, nel dialogo, nell’incontro, nella grazia dell’arte. La sua scrittura, che ruota attorno a pochi temi essenziali, quasi impressi a fuoco nella sua immaginazione (il buio, la luce, la neve, la città, la memoria del passato e dei morti, l’amore in tutte le sue declinazioni), ci resta come un densissimo precipitato di senso, come il nocciolo di un frutto che ha perso l’inessenziale per conservare ciò che invece può e deve durare.

 

A volte, rileggendo le fulminee poesie del Prato bianco, mi sorprendo a guardare il mio mondo quotidiano con i suoi occhi: non parlo del paesaggio marchigiano o del mare, che nei suoi testi è quello di Ancona – nominata pochissimo in modo diretto – oppure quello di Grottammare e di Ortona, «luoghi dell’infanzia immortale e innocenza dell’azzurro»; parlo piuttosto del mondo in cui vivo da dieci anni, il Ticino e Lugano, che Francesco ha conosciuto per il tramite di Fabio Pusterla, suo amico fraterno. Una poesia del Prato bianco si intitola per esempio In Viale Castagnola: Francesco scrive di averci visto «l’alto Monte del lago, / le luci farsi sera / sulla pulita / dinastia di strade / lucide come in sogno». Quando percorro quella strada di Lugano o la nomino, questa poesia mi ritorna spesso in mente: è come se quelle parole, da un lato così esatte da farsi indicazione toponomastica, dall’altro quasi assolute (monte, lago, luci, sera, strade), siano state capaci di estrarre il tempo da quel luogo, di renderlo per così dire acronico. La stessa sensazione trasmette la suite Albogasio, composta da nove brevissimi flash, quasi degli haiku: è lì, in una bellissima casa che si affaccia dall’alto sul lago di Lugano, che abitano Fabio Pusterla e Claudia Patocchi, ed è da lì che lo sguardo di Francesco ha percorso il paesaggio di acqua, boschi e paesi che si snoda tra Svizzera e Italia: San Mamete e Oria, paesi della Valsolda, vengono anch’essi nominati esplicitamente, nella loro dimensione feriale e quotidiana («l’abbaiare dei cani a San Mamete»), ma «i lumi sull’altra sponda», «l’alba del lago», «la bambina [che] compare sulla soglia» (rari i nomi propri di persona, nella poesia di Francesco) assolutizzano quegli scorci, li trasformano in un quadro, in una foto insieme severa e suggestiva: li portano in salvo.

È per questo che nella mia casa di Lugano Francesco Scarabicchi guarda ancora il lago, il monte, le luci che si fanno sera e lontananza. Mi sembra, con il conforto del suo sguardo, che le cose di ogni giorno resistano alla frenesia e all’insensatezza; e che quelle del passato siano ancora qui, come il suo sorriso e la sua poesia.

 

*

 

Angelo Ferracuti

 

Francesco, per sempre

 

Delle persone che abbiamo conosciuto, incontrato e frequentato per anni, restano alla fine solo poche cose memorabili. Quando si tratta di un poeta rimangono naturalmente e prima di tutto i versi, i libri che abbiamo letto e possiamo rileggere, i quali non cambiano nel tempo. Dopo muta semmai la nostra percezione di lettori, l’attraversarli con gli occhi, sentirne la voce. Quelli di Francesco sono versi cristallini di un poeta della vita, della “geografia dell’esistenza”, il solfeggio esatto di ciò che resta dei giorni, dei luoghi, degli oggetti della nostra esperienza terrena: gli attimi, le epifanie, quelle illuminazioni che improvvisamente ci riempiono di meraviglia. Ma ci sono dei versi che mi legano a Francesco da una comune esperienza, nati miracolosamente dentro un incontro, ed è il ricordo più struggente di lui, quello che resterà per sempre in me il più vivo.

 

Eravamo nel febbraio del 1999 e da un mese era uscito da Guanda il mio romanzo a cornice Attenti al cane, stavo vivendo un bel momento – innanzitutto perché ero già un giovane padre di due bambine – e Massimo Raffaeli venne a presentarlo a Fermo, c’era anche sua moglie Grazia, Francesco volle accompagnarlo, non mi pare che Liana ci fosse anche lei. Era il primo libro che pubblicavo con un grande editore e lui voleva esserci, sostenermi, così mi disse prima o dopo l’incontro, con quei suoi modi molto affettuosi: ti abbracciava, ti baciava sempre quando nel rivedersi sembrava fossero passati vent’anni dall’ultima volta. Non ricordo praticamente niente di quella presentazione, ma posso immaginare l’impeccabile discorso di Massimo, la sua seriosa cadenza e il lessico coltissimo, così come il mio imbarazzo, ma non è di questo che voglio parlarvi. Il momento più bello delle mostre, delle presentazioni di libri, è quello che Mario Dondero, amico di tutti noi, descrisse a un intervistatore come il “momento trattoria”, quello conviviale, quando finita la recita gli amici si raccolgono intorno a un tavolo, mangiano e bevono insieme raccontandosi principalmente storie, aneddoti, e ricordando i bei momenti vissuti insieme. Così all’ora di cena, dopo le chiacchiere letterarie, ci incamminammo sulla strada che da Piazza del Popolo porta in cima al parco del Girfalco, dove fino a qualche anno fa si trovava l’albergo-ristorante “La casina delle rose”, una vera istituzione della fermanità. Non c’erano molti clienti quella sera, ricordo il nostro tavolo e la signora Duilia che aveva già annunciato le sue tagliatelle al ragù, prima forse avevamo mangiato le olive e le creme fritte, e sicuramente bevuto abbondantemente del vino sfuso della casa. Andammo avanti almeno per un paio d’ore, avevo accanto a me Massimo e Francesco come due angeli custodi, sull’altro lato del tavolo sedevano Patrizia e Grazia, e dopo il secondo con molte probabilità poteva essere arrivata dalla cucina una favolosa zuppa inglese, e anche il vino di visciole. Insomma, avevamo mangiato e anche bevuto molto, s’era fatto tardi, era il momento di andare. Infilammo a malincuore i paltò, i giacconi, e quando aprimmo il portone il bianco di ogni cosa intorno ci incantò. In quelle due ore era caduta giù così tanta neve che aveva ricoperto tutto. Nessuno prima di sedersi a tavola si aspettava una nevicata così copiosa, mentre stavamo mangiando non potevamo immaginare che fuori stesse fioccando neve dal cielo come in quel momento, e dopo eravamo tutti euforici, sia per l’alcol che per la neve, allegri gridavamo al miracolo di tutto quel bianco accecante. Anche il parco intorno era ricoperto da un manto soffice e lucente, così come le automobili incappucciate, la strada, le scale da dove stavamo scendendo cautamente lasciando le nostre impronte mentre continuava a fioccare ininterrottamente.

 

Attraversare la discesa di via Mazzini fu davvero qualcosa di esilarante, a turno uno di noi scivolava, cadendo in terra e spostandosi poi di qualche metro con il sedere, cadde anche Francesco, e io di sicuro più di una volta, presi la scusa delle scarpe inadatte ma probabilmente perdevo facilmente l’equilibrio per via delle troppe bevute, mi rialzavo e cadevo di nuovo. Prendendoci sottobraccio arrivammo alla fine all’altezza di Piazza del Popolo, poi alla Strada Nuova dove avevamo parcheggiato le automobili. Loro dovevano tornare ad Ancona e il giorno dopo seppi da Massimo che il viaggio del ritorno era stato una specie di via crucis autostradale, andavano a passo d’uomo in certi tratti e per via della molta neve che si era addensata sull’asfalto arrivarono a casa dopo tre ore nel cuore della notte.

 

Un mese dopo ricevetti una lettera, allora avevamo tutti ancora una intensa attività epistolare, guardai il mittente: Francesco Scarabicchi. Capitava che scrivesse un biglietto ogni tanto con un pensiero o inviasse una plaquette con dedica. Invece nella busta c’erano piccoli foglietti con alcune poesie che mi aveva dedicato, frutto di quel momento indimenticabile che avevamo vissuto insieme. Il titolo, che poi diventò anche quello di una sua raccolta, per me tra le più belle, era per l’appunto L’esperienza della neve, in quel momento ero il suo primo lettore, o uno dei primi. Mi capita di rileggerle quelle poesie, di pensare a lui e a quale regalo immenso mi fece quel giorno, e che regalo invece ci fece la vita quando uscimmo da quel ristorante e vedemmo la neve in maniera così intensa come fosse davvero la prima volta. Trovo quei versi perfetti, miracolosi come quelli dei rari poeti veri, necessari: «Cade / a nostra insaputa, / senza tempo, / la bianca eternità / che poi scompare», e ogni volta che li rileggo mi commuovo.

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