di Gilda Policastro
Esuli, rubrica a cura di Gilda Policastro
Giuseppe Policastro è un fisico teorico specializzato nella teoria delle stringhe. Non è un caso di omonimia: Giuseppe Policastro è mio fratello. Certo, non è usuale un’intervista tra consanguinei, ma mio fratello, in realtà, come nella nota canzone, è figlio unico. Vive fuori dall’Italia da quando aveva poco più di vent’anni, da quando cioè, dopo la laurea alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha conseguito un dottorato a New York, arrivando a trascorrere poi grazie alle borse di post-dottorato lunghi periodi a Cambridge e a Monaco. Dal 2006 si è stabilito a Parigi, dove insegna ormai stabilmente all’École Normale Supérieure. Giuseppe, tra l’altro, è sempre stato un gran lettore: la leggenda familiare vuole che abbia imparato a leggere da solo, combinando le lettere del «Topolino». Tra gli altri episodi che si tramandano in famiglia c’è la volta in cui ancora bambino tentò di spiegare alla tata la rivoluzione copernicana. Poi il test d’ingresso in Normale, con la mamma ad accompagnarlo e gli occhiali rotti («non ti prenderanno mai, saranno tutti raccomandati»), il periodo americano con gli attentati alle Twin Towers a pochi metri dall’NYU dove studiava (riuscì a mettersi in contatto con noi dopo il crollo della prima, ma le linee telefoniche rimasero inaccessibili per le successive 48 ore, tanto che per noi l’11 settembre è rimasto innanzitutto un grande shock familiare), infine la vita a Parigi, ancora nel tempo degli attentati (e, per fortuna, di WhatsApp e della benemerita doppia spunta). Di poche parole, scarsamente social, lettore forte (parla con rammarico dei pochi libri che riesce a leggere al mese, ignorando le sconfortanti medie italiane). Di noi fratelli è stato l’unico cui non sia stato imposto il piano da piccolo (forse in ragione della miopia precoce): ha poi preso a suonarlo da adulto e adesso è il pianista di un gruppo di tango. L’idea di intervistarlo mi viene proprio tornando da Pisa, la città in cui ha studiato (come l’altro fratello, ingegnere), dove ho appena partecipato a un convegno su “Letteratura e Scienza”.
C’è chi ritiene che la fisica teorica (affine in questo alla matematica) sia molto vicina alla poesia, dal momento che entrambe nascono da astrazione, dall’intuizione o da un principio “creativo” più che dall’osservazione o dalla registrazione dei dati di realtà. Tu cosa ne pensi?
Penso che la matematica e la fisica teorica si possano considerare sotto questo aspetto abbastanza simili. La fisica in generale si ripropone di spiegare la natura e i fenomeni osservabili, però in fisica teorica il punto di vista è un altro: abbiamo visto che a volte occorre mettersi un po’ più da lontano rispetto al fenomeno singolo che vogliamo spiegare e cercare di fare delle ipotesi, delle astrazioni su come potrebbe essere la natura se le leggi fossero diverse, quindi non ci occupiamo solo della natura così com’è, ma anche di possibili variazioni sul tema, di teorie alternative che usiamo come modelli perché sono più accessibili. “Matematicamente” possiamo capire meglio cosa succede e così possiamo avvicinarci di più alla natura, ma aggirando l’ostacolo. La matematica, a sua volta, può essere vista in due modi diversi: ci sono quelli che pensano sia invenzione pura dell’uomo e quelli che invece pensano che facendo matematica stiamo scoprendo delle cose che esistono indipendentemente dall’uomo, dunque che esista una matematica assoluta e che noi semplicemente la scopriamo.
Tu di quale corrente sei?
Io penso che scopriamo alcune cose, altre probabilmente le inventiamo, ma questa invenzione non è arbitraria. Se una stessa civiltà partendo da zero dovesse ricostruire la matematica al 90% sarebbe come la nostra. I fisici in generale tendono a pensarla come me, essendo abituati a usarla per le loro applicazioni: non la matematica nel suo aspetto più puro e astratto, quindi, ma come strumento. Spesso le cose che i matematici hanno inventato per diletto o per i loro motivi, sorprendentemente trovano applicazioni in fisica. Ad esempio gli spazi di Hilbert, inventati nell’Ottocento, hanno trovato applicazione nella meccanica quantistica all’inizio del Novecento, come se ci fossero già gli strumenti preparati per essere usati, che era esattamente quello di cui i fisici avevano bisogno. Per questo ci risulta difficile pensare che sia inventata dal nulla: ci sarebbero altrimenti troppe coincidenze che non potremmo spiegare. Un altro esempio è la teoria degli spazi non euclidei che è stata poi usata da Einstein per la relatività generale.
Da quel che dici mi sembra che si possa parlare, esattamente come per la letteratura, di una specie di tradizione della scienza: nessuno inventa nulla ma ci si muove sempre nel solco di saperi già in qualche modo esplorati. Mi viene in mente con un’associazione forse un po’ arbitraria la domanda che si è solito porsi sull’innovazione tecnologica: se risponda a bisogni già presenti nella natura umana o se invece sia questa, piuttosto, a formarsi (ed evolversi) in base alle innovazioni.
Per quanto riguarda la tradizione sì, certo, esiste e direi anzi che qualunque fisico o matematico prima di cominciare la propria ricerca impiega circa una decina d’anni, fra università e dottorato, proprio per apprendere la tradizione. È giocoforza a quel punto inserirsi in questa tradizione, ed è impensabile pensare di cominciare da zero, anche se talvolta qualcuno lo fa. Qualche anno fa, ad esempio, c’è stato il caso clamoroso di un matematico giapponese, Shinichi Mochizuki, che ha affermato di aver dimostrato una congettura rimasta aperta per vari decenni, la cosiddetta “congettura abc”, nell’ambito della teoria dei numeri. Sostenne di averla dimostrata in una serie di articoli che sembravano porsi del tutto al di fuori della tradizione, come se avesse inventato una propria disciplina da zero. Questo ha creato un problema perché non c’è nessun altro in grado di confermare o smentire quello che dice, al contempo qualcuno dovrebbe mettersi a studiare quello che lui ha studiato, con un vantaggio, certo, per la collettività che saprebbe finalmente se ha ragione o no, ma per il singolo comporterebbe un rischio troppo oneroso, spendere cinque dieci anni per arrivare a un nulla di fatto. In fisica non mi vengono in mente esempi altrettanto clamorosi, ci sono naturalmente innovazioni radicali ma ogni nuova teoria ha sempre l’onere di riprodurre i risultati già confermati dagli esperimenti, quindi siamo più limitati. Sia nelle scienze pure che nella tecnologia mi pare esserci un flusso ininterrotto di esigenze che vengono soddisfatte ma a loro volta ne creano delle altre. Ogni volta che risolviamo un problema, ci accorgiamo che la risposta solleva nuove domande.
Tu come hai scelto il tuo campo d’indagine?
Già prima dell’Università, attraverso letture divulgative, dai libri di Stephen Hawking agli articoli de «Le scienze», avevo capito che il mio ambito sarebbe stato quello che riguarda le leggi delle particelle elementari e la struttura dell’universo su grande scala. All’inizio era un’idea vaga che si è andata precisando col tempo: all’altezza della mia tesi di laurea appresi che le stringhe erano considerate la teoria fondamentale. Lo è tutt’ora, ma c’è una certa fatica, dopo vari decenni in cui abbiamo studiato le stringhe non siamo ancora riusciti non dico a provare questa teoria, ma da un certo punto di vista ci siamo accorti col tempo che era molto più lontana di quanto si pensasse dall’obiettivo. Che era quello di capire se questa teoria effettivamente descrive la natura e precisamente il numero e il tipo di particelle elementari che osserviamo.
Come si può, ammesso che si possa, sintetizzare la teoria delle stringhe per i profani?
La teoria delle particelle elementari è stata formalizzata e finalizzata entro la fine degli anni Settanta, la teoria per così dire completa, che descrive tutti i fenomeni che hanno a che fare con le forze elettromagnetiche, le forze nucleari, quindi tutte le forze che conosciamo a parte la gravitazione. La gravitazione rimane al di fuori di questo schema e uno dei grandi problemi è quello di unificarla, cioè capire come mettere insieme la gravità con le altre forze. Abbiamo due descrizioni che non stanno bene insieme, anzi, sono incompatibili l’una con l’altra. La teoria delle stringe opera questa unificazione in modo abbastanza naturale, postulando che le unità fondamentali non siano particelle puntiformi, ma stringhe, quindi oggetti estesi che hanno una dimensione minima. Il fatto che ci sia questa dimensione minima risolve molti problemi tecnici della gravità. Quello che non fa la stringa è dire precisamente quali sono le particelle. Ci sono varie versioni di teoria delle stringhe: il problema è quello di capire se tra tutte queste versioni che esistono ce n’è una che effettivamente corrisponde alla realtà oppure no. Ad esempio l’esistenza del fotone, dell’elettrone, tutta la tabella delle particelle elementari che conosciamo, con le loro masse e le rispettive proprietà: una teoria che descrive la natura deve riprodurre tutte queste caratteristiche esattamente, altrimenti non è la teoria giusta. Il problema è che con le stringhe siamo in grado di produrre delle approssimazioni, ma non sappiamo come fare a produrre esattamente la teoria corretta e non è che possiamo andare per enumerazione perché ci sono troppe possibilità, qualcuno le ha contate: sono 10 alla 500, un numero sconfinato di possibilità, anche con un computer potentissimo ci vorrebbe più dell’età dell’universo per analizzarle tutte.
Quando dici noi, rimandi a un contesto collettivo: la ricerca scientifica sembra svolgersi comunque in équipe, ma poi perché allora il più importante riconoscimento, il Nobel, ad esempio, viene dato a uno solo?
In questo momento c’è una proliferazione di premi (a parte il Nobel che è il più conosciuto) e una tendenza negli ultimi anni a moltiplicarne il numero e a distribuire finanziamenti sulla base di progetti dando enfasi alle singole personalità e negando così il carattere collettivo della scienza: anche le punte non riuscirebbero a fare quello che fanno senza il lavoro preliminare di tanti che spesso restano nell’oscurità. Un problema che viviamo quotidianamente, perché quotidianamente dobbiamo fare progetti di ricerca. A volte è un po’ una farsa: la battuta che circola è che chiedi i finanziamenti su un risultato che hai già ottenuto perché quello che invece vorresti studiare è troppo incerto per scriverlo nel progetto. Il Nobel non viene attribuito a una persona ma a tre, limite che oggi è anacronistico, ad esempio il bosone di Higgs è un esperimento costato milioni di euro che ha coinvolto migliaia di persone ed è riduttivo attribuirne la scoperta al solo responsabile dell’équipe. Questo è tanto più vero in fisica sperimentale, dove si lavora in grandi équipe, mentre in fisica teorica le collaborazioni sono più piccole, gli articoli sono scritti mediamente da quattro o cinque autori, possono arrivare a dieci, ma è raro. Anche in questo caso però il progresso viene fuori in modo collettivo, ci sono delle idee che maturano, a cui varie persone danno un contributo, e se c’è qualcuno che a un certo punto riesce ad avere l’idea giusta per andare un po’ più avanti, è comunque un po’ ingiusto attribuirgli tutto il merito.
Come funzionano le pubblicazioni nel tuo campo? Sono legate all’accademia?
L’articolo si pubblica online, prima di mandarlo alla rivista. Un tempo non veniva considerato degno di nota un articolo che non fosse stato pubblicato da una rivista prestigiosa. Le riviste più prestigiose erano una decina, ma oggi si tende ad allontanarsi da quelle a pagamento. Ci sono due editori per la scienza in Europa, Springer e Elzevier, ma siccome il lavoro di ricerca e anche quello di editing e di referee viene affidato agli scienziati, tendono ad approfittarsi della situazione, così ora si vanno diffondendo riviste no profit, come ad esempio il «Journal of High Energy Physics», gestito direttamente dagli scienziati senza mediazione editoriale, a dimostrazione del fatto che è possibile (specie con l’editoria digitale) fare riviste senza grandi costi. Quelle più prestigiose legate alla grande editoria stanno un po’ calando, le biblioteche non hanno più grandi fondi per comprare riviste o fare abbonamenti. Si trattava di un’editoria per lo più legata all’università e alle carriere, certamente, con peer review obbligatoria.
Tu sei a favore della divulgazione? In ambito umanistico c’è chi guarda con favore alla divulgazione, e chi invece la ritiene un abbassamento delle conoscenze che avviene in modo un po’ ingannevole, e certamente non così democratico come si dichiara, perché il sapere costa fatica e non prevede scorciatoie. Lo stesso vale per la contrapposizione tra midcult e letteratura di qualità. Stavolta uso io una battuta che circola nel mio campo: chi legge Elena Ferrante può arrivare a Proust?
Come dicevo prima, nel periodo della formazione ho letto articoli divulgativi senza i quali forse non mi sarei avvicinato alla scienza in questo modo. Penso perciò che abbiano una funzione. Al tempo stesso, non è che capissi tutto quello che leggevo: però mi hanno dato il gusto, la curiosità, quindi se scrivi un libro divulgativo e anche una persona su mille ne trae qualche profitto, è già qualcosa. Non credo sia realistico aspettarsi che tutti facciano il salto, però perché privare di questa possibilità quella piccola percentuale di persone che potrebbero arrivarci? Credo al contempo che nelle scienze sia diverso. Nessuno fa confusione tra divulgazione e letteratura scientifica, è chiaro a tutti che c’è una distinzione. Quando leggevo «Le scienze», che è comunque divulgazione di ottimo livello, non avevo termini di confronto, non avevo nessuna idea di cosa fosse la vera scienza. Quello è venuto dopo. Trovo invece curioso che in altre discipline, ad esempio nella musica, compositori come Beethoven e Šostakóvič, ai loro tempi considerati rivoluzionari e incomprensibili per il loro pubblico, siano poi diventati più accessibili, direi quasi pop. Nella scienza non accade, perché anche se la scienza ha fatto grandi progressi la comprensione del mondo dell’uomo medio è rimasta classica, aristotelica, in certi casi, e persino l’intuizione di Galileo non è sempre compresa da chi non ha fatto studi scientifici, senza parlare di Einstein o della meccanica quantistica. Per questo mi pare assurdo fare divulgazione sugli ultimi temi spinti della ricerca attuale quando bisognerebbe fare divulgazione su cose molto più basilari: questo sì, sarebbe utile. Quando è stata scoperta la meccanica quantistica, negli anni ’20-’30, qualcuno scrisse che solo dieci persone al mondo avrebbero potuto capirla: oggi, dopo quasi un secolo, dovrebbe essere possibile spiegarla in modo semplificato. Mentre invece i libri di divulgazione scientifica che hanno avuto più successo sono stati i libri come L’universo elegante di Brian Greene che cercava di spiegare la teoria delle stringhe andando però troppo avanti, mentre bisognerebbe fare maggiori sforzi per spiegare questioni più basilari.
Una delle questioni affrontate in questa rubrica dedicata agli “esuli” è quella della carriera. Avresti potuto proseguire gli studi nel tuo campo di ricerca in Italia?
Le possibilità erano poche, il numero di posti era molto limitato in quel momento, forse negli ultimi anni ci sono state delle aperture maggiori. Avendo fatto la Normale sarei partito avvantaggiato, ma in realtà non so bene cosa sarebbe accaduto, perché ho fatto subito la scelta di staccarmi dall’ambiente italiano, andando negli Stati Uniti e facendo il dottorato lì (anche se formalmente era un dottorato della Normale): dopo non sono mai più tornato indietro. Prima di vincere il concorso a Parigi, in Italia ne ho provato uno soltanto: non posso dire di non essere in Italia perché non c’era posto per me, visto che non ci ho mai seriamente provato. Ci sono però molte persone nella mia situazione che avrebbero voluto tornare ma non ne hanno avuto la possibilità. Negli ultimi cinque anni sono entrati ricercatori validi di livello internazionale, cosa che non accadeva in passato, quando chi era rimasto sul posto col suo professore veniva giudicato più favorevolmente rispetto a chi si formava all’estero. Non saprei dire cosa sia cambiato, forse un rinnovamento generazionale, ma quello che ho visto negli ultimi reclutamenti è piuttosto diverso da quello che succedeva quando ho studiato io, per fortuna.
La vita dell’esule come la vivi? Mi interessa soprattutto il discorso della lingua. A te piace leggere: come riesci a conciliare questa passione con l’obbligo di farlo in una lingua non tua? Ricordo la volta in cui per motivi contingenti ti trovasti a leggere parte della Recherche in inglese…
Il fatto di aver vissuto in molti paesi (Stati Uniti, Canada, Germania, Inghilterra e ora Francia) parlando lingue diverse, penso mi abbia dato una maggior duttilità, così come per la cucina. Ricordo che quando sono arrivato negli Stati Uniti c’erano dei piatti che mi sembravano immangiabili, direi eretici, tipo la pizza con l’ananas, ma dopo un po’ mi ero adattato diventando più flessibile. Così anche per la lingua. Si fa fatica a parlare una lingua che non sia quella materna, all’inizio devi pensare a ogni frase, come dirla, e questo comporta uno stress in più nelle relazioni. Quand’ero negli Stati Uniti cercavo di evitare il più possibile il telefono perché telefonare a qualcuno e parlare in inglese era estremamente difficile, non riuscivo a capire cosa stesse dicendo. Solo dopo un paio d’anni mi sono sentito abbastanza a mio agio, tanto da arrivare a telefonare. Mentre sognare in un’altra lingua, a differenza di quel che si dice, succede abbastanza presto, non è indice di una particolare padronanza: dipende solo dal fatto che sei totalmente immerso in un’altra realtà.
Ma se si creassero le condizioni giuste, torneresti? L’allarme terroristico che hai vissuto in pieno sia quand’eri a New York che a Parigi, ad esempio, non ti ha mai indotto a pensare quasi quasi me ne torno in Italia?
Non credo che tornerei, anche perché la Francia è l’unico paese in cui è possibile fare ricerca (che nel mio campo è essenziale) senza molto carico didattico, ed è una situazione abbastanza privilegiata, che non si dà in nessun altro paese (meno che mai in Italia). Quanto agli attentati, ci sono stati ovunque, non credo possa essere un criterio di scelta. Certo, li ricordo con un sentimento contrastante: dopo l’attentato di New York c’era in giro un’atmosfera di grande raccoglimento, più che di rabbia, nelle persone comuni. Si cercava un senso comunitario, se non si pensava all’evento che l’aveva scatenato poteva essere anche bello. A Parigi è stato molto diverso, più che altro per il fatto che abbiano sparato sulla folla nei bar e nei ristoranti, in posti che quasi tutti noi, io e i miei amici, frequentavamo: ti faceva davvero pensare che avresti potuto esserci anche tu, mentre le Twin Towers le vedevi da lontano. A qualche giorno dall’attentato ero con degli amici in un bar e quando abbiamo sentito un rumore sospetto ci siamo subito nascosti sotto i tavoli. Poi c’era il discorso ufficiale del “non diamola vinta ai terroristi, siamo più forti noi”, che a me è sempre suonato piuttosto falso. È vero anche che poi per necessità la vita continuava, come a New York non era stato invece più possibile: lo scenario fisico era cambiato, banalmente non potevi più prendere la metropolitana lì, perché non c’era più la stazione. A Parigi da questo punto di vista l’evento è stato più circoscritto e isolato.
Tornando alla lingua, adesso come scegli i libri da leggere? Ne leggi sempre tanti? In Francia cosa si legge, stando alla tua percezione?
Purtroppo non leggo più tanto, riesco a leggere mediamente un paio di libri al mese, al di fuori delle materie di studio. Leggo in modo abbastanza random, in realtà. Libri consigliati da qualcuno di cui mi fido o un libro di cui ho letto una recensione che mi ha incuriosito, non necessariamente su giornali o supplementi culturali, magari anche su blog che non sono propriamente letterari, ma hanno dei riferimenti, a volte vado semplicemente in libreria: ne ho una a due passi dal lavoro, di solito non chiedo, percorro gli scaffali e vedo cosa mi ispira. È una libreria indipendente, ha cose disparate. Di italiani ne vedo pochi, a parte i classici. La più letta è in effetti Elena Ferrante, si trova dappertutto. Non mi pare che si leggano molti italiani, finanche Calvino, Pasolini, almeno nel mio ambito che non è quello letterario, sono in pochi ad averne sentito parlare. In metropolitana vedo molta gente leggere gialli: c’è Guillaume Musso, che credo sia bassa letteratura ma non l’ho letto, e Fred Vargas, lo pseudonimo di una ricercatrice di storia del CNRS. Di suoi ne ho letti alcuni, due o tre: sono divertenti, ma nemmeno questa è alta letteratura, certamente.
Ci sono romanzi ambientati nel mondo della fisica?
Ce ne sono, ma abbastanza deludenti. Ne ho letti due di Alain Connes, che è un matematico famoso, medaglia Fields: ha scritto due romanzi ambientato al CERN, a distanza di dieci anni l’uno dall’altro. Nel primo c’era un’idea interessante: una ricercatrice faceva sostituire il proprio cervello con un cervello artificiale, un computer quantistico. La fisica restava un pretesto, riguardava la protagonista, piuttosto eccentrica, e non il nucleo della storia, dunque più l’aspetto sociale o sociologico del mondo della scienza che l’aspetto scientifico. Nel secondo ha cercato di mettere in forma romanzata delle sue idee sui rapporti tra matematica, musica e letteratura, a parer mio con esito dubbio.
E tu? Ce l’hai un romanzo nel cassetto?
No.
Esuli, rubrica a cura di Gilda Policastro
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[Immagine: © Matteo Galvano, Petronas Twin Towers, 2014].
Intervista decisamente interessante e godibile, è evidente la sua sincerità. E questo paga sempre.
Un’intervista bellissima, condotta in modo magistrale, vorresti sapere molto di più su questo fratello meraviglioso che ha Gilda, senti sempre sottotraccia la vicinanza tra i due ma il legame affettivo non altera l’oggettività dell’intervista, è un valore aggiunto.