di Andrea Cortellessa

 

«Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò»: queste righe si vede arrivare, all’inizio del 1916, Giovanni Papini. Il manoscritto in questione, dal titolo Il più lungo giorno, gliel’aveva consegnato nel dicembre del ’13, nel corso d’un frettoloso incontro al «Caffè chinese» vicino alla vecchia stazione, uno sconosciuto calato a piedi dallo sprofondo degli Appennini di dove era originario, «dagli sguardi sbalestrati, ora candidi come quelli di un fanciullo, ora sospettosi come quelli di un inseguito» (così lo ricorda Papini): «era un malato di spirito e non soltanto assalito dal sacro morbo della poesia. Ma noi, a quel tempo, si preferiva di gran lunga i pazzi ai sani sicché si fece buon viso a lui e alle sue tormentate prose». Quelle prose, frammiste a versi per la verità, Papini le passa al dioscuro di «Lacerba», Ardengo Soffici, e non ci pensa più. L’altro ci butta un occhio, non le trova neppure male, ma le ficca in mezzo al «gran sottosopra» di casa e non ci pensa più neppure lui: «pensavo del resto che la cosa non fosse di grandissima urgenza» (il «libriccino», finito dietro un divano, lo troverà sua figlia solo nel ’71, sette anni dopo la sua morte: così il manoscritto più mitico del Novecento italiano potrà andare in asta, nel 2004, a più di 200mila euro, ed è oggi conservato alla Biblioteca Marucelliana). Di grandissima urgenza era invece, quell’involto di carta pesante scritto in bella grafia (e recante, per ironia della sorte, una quantità di omaggi proprio a Soffici), per lo sbalestrato. Dino Campana, cioè: il quale visse lo smarrimento, commenta l’episodio Gianni Turchetta, «come una specie di assassinio».

 

Quando infatti riscriverà il libro col nuovo titolo di Canti Orfici, a suo dire a memoria (ma valendosi d’una quantità di avantesti solo in parte conservatisi ma, quelli, tutti inclusi con grande utilità in questa nuova edizione), lo concluderà con un esergo – citato a memoria da Walt Whitman – che evoca l’eccidio di un «fanciullo» e che, spiegherà a Emilio Cecchi (le lettere a lui, insieme al memoriale a posteriori riportato dallo psichiatra Carlo Pariani dal manicomio di Castel Pulci, dove Campana finirà ricoverato all’inizio del ’18, sono il suo autocommento più importante), farebbe appunto riferimento a quell’episodio (aggiungendo che quelle parole «sono le uniche importanti del libro»). In realtà lo smembramento è in primo luogo lo sparagmòs di Orfeo, naturalmente, che nel mito (narrato per esempio nelle Georgiche virgiliane) viene sbranato dalle Menadi dopo aver perso Euridice di ritorno dall’Ade: ma che il proprio corpus cartaceo sia per Campana l’equivalente del corpo di carne «stracciato e insanguinato» di una vittima sacrificale la dice lunga sul valore “magico”, cioè ontologico, che aveva per lui la poesia (seguace in questo della lignée romantica e simbolista). In un’altra straordinaria lettera a Cecchi evoca uno dei suoi scenari d’elezione (per esempio in quello straordinario “diario lirico” che è La Verna, l’equivalente nostrano del Viaggio in Armenia di Mandel’štam di vent’anni dopo), «un’enorme montagna» che gli appare «enorme spettrale macabra perché non esiste» ma, appunto evocata dalle sue parole, al di là della sua volontà s’è «drizzata […] e vuole esistere», ma come appare «minaccia di scomparire», «darei il mio sangue per dire che esiste ma non esiste è un incubo». La parola dà vita al mondo ma quel suo potere magico è reversibile, e il mondo lo può anche annichilire: convinto che sia stata la propria violenza ad aver causato la guerra europea, a Pariani dirà che «serve ad ammazzare la gente quel libro» (lo stesso aveva detto del suo Hyperion, all’amico Schwab venuto a trovarlo alla «Torre» di Tübingen, Hölderlin-Scardanelli: «non guardarlo così tanto, è cannibalesco»).

 

Più avanti, nella stessa lettera a Cecchi (che in seguito accuserà di averlo spinto fra le braccia di una «signora scaldata al fuoco dell’incesto, della lussuria sfrenata e dell’assassinio sadico dei fanciulli e dei malati», che gli «ha iniettato il veleno nel sangue»), si capisce che per Campana quella cosa spettrale perché non esiste non è altro che l’«amore»: che «si allontana grande enorme enorme come una montagna». In questo senso la passione sublime e tossica per Sibilla Aleramo, tanto violenta quanto gentile (in manicomio era nozione comune che «certi amori contrastati con una scrittrice lo avevano fatto ammattire»), non è che l’ipostasi di quella che Turchetta, acutamente, definisce la «sindrome della passante». Come nell’episodio dei Fiori del male l’immaginazione verbale del poeta evoca una donna «agile e fiera» dalle «gambe […] d’una scultura antica», la cui «dolcezza […] incanta» e «uccide», per veder però quel «lampo» subito sparire nel «buio», così le donne di Campana – siano le «bianche colossali prostitute» della Notte, la «proterva opulente matrona» di Genova, oppure la «figura» che, stagliata negli «archi» del ponte, gli appare «più bella della bionda Cerere» delle sensazionali poesie dedicate proprio a Sibilla, al culmine dell’affair nel ’16-17 – sono tutte fantasime, epifanie radianti o, per dirla con l’immagine rubata a d’Annunzio, «chimere»: che l’incantesimo del poeta evoca dal nulla («E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera») e nel nulla, poi, luttuoso risospinge. La prosa Dualismo, rivolta all’«adorabile creola» battezzata «Manuelita Etchegarray» durante il suo soggiorno in Argentina (finalmente fissato, dai documenti di viaggio, al 1907-1908), è la stele di Rosetta dell’immaginario di Campana.

 

La presenza appunto di Baudelaire come quella di Whitman, entrambe più fitte di quanto si pensasse, è fra i riscontri più preziosi del monumentale commento (600 pagine su un totale di 1500) che Turchetta ha tratto dalla sua ormai quarantennale fedeltà al poeta degli Orfici: dettagliatissimo nei riscontri biografici (definitivamente sottratti al mito, appunto) quanto puntuale nei riferimenti culturali (a smentire una volta per tutte lo stereotipo del naïf «barbaro» sceso dalla montagna). Si possono trovare troppo recise certe scelte di campo, come la sottovalutazione della presenza in parallelo di Rimbaud (in reazione, certo, al luogo comune del «Rimbaud romagnolo») o quella della filiera “musicale” Wagner-d’Annunzio, e più in generale la negazione di ogni «tensione alla trascendenza» nel poeta che invece, s’è visto, concepisce la parola stessa come ontologia (questo il senso dell’appello a Prezzolini nel ’14, prima di ridursi a pubblicare il libro in proprio estorcendo una sottoscrizione ai compaesani di Marradi: «nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto»), ma condivisibile è l’idea di un Campana spietatamente immanente, corporale, sottratto a ogni ipotesi «platonica, cristiana o, peggio, mistico-spiritualista». Dalla prospettiva magica, in senso novalisiano, era certo attratto il poeta: per esempio nella figura dell’occultista Arturo Reghini, futuro sodale di Julius Evola (col quale però finì per fare a cazzotti); e del resto, sensatamente concede lo stesso Turchetta, i Canti Orfici «non sono un trattato, cui si possa chiedere un rigore sistematico». Ma a prevalervi è senz’altro il «visionarismo espressionista» che fu Edoardo Sanguineti a sottolineare per primo (nella grande antologia einaudiana del ’69). A dispetto del suo status di outsider (o proprio in virtù di esso), intuiva Campana la lacerazione storica del 1914-15, della quale la «letteratura nazionale» – da lui non a caso definita «industria del cadavere» – era al contempo sintomo e concausa. Il bellicismo efferato di «Lacerba», del quale vede con inaspettata lucidità l’illusione (lettera a Soffici del luglio ’15), era davvero un «long assassinat» (come scrive a Papini, chissà perché in francese, nello stesso frangente): e lui se ne sentiva insieme vittima e corresponsabile. Per questo il «sabotaggio culturale» rappresentato dalla sua poesia, e dalla sua condizione di alieno, più che alienato, nel «mercato librario in Italia» (come dice con la solita lucidità dal manicomio, l’anno prima di morirvi dopo quattordici anni di reclusione, nell’ultima lettera al fratello), lo faceva «ritrovare solo», secondo Sanguineti, «all’altezza delle cose stesse».

 

Ci sarebbe da chiedersi a questo punto cosa significhi che questo “fuori” assoluto, che sempre ha rappresentato l’esperienza-limite di Campana, venga infine accolto nella collana ammiraglia della nostra editoria. Non sono certo tempi poco alienati, i nostri, eppure si può forse concludere con le parole che idealmente (e a dispetto delle cronologie) si possono considerare le definitive del poeta: quando nella prosa L’incontro di Regolo conclude che «ogni fenomeno è per sé sereno». È il versante contemplativo e introverso di Campana: che coesiste perfettamente con quello dionisiaco e certe volte truculento che ne ha fatto la fama pop (e certe volte trash), per esempio nella paradigmatica Giornata di un nevrastenico dove, sbirciando «lo sciame aereoplanante delle signorine intellettuali» a passeggio per le strade di Bologna la dotta, il poeta che alla fine evoca «Satana» e «le troie notturne […] in fondo ai quadrivii» è lo stesso che, poche righe prima, scrive questo miracoloso piccolo tableau dall’immobilità zen (e dalla dolcezza cripto-leopardiana): «Tutto mi è indifferente. Oggi risalta tutto il grigio monotono e sporco della città. Tutto fonde come la neve in questo pantano: e in fondo sento che è dolce questo dileguarsi di tutto quello che ci ha fatto soffrire. Tanto più dolce che presto la neve si stenderà ineluttabilmente in un lenzuolo bianco e allora potremo riposare in sogni bianchi ancora».

 

Turchetta accosta suggestivamente questo Campana al pensiero coevo, del pari immanentista, del Wittgenstein del Tractatus («nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene»), e in effetti a sorpresa di Regolo si ricorderà un perlettore di Wittgenstein come Gianni Celati, alla fine di Verso la foce: «ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo». Una professione di fede nel senso perfettamente terreno dell’esistenza, sì; ma anche l’esercizio di lucidità terminale di colui che contempla con calma la propria finitudine, alla conclusione di quel viaggio che chiamavamo scrivere.

 

Dino Campana, L’opera in versi e in prosa, a cura di Gianni Turchetta, Milano, Mondadori, 2024, pagg. 1540, € 80

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita sulla «Domenica» del «Sole 24 ore»

1 thought on “Dino Campana, serenità di un nevrastenico

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