di Andrea Cortellessa
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Alberto Petrò, Il mondo nella testa
È successo a Bobi Bazlen, potrebbe capitare anche a Marco Vallora: la ventura di diventare un personaggio di romanzo prima (o piuttosto) che il titolare di un’opera. La sua vita estremista rappresentava, per chi la conosceva, un monito – se non un esorcismo. Con tutto l’affetto che ispirava, ma anche con la pena e la paura che incuteva, in colpevole silenzio ci si appiccicava questo post-it mentale: attenzione a non fare la fine di Marco. Malgrado fosse lontana la sua fine effettiva, e triste oltre ogni dire – di morire nello scompartimento dell’ultimo treno a perdifiato d’una serie interminabile –: quella fine, come l’entelechia divinata da Sciascia nelle foto di Pasolini, era inscritta in ogni atomo della sua personalità. Questo livre à venir surrogherebbe il non meno fantomatico, naturalmente perduto romanzo cui a quanto pare Vallora lavorò senza, com’è ovvio, mai concluderlo (qualcosa del genere era successo pure a Roland Barthes – suo maestro ideale e fratello in spirito), il cui «protagonista col procedere della storia si autoabolisce». La notizia la dà Marcello Barison nell’interminabile e mimetico-stremante, ma in tutti i sensi necessaria postfazione che, di questo ipotetico romanzo su Vallora, è già la sinopia; e che mette capo all’altrettanto necessario volume da lui curato (insieme a Giorgio Agamben e Monica Ferrando, ma con l’aiuto non meno prezioso di Pier Giovanni Adamo e Silvia Capodivacca) dei suoi Scritti. Come se la parola dipingesse.
Nella invece stringata premessa Agamben incorona Vallora «incomparabile saggista del nostro tempo», riconducendo la «dislocazione semantica» della sua scrittura alla matrice di Roberto Longhi. Al di là delle pur condivisibili patenti illustri, concordo piuttosto con la conclusione di Barison, che a lui stesso «può sembrare enorme»: per come si dispiega in questa generosa ma infinitesima selezione, e a dispetto dei propri oggetti e sedi di pubblicazione, la scrittura di Vallora «non è critica d’arte». Semmai un’écriture, un mezzo senza fine, proprio come quella a suo tempo teorizzata da Barthes. Il testo di gran lunga più personale, fra quelli qui trascelti, è il primo in ordine cronologico: appunto sul grande amico del quale Vallora, all’indomani della morte traumatica (per molti versi paragonabile, e da lui infatti paragonata, a quella di Pasolini), tradusse il libro di svolta (dall’«avventura semiologica» al «piacere del testo»): quello sul Giappone intitolato L’impero dei segni (e la fisionomia di Marco aveva in effetti qualcosa di «dolcemente orientale», ha scritto Francesco Maria Colombo). Non era quello un lavoro editoriale (con l’editore che finì per pubblicarlo anni dopo, Einaudi, Vallora collaborò senza mai identificarvisi), bensì un «impegno interiore, quasi segreto»: assunto per continuare a «convivere» con l’amico scomparso (certo nello spirito del lutto agente, per la morte della madre, che allo stesso Barthes aveva dettato La camera chiara: conclusa la cui stesura poteva anche andare incontro alla fine – come, prima di lui, aveva confessato in limine Proust a Céleste Albaret). Tradurlo per «ripeterlo», non col rictus concettuale del Pierre Menard di Borges ma per ri-viverlo, all’infinito rieseguendone la partitura come faceva, lo stesso Barthes, con l’adorato Schumann: in quell’utopia che Barison definisce «esistere accanto all’arte senza fagocitarla».
Necessario quanto paradossale, il primo libro firmato da Vallora non poteva insomma che uscire postumo. Sempre Barison riporta la scheda editoriale di un libro intitolato, à la Thomas Pynchon, L’incanto di Lotto, annunciato però nel «2099». Su Lorenzo Lotto Vallora ha scritto pagine mirabili (quelle dalla tornitura davvero longhiana nonché bantiana, non senza un sospetto di parodia, campionate in copertina), ma anche questo non era concepibile come libro suo. Quello lo si poteva solo rinviare all’infinito – con quell’epoché trascendentale dell’opera (e della vita) che, come a un certo personaggio di Henry James, l’opera (e la vita) di Vallora se l’è mangiata (lo confessa con parole di Cocteau: «Sto sempre aspettando? Aspettare cosa? Ho dietro di me tanti ricordi di disordine, di alberghi, di biancheria sporca, automobili rotte, amici morti […], mi pare di scivolare giù dalle Montagne Russe, solo al mondo, giù nel buio»).
Se proprio bisogna parlare di Longhi, sarà per Barison un «Longhi corretto Arbasino»: per la pratica sfrenata dell’only connect, si capisce (che, restando al solo testo su Lotto, non si perita di evocare Monteverdi Caravaggio e il Serpotta, ma anche Max Jacob e Picasso e Gadda). Ma la cultura «concitata» e sgomentevole di Vallora, che trova il suo passo più congeniale in quello che Barison definisce «stream of criticism», assomigliava piuttosto a quella da lui attribuita a Pasolini: non divertimento moltiplicatorio dell’io bensì gravame cilìceo, «manieristica gabbia soffocante». Evidente del resto la proiezione nelle pagine sul Pontormo (nonché quelle dell’excursus sul Bronzino nell’introibo, desultorio quanto cattivante, sulla «pittura come menzogna»). Solo che, rispetto alla topica della tana fiorentina con scala retrattile, la reclusiveness di Marco era a rovescio. Anziché barricarsi in casa nel più saturnino contemptus mundi, ha trasformato la sua stessa casa (più d’una casa, anzi) in un luogo alienato, un deposito o meglio una discarica di libri e altri oggetti d’affezione che hanno finito per fisicamente espellere il malinconico disposofobo: condannandolo a un’esistenza raminga in «sistemazioni di fortuna, foresterie, divani e qualche volta pure stuoini di amici o conoscenti, sempre aggravato da enormi trolley carichi di libri».
Forse così sperando di scampare al destino allegorico del Kien di Canetti, o di certi ancor più tormentosi personaggi di Hrabal o Doctorow (compreso il dettaglio tragicomico dei pompieri all’assedio dell’abituro), Marco s’era insomma barricato fuori: saturando il proprio spazio vitale e rendendolo letteralmente inabitabile, come un’installazione di Arman o Büchel. Piena dei libri degli altri, si capisce: quelli che lui risolutamente non scriveva. Questa era la paradossale formula della sua esistenza, che Barison definisce – con ossimoro perfetto – «accumulazione dissipativa». Anziché rimpinzare a dismisura, la collezione infinita era «come un togliersi per far infinitamente spazio ad altro».
L’autoritratto interminabile che è l’opera di Vallora nel suo complesso è tutto a rovescio, come quello di spalle che dipinse una volta lo Schönberg pittore dilettante (al quale ha dedicato pagine dalla pirotecnica, se possibile, più che arbasiniana: ripelliniana), o l’allusivo ritratto di Edgar James di René Magritte, La reproduction interdicte (col quale si divertiva a giocare, Marco, nell’ultima mostra da lui curata, quella di Alba sul surrealismo). Ricorda il titolo di Magritte, Barison, per evocare la renitenza di Vallora a farsi ritrarre (il che tanti artisti suoi protégés, nondimeno, non hanno mancato di fare). La serie più bella, composta come «un trittico baconiano», è quella di Alberto Petrò dal titolo Il mondo nella testa: «Dietro quel funebre chiaroscuro a sbarre, Marco è imprigionato», scrive Barison: «l’ascensore è la capsula che l’ha tradotto altrove, nell’oltretempo dove nessuno dei nostri sguardi può più stanarlo, per chiedergli di insegnarci a vedere, o, almeno, di guardare con noi».
Un aneddoto divertente lo ha raccontato Lietta Manganelli nella biografia di suo padre Giorgio, Aspettando che l’inferno cominci a funzionare (La nave di Teseo 2022): una volta, chissà perché, gli einaudiani pensano di portarsi alla Buchmesse di Francoforte il programmaticamente disutile Manganelli, e per liberarsi della sua presenza ingombrante chiedono a Vallora, a quel tempo loro giovane di bottega, di accollarselo allo Städelmuseum. Così Marco gli fa da coscienzioso cicerone, ma il Manga dopo ogni spiega scuote la testa e gli fa – ha ricordato una volta lo stesso Vallora – un solo commento: «No». Un esercizio programmatico del dubbio, quasi una negative capability, che ha ereditato pure chi (testimonia nel volume Nicola Lagioia) a sua volta girava per musei e chiese di Puglia e, se per caso qualche accompagnatore sbagliava a datare un quadro, subito precisava con puntiglio ma senza supponenza: «Be’, no, questo è del 1425».
La pratica della correctio, in termini retorici, è parente stretta della preterizione. E proprio questa, ha ragione Barison, è la mossa retorica prediletta da Vallora: che volentieri “attacca” i suoi pezzi spiegando come sia lui il meno indicato a trattare la materia, come abbia fatto fatica a reperire la documentazione necessaria, e quanto si senta impari al compito. Per poi svolgerlo, si capisce, nel modo più scintillante. Malgrado tutte le immaginarie (o effettive) difficoltà, lo sguardo di Marco davvero è in grado di insegnarci a vedere. E infatti, come Schönberg voleva dipingere solo occhi, un grande occhio figura nell’unico quadro che – si sappia – ha dipinto Vallora (testimoniato da una foto di Alessandro Papetti): anche quello, si capisce, era un autoritratto.
L’ultimo della serie lo ricorda l’artista Luca Trevisani. In un suo allestimento al Grand Hotel et des Palmes di Palermo, in ricordo di Raymond Roussel che vi aveva fermato il suo vagabondaggio, gli chiese Marco di fotografarlo, nella stanza ominosa, nella posa del cadavere. Anche quella volta il viso non si vedeva. E anche quella foto, come tutto il resto, ora è perduta.

Marco Vallora
Scritti. Come se la parola dipingesse
a cura di Giorgio Agamben, Marcello Barison e Monica Ferrando, con un ricordo di Nicola Lagioia
Electa, 2025, pp. 529, € 39
[Immagine: Marco Vallora, foto di Alberto Petrò].
“Bergotte muore di ‘étourdissements’: quelli clinici che lo colpiscono già sulla scala, prima d’incontrare l’Arte, ma con la pancia indigestosamente enfia di patate non cotte (bisognerà pur tener conto di questo aspetto ‘comico’ – verista-zoliano). E poi come dimenticare quei diversi étourdissements stendhaliani, altro che sindrome estatica!, che lo atterrano di fronte al ‘pan de mur jaune’ appena individuato. Il termine è esattamente lo stesso: étourdissement. Medico ed estetico apparentemente positivistico. Vertigini, deliqui, stordimento, stupore. E non sarò un caso che il celebre, struggente cammeo della sua morte (ma le patate… non dimentichiamo che Proust ha elogiato anche il comico Chaplin) non è casuale che si apra proprio come un referto clinico, secco e impoetico.”
Marco Vallora, Scritti. Come se la parola dipingesse. Electa, Milano, 2025 p. 259
Bellissimo e struggente ricordo di un personaggio hors catégorie. Grazie.