di Daniela Brogi

Juste la fin du monde, È solo la fine del mondo, di Xavier Dolan, premiato alla scorsa edizione di Cannes e scelto per rappresentare il Canada nella sezione miglior film straniero dei prossimi Oscar, è un film bello almeno quanto è, fisicamente, spiazzante, perfino irritante, perché è un’opera tutta giocata, a livello stilistico, tematico e percettivo, su un motivo unico e totalizzante: quello dell’impazienza. Tratto dalla pièce omonima di uno degli autori teatrali contemporanei più noti, Jean-Luc Lagarce, morto di AIDS nel 1995, il film è ambientato in una casa della campagna francese, dove, dopo dodici anni dalla sua fuga, il protagonista, Louis (Gaspard Ulliel), drammaturgo, decide di tornare per il saluto estremo: prima di morire vuole rivelare ai suoi familiari la sua malattia e, soprattutto, parlare della sua omosessualità, allusa e derisa soltanto da battute nervose o accenni goffi. Ecco il punto, dunque: qui dobbiamo stare, anche per discutere, eventualmente, dei limiti o delle forzature – come mi pare che sia stato prevalentemente fatto, del sesto lungometraggio di Dolan. È solo la fine del mondo è un’opera queer, nel senso che usa l’omosessualità come dispositivo espressivo e mimetico.

La famiglia che accoglie Louis è formata da Antoine, il fratello più grande (Vincent Cassel), pieno di gelosie, di dolori oscuri e di risentimenti; dalla sorella più piccola, Suzanne (Lea Seydoux); dalla madre, Martine (Nathalie Baye); e, più in disparte ma destinata a giocare un ruolo chiave proprio per la sua posizione marginale, dalla cognata (Marion Cotillard), che non aveva mai incontrato finora Louis. In una sorta di asfissiante Kammerspiel, fatto di primi piani continui, accompagnati da una musica spesso straniante, mentre un montaggio nervoso insegue gli scambi tra i personaggi, il film mette in scena, per novanta minuti, una storia continuamente impaziente: di svelarsi, di concludersi, di arrivare a un punto di scioglimento che non si tocca mai, perché il rito violento che anche adesso, come da sempre, sta consumando la famiglia del protagonista è l’espulsione, dall’ordine del discorso, della possibilità di nominare la diversità di Louis. Parlandosi, urlandosi addosso, aggredendosi, raccontandosi i dettagli più futili, i personaggi riescono a scongiurare il marasma dell’ horror vacui, mentre la regia, al contrario, sfida la possibilità di farci vivere, esasperandoci, quel medesimo marasma che i singoli attori cercano per tutto il tempo di arginare. La macchina da presa li ritrae, quasi fino a deformarli, mentre ridono, piangono, giocano, mentre interpretano, come già nella pièce teatrale, l’ansia di rimanere dentro il cerchio protettivo della tautologia. Questo uso della prolissità per dire l’incapacità di esprimere l’essenziale è enfatizzato, registicamente, anche dalla sottolineatura, esagerata, dei segni extraverbali: le luci, le cromie bluastre, la musica.

Ci sono due sguardi che vedono la scena di Juste la fin du monde: quello di Louis, e quello incerto e espressivo di Catherine, la cognata, che grazie all’assenza del vincolo di sangue può riuscire a mantenersi sulla soglia della violenza quasi ancestrale del legame famigliare, e a intercettare il segreto di Louis.

Torna in mente Proust, quando scriveva che il sadismo e il fondamento dell’estetica del melodramma, perché È solo la fine del mondo realizza tutti i codici e le esagerazioni dell’immaginazione melodrammatica, ma questa situazione, anziché essere un limite, funziona come la risorsa più creativamente produttiva. Coi suoi contrasti, coi suoi dialoghi esasperati, con la messa in scena di posture sentimentali polarizzate, col suo uso così semantico della musica, il melodramma di È solo la fine del mondo esprime i conflitti etici legati alla rimozione dell’omosessualità, oltre che la sua simbolizzazione sadica e violenta: come malattia, come osceno destinato a rimanere sempre fuori campo – appare solo in un paio di onirici flashback. Così, come per un paradossale restringimento di campo, che è tanto letterale quanto simbolico, ecco che la vita stessa del protagonista, fuori dalla famiglia, smette di esistere, sparisce del tutto, da quando Louis rientra nella casa d’infanzia: che è la dimensione spaziotemporale dove il tempo storico, come l’individualità, si dissolvono per sempre; fino alla fine del mondo.

[Immagine: Xavier Dolan, Juste la fin du monde, 2016 (db)]

11 thoughts on “È solo la fine del mondo, di Xavier Dolan

  1. Che film ha visto la Signora Brogi? Non quello che ho visto io: l’omosessualità non è per niente centrale nel film, rimane una scelta intima, personale, nemmeno indicata come il motivo dell’abbandono della famiglia, un elemento biografico. Non è nemmeno il “pretesto” del film, essendo questo la volontà di dire alla famiglia la sua prossima morte. Tornare nel luogo dove si è nati, che si è lasciato, fra le braccia, impossibili ormai, impossibili, di chi ti ha generato e visto crescere e di chi è cresciuto insieme a te ( che sa (il fratello) fra l’altro di Pierre Jolicoeur, e quindi dell’omosessualità, come lo sanno del resto madre, sorella meno che la cognata ma è ovvio) braccia impossibili eppure incapaci di non amare chi è andato via, aprendo una ferita non rimarginabile e al quale dicono il loro amore con gesti violenti, morbosi, nevrotici, dolcissimi… ognuno a suo modo. La genialità del film e della pièce di Lagarce è che il protagonista non è protagonista se non come specchio dove tutte le altre figure si riflettono e quindi vivono… Ha presente il teatro? Come diceva il maestro Zen, vuota la tazza del tuo tè se vuoi che ti versi il mio!

  2. Non sono sicuro che sia l’omosessualità (mai sottaciuta e messa in scena in uno dei pochi momenti di vera comunicazione del film) del protagonista a essere l’osceno. Semmai la malattia, l’AIDS nello specifico. Sono passati più di venticinque anni dall’uscita da Juste la fin du monde (1990) e quasi 20 dalla morte di Jean-Luc Lagarce, l’omosessualità è entrata in famiglia, si è fatta famiglia. L’AIDS – quando si presenta – è e rimane alle porte del narrabile. Oscenità per eccellenza, dunque, paragonabile solo all’incapacità di instaurare un dialogo tra pari. Saper dire/dirsi e saper ascoltare gli altri.

  3. @Leonardi: ha ragione.
    D’altra parte, vent’anni fa più che mai l’AIDS entrò nell’immaginario di massa come il marchio osceno dell’omosessualità, dunque i due aspetti si implicano reciprocamente. Approfitto per un’ulteriore precisazione: l’omosessualità del protagonista non è, apparentemente, ignorata dai familiari, che via via vi alludono, ma sempre con motti di spirito, battute goffe che attestano una riluttanza a elaborare, normalizzare la situazione di Louis. Tutto questo crea una tensione continua, enfatizzata dalla malattia.
    Grazie, e grazie anche a Bachechi.

  4. Chiedo il motivo per il quale il mio commento non appare. Capiscco che è dissonante rispetto all’articolo ma credevo di essermi iscritta a un blog aperto e libero…
    Cordiali saluti

  5. Io non so che film abbiate visto voi tutti. La Brogi, come molti critici sanno fare, ha ornamentato il nulla: “usa l’omosessualità come dispositivo espressivo e mimetico”. A parte che non vuol dire nulla, non è vero, l’omosessualità è in sottofondo e non si capisce di cosa sarebbe la mimesi. Il film di Dolan è comunque un film inconsistente e voglio ricordare che si tratta di cinema e non di teatro. Quanto alla regia: si, il ragazzo migliora certo, ma chi non lo farebbe avendo la fortuna (ma sarà tutta fortuna o c’è lo zampino di papi?) di girare sei lungometraggi e avere 27 anni. Il contenuto del film, pur alludendo al tema classico del “ritorno”, è puerile, stucchevole, per molti aspetti irrealistico: una famiglia che si azzuffa, un omosessuale che torna a casa e non sa parlare di nulla se non della sua colazione al bar, una suspense poco credibile tanto si sa che non dirà nulla. Niente di più. Siamo ben lontani dalla genialità, di cui qui non c’è traccia. E non bastano indovinate fotografie e quadri stretti. Il genio è tutt’altra cosa: qui manca la psicologia (se non una molto evidente e poco profonda), manca la trama, mancano i personaggi (chi sono? cosa vogliono?), manca una qualsiasi idea da comunicare, manca la necessità che sente il genio riguarda alla propria opera. Cosa ci ha voluto dire Dolan? Un altro affresco del disastro familiare? Il suo? Si faccia curare o legga Dostoievski e Turgenev se vuole capirci qualcosa della famiglia, invece di fare film. Per non parlare della scena finale che è di un ridicolo che sfiora il cattivo gusto; salvo non avere 15 anni e essere stati appena lasciati dal proprio fidanzato/a. E’ di moda Dolan, tutto qui. Buon divertimento agli ingenui e ai modaioli… Se si cerca qualche notizia sulla sua biografia, si hanno molte più elementi per comprendere il suo successo, che non andando a vedere i suoi film.

  6. Concordo , virgola per virgola (e non mi capita mai), con il commento di Andrea Bocchetti

  7. @Andrea Bocchetti
    fatto salvo che “de gustibus” non si discute, mi preme sottolineare che un’opera, che sia figurativa, letteraria, cinematografica o quant’altro, non dovrebbe secondo me essere analizzata in merito alla biografia (peggio ancora alla sessualità) del suo autore e dalla sua supposta aderenza al canone del “genio” (cosa del tutto soggettiva), ma alla capacità di quell’opera di trasmettere primariamente delle emozioni, anche queste nella loro possibilità di essere recepite, legate a dinamiche del tutto soggettive: o le senti o non le senti, punto, a dispetto dell’età, 15 anni o chissà quanti ed io ne ho un po’ di più e non sono stato lasciato dalla mia fidanzata. Tutto il resto sono contorcimenti da azzeccagarbugli della critica cinematografica,… come va di moda. Quello che non capisco onestamente è perché citare solo Dostoevskij e Turgenev come esempi di narrazione di trame familiari ad alta drammaticità e non anche Cechov o Franzen, o Zadie Smith, o Roth, o perché no , anche Piperno? come se i loro diversi linguaggi (letterari) fossero comparabili e lo stesso mezzo espressivo del tutto sovrapponibile a quello cinematografico, ma capisco che il discorso sarebbe troppo lungo.
    Ultimissima cosa: perché il tuo giudizio sul finale oltre che secondo te essere adatto ad un quindicenne non spiega anche nel dettaglio del significato che hai potuto carpire dall’uccello che entra nella casa, sbatte nelle pareti stramazzando sul tappeto, mentre il protagonista se ne va dalla porta con la luce accecante del sole sullo sfondo e sulle note finali di un bellissimo (secondo me) brano di Moby (quello sì molto paraculo)? Insomma che film hai visto?

  8. @Simone
    Fatto salvo che se “de gustibus” non si discutesse, non avremmo nulla da dirci se non scambiare chiacchiere, io non ho mai detto di analizzare un’opera dalla biografia o dalla sessualità. Ho viceversa affermato che la chiave del successo di Dolan è probabilmente nella sua biografia (consulta di chi è figlio) e in una certa tendenza a seguire, anche nel cosiddetto cinema d’autore, le mode. Quanto agli autori russi citati, certamente ve ne sono altri e non solo russi, ma che senso avrebbe avuto fare un catalogo copioso di autori e opere? Ho semplicemente citato due dei più grandi sull’argomento.
    Sulle sensazioni: tutti hanno sensazioni e, per quanto mi riguarda, persino troppe al cinema. Non è così difficile generare sensazioni, visto che lo fanno Laura Pausini, Britney Spears e la maggior parte del mondo mainstream dello spettacolo, che si basa esattamente su questo. Il problema non è sapere generare sensazioni, quanto quali sensazioni si producono, quanti strati hanno e cosa sono in grado di smuovere.
    Personalmente, un uccellino che entra in casa e sbatte contro il vetro perché non riesce ad uscire, stramazzando poi al suolo e morendo, è una metafora di una banalità sconcertante (non sono entrato nel dettaglio per non svelare il finale di chi magari non aveva ancora visto il film). Un finale del genere suggerisce sensazioni modeste per intensità e profondità. Molto sinteticamente: un uomo qualunque (perché di lui si dice poco o nulla), dopo aver rifatto esperienza della devastazione della propria famiglia qualunque (un fratello frustrato, una sorella drogata, una moglie sottomessa, una madre impotente: è un affresco così originale per te? Per me è un’accozzaglia di luoghi comuni, svuotati di contenuto narrativo), è forzosamente portato ad adandarsene, e lo fa nel modo più puerile e piagnucoloso possibile. Non so davvero che interesse tu possa trovarci in una storia del genere.
    Nella mia famiglia c’è che si commuove alla domenica guardando Barbara D’urso: ci dobbiamo porre il problema di leggittimare anche quelle sensazioni? O dare loro dignità?
    Se tu ti trovassi nella mia medesima tavola la domenica e ti lanciassi in una critica della D’urso, ti si direbbe, in altre forme, che i tuoi sono “contorcimenti da azzeccagarbugli della critica”.
    E tu sorrideresti, davanti a loro; così come nel leggere le tue parole, ho sorriso io.

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