di Francesco Pecoraro

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Giorni fa, in una biblio-galleria che tratta prevalentemente fotografia, mi sono imbattuto di nuovo in quella foto di Pino Pascali. È uno scatto di Ugo Mulas che fu usato come manifesto per una personale dell’artista all’Attico di Sargentini, credo nei secondi anni Sessanta: 1967 o 1968, la data precisa non riesco a stabilirla.

D’impulso ho pensato Lo compro e ho chiesto il prezzo. Se fosse stato ragionevole – ma non so quale cifra mi sarebbe apparsa ragionevole in quel momento di intenso affetto − me lo sarei portato via. Il titolare era uscito per qualche minuto e il ragazzo che presidiava il negozio non sapeva quanto costasse. Ho aspettato qualche minuto, l’emozione si è attenuata, ho pensato Meglio così e me ne sono andato.

L’impulso all’acquisto era dovuto all’importanza che quell’immagine, esattamente quella, aveva avuto per me in un periodo della vita in cui il problema dell’apparire era del tutto soverchiante rispetto a quello dell’essere, volendo qui adottare, ma solo per un attimo, uno stupido dualismo in voga nel Novecento inoltrato.

Tra essere e apparire non esiste un grosso iato. Nella maggior parte dei casi si tratta solo di un leggero sfalsamento, quando non di una totale coincidenza. In mancanza (ma chi ce l’ha?) di una valida percezione di sé, si fa della propria presunta persona un’immagine e la risposta alla domanda Chi sono? la si affida allo specchio, cioè alla visione di una realtà analoga e rovesciata rispetto alla nostra. Ma, sia pure in modo speculare (cioè rovesciata nella quarta dimensione), abbastanza fedele.

Dopo aver visto quella foto il mio problema fu apparire (dunque, nella mia immaginazione, essere), come Pino Pascali. Se il destino non aveva provveduto a farmi nascere lui, sarei stato, almeno nel sembiante, il più possibile simile a lui. Ma perché verso i diciott’anni avevo scelto a modello proprio Pascali? Per due motivi.

Il primo era che per me erano crollati da tempo i due soli modelli virili allora disponibili, quello paleo-hollywoodiano e quello neo-hollywoodiano (Actors Studio, diciamo), e urgeva un dover apparire/essere diverso da entrambi e dai modelli paterni ormai intollerabili, di cui quelli erano il proseguimento, solo in apparenza svecchiato e nobilitato.

Il secondo motivo, molto importante, era che mi piaceva il suo lavoro. Per un certo tempo avevo ammirato distrattamente, voglio dire non con particolare attenzione, le sue opere. Ma poi sopravvenne una considerazione crescente, seguita da qualcosa di molto diverso dall’ammirazione: era una sorta di ri-conoscimento, di re-identificazione emotiva e di uno strano indiretto senso di fratellanza. Al mondo esisteva qualcuno che pareva sentire quelle che per me erano le cose di base (acqua, terra, animali, miti primordiali e molto altro), quindi le cose di tutti, come le sentivo io, con la differenza che lui sapeva esprimerle (magistralmente) e io mai ne sarei stato capace. Pensavo allora con insolita lucidità.

Lo seguivo già quando avevo meno di diciotto anni e lui era ancora vivo. La sua mi sembrava un’arte amica benché anche oggi non avrei dubbi a considerarla avanguardia, qualsiasi significato abbia questa parola, e l’avanguardia in genere non ti viene incontro. Tuttavia a me sembrava di capirlo. Ma oggi so che non lo capivo, perché l’arte non si capisce: pensavo/dicevo Bello, non perché lo capissi, ma perché credevo di percepirne le ragioni poetiche come fossero le mie. Che è esattamente ciò che succede quando un artista ti arriva. Cosa che non capita spesso, anzi quasi mai.

Riconoscevo ogni sua opera come qualcosa che da qualche parte era sempre esistita. Come qualcosa che se n’era stata nascosta nella mia mente fino al momento in cui Pascali l’aveva estratta, e però dalla sua, di mente. Capivo la sua furia e mi pareva allegra. Stupivo davanti alla forza leggera delle sue invenzioni.

La Pop Art, allora potentemente presente sulla scena, poneva il dilemma rappresentazione/riproduzione testuale. Pascali, che come tutti i grandi artisti risentiva fortemente del clima dei suoi tempi, mi sembrava interessato alla riproduzione simbolica di materiali che erano già nella mente di tutti. Una sorta di proiezione pop di elementi di una cultura profonda, un’approssimazione ironica, poetica, metaforica alle icone basilari dell’immaginario mediterraneo. «A me piace il mare, per dire…», aveva detto, o scritto, non so.

Da questo amore per il mare (che era ed è il mio stesso, allora inespresso, amore), aveva per esempio ricavato Scogliera, Coda di cetaceo, Pellicano, Progetto di balena, Ricostruzione di balena, Barca che affonda, Pinne di pescecane, Delfino, eccetera.

Opere tutte del ’66, allestite come fossero illustrazioni tri-dimensionali di un libro per bambini e non invece per ciò che erano, ricerche plastico-metafisiche e, nello stesso tempo, riproduzioni pop di quello che chiamerei il convenzionale marino.

Pascali, che era nato e cresciuto in Puglia, a Polignano a mare, lavorava su un immaginario etnicamente introiettato e allo stesso tempo rispondeva a suo modo alle domande della contemporaneità di allora. O almeno così mi sembrava.

Nell’estate del ‘67 mi spinsi con un amico fino a Foligno, dove una mostra collettiva ospitava, tra le moltissime cose (per me allora) interessanti, i suoi straordinari 32 mq di mare circa, trenta vasche d’acqua, ciascuna con una diversa tonalità di blu. Gli altri erano (posso sbagliare) Tacchi, Angeli, Lo Savio, Kounellis sopra tutti, Festa, Ceroli, De Dominicis, Cintoli (di cui ricordo Annodare, all’Attico, 1969), un ambiente di Fontana, eccetera.

Oltre all’acqua, Pascali si volgeva, letteralmente, alla terra. E ancora io lo seguivo e lo capivo, allo stesso modo in cui felicemente mi arrivava il suo lavoro sull’archetipico, l’ancestrale e il mitico, che gli fruttò cose bellissime, come Ponte e L’arco di Ulisse.

Semi-sdraiato in studio, appoggiato sui gomiti con l’aria di chi non si fida dell’obbiettivo, di chi sta per scattare il piedi e andarsene, capelli lunghi basette folte jeans e giubbetto, foulard al collo, cintura modulare in pelle di quelle che si trovano sulle bancarelle greche e soprattutto in primo piano grossi piedi nervosi rigati di vene in sandali credo orientali (non di quelli andanti dei negozi etnici che allora aprivano ovunque), che cercai subito spasmodicamente per trovarne di molto simili (fantasticai che fossero gli stessi suoi…) in un negozietto di scarpe a Via della Croce, una misura più piccola della mia. Ma non importava, li avevo, mi facevano male, ma li avevo.

Mi accorgo oggi che la forza di questa foto, in cui Pascali è vivo al cento per cento, pieno di energia, di immaginazione, di lavoro da fare, di immagini mentali da esprimere, dunque di opere da progettare e costruire, è tutta nella diffidenza dello sguardo e nella vigoria dei piedi seminudi. Portare sandali invece di scarpe era allora un gesto simbolico di dis-appartenenza al Sistema (esisteva il Sistema, esiste ancora).

Poi, l’undici settembre del 1968, Pascali, che ha un gruppo di opere esposte alla Biennale di Venezia, si ammazza a trentatré anni con la moto in un sotto-passaggio di Corso d’Italia, a Roma.

 

3 thoughts on “Essere Pino Pascali

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