di Carlo Sini

 

[È da poco uscito, nelle edizioni del Saggiatore, il libro di Carlo Sini Filosofia e memoria. La vita come scrittura. Pubblichiamo un estratto della terza parte del volume, intitolata Le Ore. Fogli di diario.]

 

20 marzo 2024

 

L’origine sta nell’originato così come l’originato sta nell’origine: ecco l’ambigua presenza degli dèi per gli umani. Non si tratta mai di una presenza assoluta, da quando sono usciti dall’infanzia e forse prima. Ogni presenza è per loro segno di un’assenza (anche quando dicono di non sapere di che si tratta: assenza misteriosa). Infatti vedono e dicono la presenza per un’assenza, un «non più» per un «altro»: non è più notte, vedi è giorno; non è più giorno, vedi, viene la sera – «e sei qui sola» canta nella Butterfly quell’incantatore di Pinckerton. Ma bada, il «per» di cui sopra non allude primordialmente a un «soggetto umano» (il soggetto è ancora lontano e ci vorrà gran tempo per arrivarci); allude a un «lui», a un «esso»: il Sole, la Luna, l’alba e la sera: quel che è qui non sta per me, sta per un altro che, se così sarà, ritorna, è ritornato: il «numinoso» originario. Il ciclo infinito delle assenze in presenza e delle presenze in assenza. In sostanza stai dicendo della vita e della morte, cioè della visione del cadavere, di colui che non parla più, che tu lo chiami e resta immoto. Origine del sapere antropologico fondamentale, ciò che tutti sanno. (Bada bene: un sapere, non un essere). Il sapere, appunto, comincia col mito, col racconto. Per esempio la storia di Chirone, di cui Dante ancora si ricorda. Mi riferisco al libro di Paula Philippson, Origini e forme del mito greco (1944, trad. it., Boringhieri, Torino 1983). Philippson (1874-1949), dopo aver studiato ed esercitato la professione medica, si dedicò alla filologia classica, sulle orme di Kerényi, Walter Otto e Jung. La tradizione greca, scrive la Philippson, forse superò, già in tempi antichissimi, la tradizione orale, come dimostrano le tavole fittili ritrovate nei palazzi micenei (p. 236). I Greci vedevano le forze naturali in figure divine, così si rivelavano per loro le presenze del monte, del suolo, del mare, e degli animali.

 

La mitopeia di questo primo strato mitico collega ora in modo discorsivo le figure precedentemente scorte; per esempio Peleo e Thetis abitano insieme con Chirone sul Pelion, i cui piedi sono bagnati dal mare e sul cui suolo crescono frassini e tigli. Nella grotta di Chirone, con le cui profondità egli è originariamente ed essenzialmente connesso nella sua qualità di semi-cavallo generato da un cavallo – il cavallo è infatti per i Greci un animale ctonio – vengono celebrate le nozze di Peleo e Thetis. […] Chirone porta con sé la saggezza delle profondità della terra […] Per regalo di nozze Chirone offre all’amico un ramo di frassino staccato dal bosco del suo monte. Alla coppia nascerà un figlio, Ligyron; in uno strato mitico più recente questo figlio si chiamerà Achille (pp. 237-238).

Il racconto mitologico è fatto a strati; Kerényi lo paragonò a un tema musicale con le sue variazioni; ma il punto oscuro e inafferrabile è il suo inizio. Forse la visione e l’incontro con i cavalli in branco nel loro ambiente naturale (il monte, il bosco ecc.)? Ma come questo incontro primordiale, pieno di emozioni diverse, si traduce in un nome, in una vicenda, in una intricatissima storia di amori e di nascite, ancora lontana dagli dèi olimpici, che ne sono peraltro, in qualche modo, la continuazione? Se la emozione primaria dell’incontro con la natura, le sue forze e vicende, le sue creature è per noi inimmaginabile (forse solo l’entusiasmo dei bambini allo zoo può suggerircene, molto alla lontana, una traccia), indispensabile è però il narratore. A suo modo Friedrich Creuzer l’aveva inteso, immaginando un primo educatore dell’umanità, e di umanità, nella figura del sacerdote delle origini, ovvero dell’incantatore, del mago, dello stregone, dello sciamano, sino all’ultima incarnazione nel filosofo! Ma prima, molto prima, il machiguenga della foresta tropicale, il narratore di favole sull’origine e di vicende incredibili e miracolose; e delle vicende quotidiane che sono accadute nelle ore di vita di un popolo diviso nel suo vivere a piccoli gruppi nella foresta. Ecco, per così dire, lo strato primario della formazione del senso comune e della verità pubblica: ne possiamo osservare una replica in miniatura nelle favole che ancora e sempre raccontiamo ai bambini, con loro grande partecipazione ed entusiasmo.

 

2 aprile 2024

 

(Dopo il periodo pasquale e la celebrazione dei relativi miti e delle relative feste e grandi adunanze familiari.)

Vincendo la pigrizia, ho ripercorso di volo e di corsa, in un paio d’ore, l’itinerario di questo cosiddetto «diario». Impressione vertiginosa e inquietante. Una replica ostinata delle mie più costanti ossessioni degli ultimi anni e anche prima. Uno scavare continuo, tenace, un po’ ottuso, nello stesso buco, con l’impressione, nei momenti più felici, di essere andato un poco più in giù, verso il profondo immaginario. Il mio esercizio filosofico è fatto così; nei suoi limiti avrà anche le sue virtù: per fortuna non sta a me stabilirlo. So solo che non posso fare altrimenti, non posso che «ripetermi». Ho chiesto all’inizio: che significa «umano»? E: «Che cosa siamo noi umani oggi»? Forse che, dopo tanto almanaccare, hai le risposte? Ogni eventuale risposta, ora so di saperlo e di vederlo con più chiarezza, non farebbe che spostare il problema su di sé: mostrerebbe soltanto una ulteriore stazione, o figura, dell’«umano», della quale bisognerebbe allora chiedere che cosa sia e che significato possiamo dire che abbia. Quindi è la domanda che è insensata, è la domanda che non va posta? Ignoramus et ignorabimus? Non mi sembra che sia questo il punto. È nella natura di questa domanda, mi sembra invece di poter dire, che la sua inevitabile ripetizione si mostra, non un difetto, ma piuttosto un compito e uno scopo. Domandando e rispondendo mostri chi sei anzitutto a te stesso: diventa ciò che sei, diceva Nietzsche, e io lo ripetevo dieci anni fa a Mechrí. In un certo senso non si tratta di saperlo, quanto appunto di diventarlo, aprendo la via a un compito di per sé inesauribile e in questo senso infinito. Diventare la propria «autobiografia». Questo mi pare accada in tutte le vite, anche se non se lo propongono e anche se non lo sanno, o se immaginino di avere risposte certe e definitive e quindi di saperlo. Tutte le vite divengono ciò che sono, mostrando a loro modo la loro umanità, la loro verità, la loro peculiare attualità: figure del presente che, venendo dal passato, sfumano e svaniscono via via nel futuro. Ecco che l’ho detto, ecco che l’ho scritto, reiterando la domanda, cioè mostrando me stesso in divenire e in articulo mortis. Cioè diventando ciò che devo essere e diventare in questa ora pomeridiana, impegnato sui tasti del computer, nella casa silenziosa e nella stanza solitaria. Quindi «realizzato» in queste parole, in queste righe di alfabeto, la cui incarnazione, che immagino virtuosa, è anche, nello stesso tempo e senso, il motivo del loro imminente tramonto e della loro morte: mai più nessuno sarà così, nemmeno «io»; neppure alcuna «ora» o «pomeriggio», sebbene incarnati in una memoria e in un’occasione di rinascita e di reincarnazione (guarda un po’!), ma sempre in corpi «altri» (incluso il «mio») e altrove. Segnalammo la differenza profonda fra il tempo narrato dalla Storia e il tempo della vita quotidiana. Ore immaginarie, anche se non immotivate, e ore vissute. Quel giorno di luglio marciavano verso la Bastiglia: chi, come, dove, perché? Essenzialmente tutto ciò accadeva nel racconto, nel lavoro storico di una vita quotidiana che interpreta segni e li riporta in vita: nel racconto, cioè nel suo tempo quotidiano e nella tomba, talora non definitiva, di un libro, di un discorso, di una lezione, di un giudizio. Come se fossimo stati presenti. Ma allora avremmo avuto tutt’altro da raccontare e da sapere. Chi lavora come storico lo sa, se no che storico è? Però tende anche a dimenticarlo, come qui capita a me di fraintendere la verità vivente del mio discorso come se fosse una verità assoluta dell’umano e della sua storia. Invece è semplicemente (mi dico, e così ricordo il mio maestro e le sue lezioni) come un’ora della giornata di Leopold Bloom, che fantastica una vita e che così la realizza.

 

5 aprile 2024

[…]

 

Hanno osservato, inquieti, la mandria selvaggia dei cavalli che scorrazzano nella prateria (loro al riparo): esseri meravigliosi e pericolosi nella esibizione della loro libera potenza, esseri numinosi (diciamo oggi), esseri «divini» (idem); occasioni per una esperienza esistenziale inimmaginabile, perduta per sempre; forse solo fiocamente rievocabile nei nostri primi incontri e commerci con un cavallo e la «cavallinità» (diceva Platone). A me capitò in Sardegna, nei pressi di Palau, da adolescente. Mi ficcarono su una grande e placida cavalla e io, sgomento, mi resi conto di quanto fosse in alto la mia cavalcatura e, soprattutto, di come l’animale ignorasse totalmente i miei molto prudenti ed esitanti inviti e procedesse tranquilla ad andare dove voleva; in particolare a bere dove le era noto, così che solo poi si risolse a riprendere finalmente il sentiero comune, tornando assieme agli altri. Io, paralizzato dalla paura, sentii di essere in groppa a un essere, a una divinità lontana, ingovernabile e misteriosa. Ecco, ominini delle origini si trovarono ad avere a che fare con i cavalli selvaggi della prateria; è sicuro che impararono a catturarli, a mangiarli, e soprattutto ad addomesticarli, creando una premessa indispensabile al divenire «storico» e «dinamico» dell’umanità: ancora Napoleone, in fuga su una slitta dal disastro della Beresina e in viaggio disperato verso Parigi, ne era totalmente dipendente. Come si cattura, come si uccide e soprattutto come si addomestica un cavallo? All’inizio immagino urla, grida di richiamo, gesti di invito e di orientamento comune e forse una articolazione vocale ripetuta che prende forma identificabile e che significa un po’ alla volta per tutti «cavallo», come oggi diciamo. Ecco che il discorso precede dunque i parlanti, gli ipotetici «narratori», poiché anzi li partorisce. Aveva ragione Heidegger: è il linguaggio che ci parla, che parla in noi, molto prima che noi ce ne impadroniamo e che lo usiamo per esprimerci e per dire «cavallo»; e per farci un’idea concettuale della «cavallinità».

 

6 aprile 2024

 

La verità pubblica di cui parlava Peirce, il senso comune di Vico, sono strutture profondissimamente variegate e inafferrabili: dove cominciano e dove finiscono? Per esempio nel nostro tempo? Qui è necessario sciogliere molte ambiguità e pregiudizi. La verità pubblica non è una «cosa», nessuno la può delimitare, o definire, o osservare dall’esterno (essendone infatti sempre già «dentro»); non è un «essere», ma un «divenire» (per usare un lessico tradizionale, a sua volta improprio e inopportuno, nella sua pretesa ontologica). La verità pubblica è un magma, è un vortice, ma devi togliere quel «è», perché il tuo detto, come ogni detto, vortica nell’infinito nulla in divenire e in movimento, segnandone il destino e nel contempo assegnandovisi: mi comprendi? Se sì, siamo parte di un flusso comune, pur con le sue differenze; se no, siamo comunque parte di un flusso che nel nostro tempo ci comprende, anche se non ne siamo affatto consapevoli, né saremmo in grado di dire propriamente che cosa sia questo «nostro tempo»; un flusso che non mancherà di produrre effetti anche minimi ma innegabili e indistruttibili: credi forse di essere indenne dalle conseguenze di ciò che fanno i musulmani della Mecca o i tecnici di San Francisco? Le loro conseguenze raggiungeranno prima o poi i tipi come te e i tuoi amici. La verità pubblica confina, o diviene, per così dire, all’orizzonte dello sfumare e disfarsi della strozzatura dei corpi viventi e delle loro viventi credenze. È così che spariscono gli dèi falsi e bugiardi e i relativi racconti e discorsi. Più che propriamente sparire, forse dovremmo dire che entrano nel destino di una metamorfosi inarrestabile, una metamorfosi che progressivamente si accompagna con l’oblio. Ogni vita è circondata dal rombo di tuono dei discorsi che si propagano e che svaniscono, come fa anche questo dire con le sue pretese. I musulmani della Mecca inorridiscono, ma non potranno evitare di esserne alla lunga influenzati. Nessuno può evitare di essere influenzato dal cammino della verità pubblica, diceva Peirce; così dico anch’io, investendone i miei amici e sodali: ne pagheremo il fio, assicurava Anassimandro. «Deposuit potentes…» canta il Magnificat di Bach. Intenderei: i prepotenti. La potenza non si può deporre, non si può dismettere, come sa chi porge l’altra guancia, disponendosi così a un’altezza ineguagliabile. L’abito e la potenza si corrispondono: si fa quel che, espressamente o implicitamente, si suppone che sia meglio fare. Meglio per l’agente o per l’attore e qui le cose mostrano la loro irresolubile complicazione. Socrate insegnava che raramente gli esseri umani sanno che cosa per loro è davvero meglio. Magari essere più felici? Ma anche e direi soprattutto quanto alla felicità le opinioni divergono; e poi bisognerebbe sempre dire dove e per quanto. C’è chi si accontenta e chi no; chi ama stare sul presente e sul sicuro e chi ama scommettere sul futuro. I caratteri divergono e con loro le culture. Bello è pro patria mori, si legge nei cimiteri; oggi però troviamo in molti che la cosa sia, a dir poco, invecchiata, ma prova a spiegarlo al terrorista che si fa saltare in aria come Pietro Micca o punta diritto sulle torri gemelle. A questo punto il mio ripetuto «passaggio all’etica» esige a dir poco un chiarimento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *