di Enrico Terrinoni
Nel capitolo 2 del libro III del Finnegans Wake, a pag. 435, tra la riga 7 e la riga 9 (il libro di Joyce si cita canonicamente quasi alla stregua dei testi sacri) leggiamo en passant di quattro vecchi maestri più uno (e anche un altro, ma non italiano), i cui nomi vengono stranamente modificati. Ecco il passo: «hogarths like Bottisilly and Titteretto and Vergognese and Cortaggio with their extrahand Mazzaccio». Per maggior comprensione, mi permetto di fornire la traduzione di una più ampia porzione di testo che facemmo io e Fabio Pedone tanti anni fa per Mondadori:
non vuoi essere una moralella di un artista e posare in nudande come unestatico locale davanti ad alloquati e fourti vecchi maestri, presentandoti, da sinistra a destra partitutte comprise, a hogarthisti come Bottiscemi e Tettaretto e Vergognese e Cortaggio col suo garzuccello Mazzaccio, più la solita sorca dozzina di demodecameramen.
È un passo carico di ogni cosa, come sempre capita in questo testo oscuro di James Joyce. Abbiamo naturalmente il sesso (onnipresente nel libro), un’altalena quasi decadente e wildiana tra moralismo ed estetica, c’è un boccaccio sboccato, ci sono riferimenti al cinema, e così via. Alla luce di questi ultimi, nella girandola delle trasformazioni lessicali, ogni tanto spuntano tra le righe persino quelli che a suo tempo io e Fabio chiamammo i BM, i bonus meaning: significati aggiuntivi, non inclusi nel testo di partenza, ma nati casualmente dalla combinatoria delle lettere, e ai quali capita di ammiccare al futuro più che al passato. Perché questo Joyce invita a fare: collocare la lettura del proprio testo in un futuro che è sempre a venire, e quindi continuamente diverso e inespugnabile.
Emergono così in traduzione, o meglio, in extraduzione, in questa carambola sinaptica a cui ci tocca di partecipare, ricreazioni (nel senso di ricreare e ricrearsi), che rimandano la palla sempre più in là. In questo caso la spediscono più o meno tra Cinecittà e dintorni. Fa capolino, ad esempio, un ritratto promiscuo di donna, le cui fattezze rimandano sia alla monella di Tinto Brass che alla Sora Lella: un rimescolio folle che viene nel testo richiamato da altri echi cinematografici, come un fantomatico “remake osé”, ma sempre romanesco, de La sporca dozzina.
È così che funziona il Wake, perché così funziona in fin dei conti l’invenzione della parola. Joyce ha composto un testo che si libera e ci libera da legami deterministici tra quel che s’è detto e quel che s’è inteso, sia nel senso di intenzione autoriale che di comprensione del fruitore. Ciò non esime, però, dal dovere di rintracciare i percorsi originali. Da quelli si parte, ma poi, trasformandoli nell’infinita reinvenzione verbale necessaria a tradurre l’intraducibile, si dipartono percorsi altri.
Senza ora stare a intraprenderli tutti, basti pensare che, nel passo citato, quel che si nota sono soprattutto i quattro maestri più uno, artisti italiani i cui nomi vengono vagamente storpiati. Perché farlo? Perché modificare il DNA di un nome?
«Cosa c’è in un nome?» è la famosa questione aperta dal Romeo and Juliet di Shakespeare (che tra l’altro, in Joyce diviene «Shapesphere»). I nomi non sono le cose, certo, ma le cose non sono senza i nomi. Ed è forse per questo che Joyce chiama Bruno «nolans brumans». Facendolo, ci parla di foschie che sfumano i contorni, di ombre bruniane, o anche di quelle brume mattutine che dal Tevere dovettero risalire, all’alba del 17 febbraio 1600, per poi rimescolarsi ai fumi veri e propri delle fascine che il grande filosofo bruciarono.
Si badi bene: non è un gioco che Joyce inventa nel Finnegans. Già in Ulysses, dove le parole cambiano categorie grammaticali (almost diventa verbo: almosting), abbiamo una scena in cui una serie di secchi viene rovesciata su un personaggio, macchiandolo in vario modo con pezzi di montone, carote, orzo, cipolle – sporcandolo, per così, a macchia di leopardo. Il verbo che Joyce usa, anzi che inventa, è leopards (ovviamente assente da tutti i dizionari). Qui il passo: «A Yoke of buckers leopards all over him». Sono certo che alla luce del riferimento a Mazzaccio, ehm, Masaccio e compagni, i più maligni potranno qui pensare che in Ulysses esista un riferimento obliquo al poeta dell’infinito.
Perché no? direbbe Joyce. O magari si limiterebbe a un «forse che sì, forse che no», perfetta indeterminazione simil quantistica, o meglio, sovrapposizione felina à la Schroedinger.
Ragioniamo. Quando Joyce scrive l’Ulisse, ovviamente non poteva non conoscere Leopardi (si veda a riguardo il bel saggio di Federico Sabatini, “’In the Flash of an Eye a Multiplicity of Things’: The Poetics of the (In)Finite in James Joyce and Giacomo Leopardi” in Comparative Literature Studies (40) 2012, pp.1-22). Ma d’altro canto, non è che ogni volta che venga in mente un leopardo si debba per forza pensare all’ermo colle. Eppure, come ho detto, Joyce non usa qui una parola nota. La inventa, ovvero, ne cambia la classe grammaticale. Un motivo ci sarà. E a ben vedere, nel farlo, ossia, nello scrivere leopards (terza persona del verbo to leopard) sta a tutti gli effetti scrivendo anche “leopardi”.
Certo è che Joyce non poteva non conoscere poeti italiani di rilievo quali il recanatese, ed è altrettanto certo che aveva il vizio di giocare con le parole, e con i nomi. È curioso, ad esempio, il caso di Carducci. Con lui tenta perfino di identificarsi, in virtù del comune rifiuto della Chiesa. Scrive da Roma, nel marzo del 1907: «Ho cercato di leggere le poesie di Carducci, incoraggiato dal fatto che è morto senza la consolazione dei riti della C.C.R». Più tardi, a Parigi, conoscerà suo nipote Edgardo, musicista, e in una lettera in italiano alla figlia Lucia, del 7 aprile 1935, scherzerà sul loro cognome e anche sul proprio: «In risposta alle tue domande… credo che Carducci abbia letto Carducci perché io leggo Giacomo Giocondo» (Giacomo Giocondo è un gioco che Joyce fa a partire dall’omofonia tra il suo cognome e joys, ossia «gioie»).
Fatte tutte queste lunghe premesse, ci si può naturalmente domandare chi, nel suo particolare pantheon della poesia italiana moderna, sia il grande assente. Un nome spunta tra tutti, ed è quello di Giovanni Pascoli.
Sgombriamo il campo dagli equivoci. Non esiste, o meglio, non esisteva fino a poco tempo fa, alcuna bibliografia su Joyce e Pascoli. Parliamo di un rapporto possibile, quello tra le loro opere, che è tutto da indagare. Ma ora, a differenza del passato, possediamo un punto di partenza che chiamare eccellente sarebbe poco. Ma prima di arrivare a questo libro prezioso, vorrei, come ho fatto prima, rituffarmi nelle maree oscure e montanti del Finnegans in cerca di lumi.
In quel libro, in uno degli innumerevoli passi ancora non spiegati a fondo, incontriamo una frase monca: «If you could me lendtill my pascol’s kondyl». Siamo a pagina 302, tra la riga 2 e la riga 3. Fra i tanti elementi, spiccano soprattutto riferimenti biblici e al rito pasquale. Lendtill si gioca fra lend [“prestare”] e Lent [“quaresima”] ma sta anche per lentils [“lenticchie”], allusione a Esaù che vendette la primogenitura al fratello Giacobbe per un piatto di lenticchie. E poi c’è un enigmatico pascol’s kondyl.
Kondyl rimanda al greco kondylos: unità di lunghezza di circa mezzo dito, ma indica anche una “nocca” o un “nodo” e una “protuberanza”. Da lontano, però, si sente l’eco di un “condimento”, invero legittimata dal contesto culinario. L’espressione nella sua interezza suona come Paschal candle [“cero pasquale”]; e torna la Quaresima, ma anche Pascal.
Di nuovo, perché tutte queste distorsioni e curvature? Joyce ne aveva l’abitudine. Come abbiamo visto, le attuava su nomi altrui e anche sul suo stesso nome: in un passo dell’Ulisse ripete per due volte la parola joy [“gioia”] rendendola di fatto plurale: joys. Ma perché Joyce scrive pascol’s? In un gioco di equilibrismi tra inglese e italiano, come per Leopardi prima, questa sembrerebbe un’allusione a Giovanni Pascoli, tra l’altro autore egli stesso di poesie “pasquali”.
Ma non è finita. A pagina 141, riga 10, leggiamo: “waste papish pastures”: c’è un rimando alla Waste Land del cattolico Eliot (papish “papista”), ma al posto della “terra” (land) abbiamo pastures, ossia “pascoli”. È questo un modo criptico di avvicinare Eliot e il poeta di San Mauro di Romagna?
Non lo sapremo mai, anche perché Joyce non ha lasciato scritto nulla che direttamente rimandi a Pascoli. L’unica allusione è indiretta: appartiene a un taccuino inedito e per ora impubblicabile, del fratello, in cui sono annotate le sue conversazioni con James. Qui Pascoli e Carducci sono definiti word mongers ossia “mercanti di parole”.
A tentare di dirimere, e in maniera brillante, l’arcano del rapporto Joyce-Pascoli ma non solo, c’è ora, di Andrea Cortellessa, Forse che sì. Joyce tra Pascoli e Gadda (Quodlibet, pp. 96, euro 12,00), un libro tutto giocato sul delicato equilibrio tra il negare e l’affermare, tra i sì e i no. Sono queste «cellule verbali», spiega l’autore, pronunciate da personaggi distinti e distanti, ma che, come particelle in un entanglement quantistico, finiscono per dialogare.
Iniziamo col dire che il libro di Cortellessa è anche un libro sui nomi: «Non credo sia peregrino interrogarsi sul perché Joyce abbia chiamato proprio Molly la moglie di Leopold Bloom». La strada che segue lo studioso per illuminare zone d’ombra di questa scelta joyciana (che è stata spiegata in tanti altri modi, di cui nessuno esclude l’altro) è di ricorrere a una serie di corrispondenze innescate dal poemetto Italy di Pascoli, pubblicato nel 1904, anno in cui Joyce arrivò in Italia.
Uno scrittore come l’irlandese, che teneva alla parola «corrispondenza» tanto da utilizzarla persino all’interno dei suoi schemi interpretativi dell’Ulisse, ci invita eccome a letture come quelle proposte da Andrea Cortellessa. Epigono degli ermetici, Joyce scrive libri pieni di corrispondenze che sono casuali per i personaggi, ma non per i lettori che ne scorgono la natura epifanica, rivelatrice.
E allora, il poemetto Italy di Pascoli, col personaggio Molly e il suo dire affermativo (il suo yes rimanda ai vari yes nel finale dello Ulysses fino all’ultimo che quasi chiude il libro), diviene qualcosa di più di una corrispondenza accidentale. Sembra appartenere proprio a quel gioco di rimandi a cui l’irlandese ci abitua nei suoi testi, mai regalando soluzioni, ma sempre aprendo a possibilità. Come quella di giocare tra inglese e italiano. Cortellessa si sofferma su queste dinamiche che tramutano Molly prima in “molli” e poi nella pianta “moli”, che salva Ulisse dagli incantesimi di Circe.
Verrebbe da dire che al lettore di questo libro può essere utile giovarsi proprio del moli ermetico, per evitare pericolose trasformazioni. Ma Cortellessa ci fornisce appigli che rassicurano, e con formidabili intuizioni, si muove percorrendo un itinerario joyciano che lo porta anche altrove: ad esempio nei meandri di un altro poemetto (in prosa) che Joyce compose sempre in Italia ma che mai mandò alle stampe. Lo conosciamo come il «Giacomo Joyce» (anche se il titolo è solo il nome apposto sul taccuino in cui fu vergato). È l’unica sua opera non “ambientata” in Irlanda, e per questo ci parla di esili e partenze (proprio come il poemetto pascoliano). Nel lambirne i segreti, Cortellessa isola proprio quella parola chiave per Joyce, yes, che si rivela fondamentale per il nesso con Pascoli.
Con accorto acume, sapendo di calcare un sentiero le cui sole certezze non sono che possibilità, il critico ci porta poi a un’altra connessione fondamentale, di cui s’è in passato scritto di più, quella tra Joyce e Gadda. A unirli c’è quella che è stata chiamata da Gabriele Frasca la «funzione Joyce». Frasca è, infatti, autore di importanti contributi che ricollocano l’uscita in volume del Pasticciaccio nel 1957 all’interno di una «onda joyciana», quasi a suggerire una «filiazione… in condizioni dichiaratamente non generative». Si tratta di connessioni istaurate secondo paradigmi non deterministici, ma seguendo quasi quella teoria della «vita oltre la morte» dei testi, applicata da Benjamin alla traduzione, e che qui può riconfigurare il discusso concetto di influenza letteraria.
Con la sua narrazione floreale, come gli echi che porta con sé il nome Molly («nome inequivocabilmente floreale» spiega Cortellessa «, e in quanto tale, abbastanza precisamente pascoliano (nonché, a monte, dantesco, virgiliano, e ancora una volta omerico») questo libro è un caleidoscopico viaggio del tutto inaspettato anche per chi sia più addentro ai misteri della testualità di Joyce.
L’accostamento Joyce-Pascoli-Gadda ha un che di rivoluzionario e di geniale. Ci viene presentata tutta una serie di corrispondenze che possono sembrare casuali, mancando di «prove provate», ma che probabilmente non lo sono.
Il libro ci restituisce una storia sconosciuta, un «labirinto di specchi», fatto di echi e di rimandi, le ragioni della cui tessitura resteranno forse inconoscibili. Ma è in questo oceano di onde che incrociandosi s’accrescono che il critico brilla. Cortellessa entra nel testo e nella testa dell’irlandese con una competenza da vero joyciano. Scava in territori non ancora sondati, producendo una lettura corsara, eretica e davvero stimolante.
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[Il libro verrà presentato in occasione del prossimo Bloomsday: a Caffè San Marco di Trieste, alle 19 di domenica 15 giugno, da Riccardo Cepach ed Enza Del Tedesco; al Teatro Ateneo di Roma, alle 17 di lunedì 16 giugno, da Giulio Ferroni e Carmen Gallo, coordina Gaetano Lettieri.].
Buongiorno,
molto interessante!
Mi permetto di segnalare che nel 1904, anno dell’arrivo di Joyce a Trieste, Pascoli oltre che “Italy” pubblicò i “Poemi conviviali”, una rilettura in sedici poemetti del mito di Ulisse. Opera ingiustamente negletta a scuola e non solo. Si veda a proposito l’intervista di Federico Pietrobelli a Francesco Zambon che abbiamo da poco pubblicato su Lapisclamans
https://lapisclamans.com/2025/05/02/dialogo-con-francesco-zambon-1-2/ https://lapisclamans.com/2025/05/16/dialogo-con-francesco-zambon-2-2/ Filippo Bruschi