di Piero Salabè
Chi è poeta, lo diventa sempre più. Con il tempo, infatti, risalta più chiaramente la portata e profondità di una poetica. Il chiaroscuro che domina nell’ultima raccolta di Fabio Pusterla Fiumi nefrite vortici (Marcos y Marcos, 2025) lo conferma come uno dei poeti che hanno assorbito in modo più originale la lezione della poesia italiana novecentesca. Lo si è voluto collegare alla corrente della “linea lombarda” per l’impegno civile e la tendenza “antimetafisica”, ma in questo nuovo volume il poeta ticinese si cimenta, come mai forse prima, con un tempo non storico, con il “tempo allo stato brado” come si legge in una delle più belle poesie, Ponte pedonale. La metafora del “fiume”, che dà il titolo dell’opera, sta a indicare la ciclicità cieca del tempo: “Andiamo verso / nuove forme nuovi modi dell’essere // o giriamo sempre in tondo senza saperlo?”, si interroga Pusterla dinanzi a nuove guerre, soprusi e tragedie che si avvicendano nel nostro mondo, dove “un’incosciente acqua di piena riaccende i predatori”.
Ciclicamente, tuttavia, avvampa anche la gemma della speranza. “Gemma” non è solo una metafora, ma anche il nome della giovanissima nipote del poeta, portatrice di buoni auspici. Anche la “nefrite” del titolo, non è solo l’infiammazione renale da cui è affetta l’anziana madre del poeta, ma appunto la pietra-talismano, il cui colore, come quello di un corso d’acqua, può presentarsi nei toni più diversi, giallastro, bruno, rossastro ma anche bianco o grigio, o il più pregiato verde. Con sapienti dettagli, soprattutto nella parte iniziale, Pusterla giustappone il corso della vita individuale a quello della storia umana con il suo eterno ritorno delle tragedie: ecco che dal rimosso di una vita personale apparentemente placida emergono inquietanti parallelismi con l’epoca più buia del secolo scorso: basta un frammento fotografico (la svastichina bianca su una bandierina del 1929), il ricordo della scritta Dux su una parete rocciosa che giunge a “smuovere qualcosa in modo irreparabile” oppure l’eco di una canzone che si credeva russa ma era ucraina. Il rimosso riemerge con forza perché ci troviamo in tempi di guerra a poche centinaia di chilometri dalle nostre frontiere, eppure anche il ricordare è subito minacciato dalla sommersione. Nelle poesie di Fiumi nefrite vortici pare che la storia umana non abbia direzione, che tutto finisca in “un grande oblio delle tenebre”, dinanzi a cui la mente umana appare impotente “infetta sfatta sfitta / che centrifuga / spazi tempi memorie // in vortici disattenzioni / incurie / atomi impazziti scorie punti di fusione.” E dunque, al poeta non resta che intonare una piccola “sinfonia del fango”, espressione ripresa da Arthur Koestler. Pusterla pone le questioni – spesso atroci – della condizione attuale, senza trovare risposte, sbocchi: “qui si deve camminare, / dove andare non si sa”, si legge in una poesia, e poco più avanti il nostro stato viene così riassunto: “Stai in bilico come sopra un burrone / un piede di qua uno di là e sotto il rombo / di un fiume invisibile.” Questa cecità potrebbe condurre alla disperazione, eppure “nel non sapere” il poeta ticinese scopre, d’un tratto, anche uno slancio estatico, “una gioia inaudita”, perché percepire le vibrazioni delle acque sotterranee significa essere ancora in vita, avere la possibilità di operare nella realtà: “Fatica non è mai troppa per chi non rinunci a / a vivere la vita.” La vita è distruzione, ma anche rinascita, e dunque vale la pena passare le consegne alle nuove generazioni, a Gemma, allegoria in cui riecheggia il puer della IV Ecologa virgiliana. Nel “farsi della vita che non sa / non può finire e si fa strada lì davanti a noi” sorge anche una singolare, paradossale speranza. La vita può manifestarsi nella sua ignoranza e crudeltà – resta impresso in Schizzo metropolitano quel ragazzo che grida “ ti consiglio / di tingere i capelli” al poeta incanutito, reduce da un esame in cui la candidata confonde l’anno 43 col 45 –, ma può essere anche “sgrezzata” grazie a una presa di coscienza in cui memoria personale e collettiva si propone come un cammino per interrogare e possibilmente (ri)trovare l’umanità. Ricerca incerta, eppure appassionante: “qui si deve camminare, / dove andare non si sa”. Da guida, nonostante tutto, possono fare le parole: “le povere parole / hanno orientato il viaggio e gonfiato le vele / tenuto duro quando il vento si smorzava. // E sono ancora loro che ci guidano / davanti ai resti di non si sa cosa. Loro che dicono / questa è una cupella preistorica / un tratto umano su pietra ormai illeggibile.” La fiducia nelle parole, nella loro capacità di significare, è la sfida al mondo informe e insensato, al “tempo brado”, sfida forse a perdere, ma necessaria: “tornano le stelle con la loro parola stellare. / … su questo cielo di niente / tornano. … Tutti gli astri. L’amore e il bitume.”
In questa chiusa dal sapore dantesco, pur disillusa essendo il bitume messo sullo stesso piano dell’amore, si percepisce il congedo da una stagione di univoca disperazione. Il poeta divenuto con il tempo sempre più poeta, pur avendo visto crollare uno dopo l’altro gli ideali del secolo scorso, trova ancora la forza dell’invocazione: “prova a parlare cerca le parole non arrenderti / guarda in alto inventa luce cerca stelle”.
“Il poeta divenuto con il tempo sempre più poeta, pur avendo visto crollare uno dopo l’altro gli ideali del secolo scorso, trova ancora la forza dell’invocazione: “prova a parlare cerca le parole non arrenderti / guarda in alto inventa luce cerca stelle”.” (Salabè)
+
” guarda in alto inventa luce cerca stelle”, Sì, sì…ma qua continuano ad ammazzare, ammazzare,
“E le stelle stanno a guardare” anche loro! Dopo un po’ – guardi tu, guardano loro – sai che noia. Non lo sentite, no, il puzzo dei cadaveri?