di Alessandro Mantovani
[Esce oggi, nella collana “Apnea” di Mar dei Sargassi Edizioni, Geografia sommersa, libro d’esordio di Alessandro Mantovani. Ne pubblichiamo un estratto]
VIA WALTER FILLAK – CADUTO PER LA LIBERTÀ
TAPPA II
Aspro poi era traversare la farmacia.
Fuori, il distributore di preservativi
lo chiamava come da un’altra era,
era un idolo malvagio e lui,
mai solo nei suoi nove anni,
storceva l’occhio sinistro
allungando la smorfia in una curva
per un solo assetato sguardo.
Così gli dilagava dentro tutta
la vergogna della libidine ed era
già un vecchio pelato che sbava
o una scimmia con il ramo, il fuoco
e il tamburo, in una grotta di violenza
e falli eretti.
Dalla macchinetta irradiava
la volontà del sopruso, una redenzione
fatta di vendetta che passa
attraverso il dolore degli altri.
Così il suo sguardo diventava una frattura
e sognava culi e bocche di femmine
da sbranare con i suoi nuovi
artigli, fare a pezzi con le zanne
e non limitarsi, ma godere – perché no –
di ogni liquido, ogni tessuto molle.
Era il delirio della morte, l’aculeo
che scoppia il mondo e tutti, tutti,
sottomessi a chiedere pietà.
La madre, cogliendo uno strano indugio,
lo tirava sempre per la mano.
Vedeva solo l’occhio destro.
*
PIAZZA DEL MONASTERO
Ispira santità il nome dello slargo
dove Alberto è diventato esperto
di puttane. Tutte le notti – a casa
o in compagnia – il suo pensiero
è corroso dalle fiche e dalle gambe
quelle con i peli quelle glabre – la negra
come dice lui, la bassa, la bulgara
e il potere infinito di rubare la macchina
di sua madre e andare come si fa al mercato
e Alberto freme perché tutto finisca:
la ragazza dello spritz, gli amici gagliardi,
le pizze, tutto finisca, oppure si contorce
in scuse per stare solo e sibila bestemmie
agognando a spazi migliori e tempi e attrezzi
per appenderle e con le mollette rompere
capillari. Ma Alberto ha vent’anni e studia,
i soldi li ruba poco a poco anche agli amici
per la sua ronda di manie: gira l’occhio e la ruota,
si gratta il cranio, smascellando Alberto
domina il mondo la notte con insulti
e i corpi rifiutando testimoni, la vergogna
del suo pianto velenoso, il suo viscido ventre
da iguana che cova uova di rettile,
succhia il sangue e lascia buchi,
la vita vissuta come una contusione.
*
VIA MATTEO VINZONI – INGEGNERE CARTOGRAFO – LA SCALETTA DEI DROGATI
Ci sono volte che quando cammina
giù per la discesa, Federico
sente poderose gonfiarsi attorno a sé
le opprimenti labbra del mondo.
Allora corre per la scalinata
– che un ricordo di bambino
ha chiamato “la discesa dei drogati” –
ma ogni volta di specchiarsi spera
in uno con la siringa appesa al braccio
oppure incastrata tra le dita
dei piedi. Prega di alzare
un cappuccio e specchiarsi
nei loro occhi di melassa e zenzero
e potersi dire in una culla di pietà,
dimenticare: il bus alla fermata, le aule
dell’università, i libri oppure
schiacciarsi così tanto contro il muro
e trovare finalmente una crepa
dove incistarsi ed essere lui
un guardiano un’anima buona
e compagna alla marcescenza
dei cadaveri squagliati negli Agosti,
il petrolio primordiale delle città.
*
VIA WALTER ULANOWSKI – CADUTO PER LA LIBERTÀ
Emanuele passa i suoi trent’anni
celandosi in sentieri sempre più stretti;
i suoi interlocutori: spezie, erbe, lucertole
poi qualche pozza o rivo tra i ciottoli.
E a loro dire come vivere sembri
un gioco di specchi, ora che tutto è
una lotta, ora che tutto è feroce
nel mantenere una dignità sotto
i tagli imposti dal tempo, lui,
con la sua pesante bilancia,
luminosa quando salva destini.
Ma una notte Emanuele ha sentito il rumore
di passi stendersi su per la cucina
e ha tremato. Pensava al suo possesso,
ai beni, le sue teche, la televisione
sempre più grande. E invece era
suo padre sotto il faro
di un’era sgretolata che apriva
le braccia mostrando ancora
il suo cinema privato, l’angolo
delle chincaglierie, lo guardava
con gli occhi della fine
chiedendo che ancora una volta,
prima di arrivare nell’altrove,
fosse il tempo di una misera scenografia
o di un film mandato a memoria.
La chiave di un linguaggio d’amore
da portare con sé e così
forse sopravvivere.
Stava in questo modo al centro della sala
e della notte, attorniato lui dai cani,
un’ombra di spavento e ossa
oltre il confine del respiro
ed Emanuele è il bambino
braccia paffute il mondo
che stringeva in un bisogno,
ma ora, uomo della nostalgia,
solleva il cumulo di pelli
che è suo padre e lo accompagna,
lo sguardo trafitto di un eroe.
*
MONASTERO DI OSTROGH
Ritirato nella posizione del cane
seguo improbabili le tracce
di un tempo non più mio.
Non una tana da difendere
o un sogno, un poggiare di pietre,
ma solo un ritardo biologico
ineccepibile e puntuale per il quale,
qui disperso, non bastano gli alfabeti
né gli dei.
Quando febbrili le costellazioni la notte
imbrogliano i miei sogni di veleni e
il futuro appare un bacino inquinato,
mi folgora un lettino nella campagna
di Balestrate, una porta semichiusa
per non far entrare i ratti, i piedi
anneriti dalla festa, tuo padre che pota
i nespoli e io lì già pendente nel mio Luglio
le gambe chiuse al petto, impossibile la parola.
*
Antares veglia sui suoi sogni di scorpione
che ogni notte abbraccia temerario
col piacere di chi esce dalla vita
per un po’ e dà la caccia con tecniche
sbilenche – aste e pungiglioni – ad ogni
tipo di preda.
Sogna e preferisce sognare perché
di giorno vivere gli oscilla nella testa
come un errore oppure come la morte.
Scegliere non sa, ha detto una volta
alla vicina davanti al banco dei formaggi
che scegliere non sa scegliere e che
l’asprezza della fontina non regge
la lussuria del gorgonzola e però il grana
o lo stracchino vorrebbe un pezzo e un pezzo,
lui con le sue chele con la sua coda
pronta ad infilzare ogni bene ogni
nutrimento. Pensa di sognare,
ma di notte sta con il muso proteso
ad aspirare succhia e lecca visceri
di ogni tipo vacca volpe pollo lupo.
Gli abitanti del paese lo vedono poco
lui è tranquillo e abita in alto, l’ultima casa.
Ma Antares da galassie brucia la sua mente
ulcerata e vergognosa, lo scruta ogni notte,
poi lo perdona.
*
Vedeva Vega guidando e pensava
a quella volta che il dito indicava
nel freddo un confine acuminato
di notte e acuti formavano
angoli i picchi tutt’intorno.
La Lira suonava nella sua mente
la melodia effusiva che fanno le api
quando meditano il miele
e covano nei favi un’apertura
che spalanchi ogni granello
ogni chicco, seme deposto
in un palmo o nella chiostra
magnifica dei denti, bianchissimi.
*
I
Gridava l’intestino della metropolitana
ed era il calore, un abbandono grondante
il divieto che interrogava la gola
colando insistente dentro ai sogni
mentre noi, noi cercavamo
la possibilità di una stasi, una pausa
un ritmo frattale, ma proprio sui binari
corse infinite e i nostri discorsi,
abbreviazioni stenografiche del mondo.
II
Aveva la voglia matta degli uragani
la ferocia millenaria nelle viscere,
gambe da cerbiatto e mani imprecise
nelle linee per i traumi di grandini
e cornicioni. Apprendeva l’arte
privata del camaleonte e quella
del mustelide che costruisce muri
poi mangiava mele ed altri frutti rossi
in colazioni infinite. La domenica mattina
tutto è in un punto, ricco di ruggine e dolcezza.
III
Una linea provenzale hai proclamato
stazionare ai lembi degli occhi
ed era la notte a sgretolarsi e suture
si aprivano in lame, in passi scivolosi.
I tuoi anni srotolati nel fracasso
di molte bufere e partite mai sapute
li ho visti annidarsi nelle calze,
l’odore – dici – è senza profumo,
un libro viola, un tributo di ore.
IV
Poi ci fu la stasi: sotto una torre
romana o davanti alla ferrovia
che porta alle montagne, in un balcone
disabitato o sulle soglie della foresta:
tutto sempre in agguato. Poi intervennero
i racconti: i delitti del professore
di lettere, le tentate fughe verso
il mondo, gli scogli roventi, la passione
delle strade nell’estate cieca
di separazioni, le buche inerti
delle lettere facili da aprire.
V
Diceva dei suoi pochi libri, di Parigi
una promessa, un futuro di sali e che
le robinie infestanti abbattevano
con calci le logiche del tempo. Fumava
poche sigarette al giorno e consultava
righe di testo ed esagrammi
alla luce fioca del letto. Il viso
invalicabile ed echi nel cranio
sussurravano i covi brutali e le rocce
che trattengono le acque.
VI
Quando ci svegliammo era già tardi
per le beccate dei merli, i giardinetti
pieni di escrementi e di siringhe.
Ma la mancanza che per me
avevi collocato nel cortile, vegliava
sulla stanza, munita di una voce
che diceva: “Sarà sempre tutto
uguale, tutto perso, sarà sempre tutto .”