di Francesco Permunian

 

[Esce domani, per Ponte alle Grazie, il nuovo romanzo di Francesco Permunian, Giorni di collera e di annientamento. Anticipiamo qui, per gentile concessione dell’editore, il capitolo IV della prima parte del libro].

 

Una gita a Predappio

luglio 2019

 

Mai vista un’estate così torrida e secca, da andar fuori di testa! Sarà dunque il caldo o la stanchezza, ma ho una gran voglia di evadere dal solito tran-tran quotidiano. Dalla solita grigia e monotona routine del mio monotono lavoro di editor.

E quindi con tutte le precauzioni del caso (senza dirlo a nessuno e tantomeno a colleghi e parenti), l’altro dì sono stato al cimitero di Predappio per il centotrentaseiesimo compleanno di Benito Mussolini.

Ad esser sincero, ci sono andato non per ragioni politiche ma per far da cavalier servente a quella gran gnocca della signorina Patrizia che, essendo la figlia di un’ex ausiliaria della rsi, non si perita di sbandierare opinioni di marca dichiaratamente fascista, se non addirittura nazionalsocialista.

 

«Mia madre ha danzato col Terzo Reich!» ama vantarsi quell’esaltata, semplicemente per dire che la sua cara mammina andava a ballare (e poi a letto) con gli ufficiali tedeschi al tempo dell’occupazione nazista… Lo sapessero alcune mie amiche femministe, quelle più scatenate, mi scuoierebbero vivo sulla pubblica piazza, è garantito!

E a maggior ragione se venissero a sapere che per ingraziarmi la bella Patti, poco prima della partenza per Predappio le avevo regalato una candela profumata di Gwyneth Paltrow, quella reclamizzata sul sito dell’attrice come «l’odore della mia vagina» («This smells like my vagina»).

Omaggio molto gradito e apprezzato, tra l’altro, cosicché dopo la candela della mona, ho felicemente accompagnato quella gran mona di Patrizia sulla tomba del duce. Dove siamo arrivati nel primo pomeriggio a bordo di un sidecar ks 750, una di quelle moto con carrozzino per il passeggero prodotte dalle officine meccaniche Zundapp e destinate originariamente alla Wehrmacht.

 

Quanto al viaggio, sia all’andata che al ritorno, è stato un lungo calvario: me ne sono rimasto imbozzolato in quello scomodo carrozzino con le chiappe che strisciavano pericolosamente sull’asfalto delle strade romagnole, tutte piene di buche, dossi e cunette.

E se Patrizia, nell’ebbrezza della corsa, aveva sciolto i capelli al vento e beata cantava Giovinezza, giovinezza!, al contrario io, che giovane non sono più, me ne stavo zitto zitto con una specie di camauro papalino ben calato sulla fronte onde ripararmi dalle correnti d’aria: soffro di sinusite, basta un refolo d’aria fredda e finisco ko!

Infine nel cimitero di Predappio, davanti alla cripta di Mussolini e alla presenza di due giornalisti di estrema destra – due che da ragazzi avevano militato nell’area punk e che ora adoravano il duce e Giovanni Lindo Ferretti –, io li ho presi elegantemente in giro, tutti quei passatisti del cavolo.

Tant’è che a un certo punto mi sono messo a leggere o, per meglio dire, a «recitar cantando» con quell’inconfondibile understatement da crooner quale io sono (e sempre sarò, nonostante lo Strega) un foglietto tutto stropicciato e intestato al manicomio di Rodez.

 

Spacciandolo, quel pezzo di carta, nientemeno che per la missiva che Antonin Artaud, ivi recluso, ebbe a scrivere nell’ottobre del ’43 a Pierre Laval, il capo del governo collaborazionista di Vichy.[1]

Oddio, era soltanto una fotocopia, anche se abilmente spiegazzata e «antichizzata». Un semplice bluff alle spalle di quei fascistoni ignoranti, che mi presero sul serio per un simpatizzante dell’estrema destra transalpina, quella di Marine Le Pen.

E che ignoravano persino l’esistenza del Bastone di San Patrizio, da me tirato in ballo al solo scopo di lusingare la vanità della mia giovane amica. Che di quella santa verga porta il nome, e che di verghe non è mai sazia!

Quanto invece al sidecar – e alle curiose circostanze in cui feci la conoscenza di Patrizia –, la storia sarebbe lunga da raccontare.

 

Basti dire che il rombo di quella moto militare, amplificato dal silenzio notturno, mi tenne sveglio in più di un’occasione. Perché era appunto in piena notte, quando io già dormivo come un ghiro, che quella crepitante motocicletta transitava sotto le mie finestre facendomi perdere il sonno.

E obbligandomi, giocoforza, a impasticcarmi di sonniferi pur di assopirmi. Almeno per qualche ora, tanto che una volta mi appostai davanti alla porta per dirimere per sempre la faccenda.

Grande tuttavia fu la sorpresa nel momento in cui bloccai la corsa di quel centauro (mi ero piantato in mezzo alla strada assieme a un vigile urbano, in divisa di servizio e con relativa paletta segnaletica).

Di primo acchito credemmo infatti, io e il vigile, di avere a che fare con un giovinastro di ritorno da qualche balera, pronti a multarlo e a ritirargli la patente di guida, che era il mio vero intendimento.

 

Quando però quel motociclista si levò il casco, ci trovammo di fronte una moracciona che ci squadrò dall’alto al basso. E che con un fare strafottente e gladiatorio, così ci apostrofò: «Che cazzo volete da me? Io sono la Patti, a tutti nota come la Funebrera, e tutti sanno che non ho tempo da perdere!»

Vestita interamente di scuro – nera la giacca a vento, neri i pantaloni e gli stivali (neri pure i capelli che, striati d’henné blu notte, mandavano dei funerei riflessi) –, ad un tratto mi accorsi che quella sconosciuta sfoggiava all’occhiello una croce di ferro nazista, il che mi fece nascere il sospetto che fosse una naziskin appena uscita da un covo paramilitare. O magari da qualche messa nera, come esserne certi?

Lo fummo quando il vigile urbano, documenti alla mano, chiamò la centrale operativa della Stazione dei Carabinieri. Dalla quale apprendemmo che la donzella in questione, di nome Patrizia, ogni notte se ne tornava a casa a quell’ora dopo aver fatto marchette all’Hotel Paradiso, quella casa di tolleranza in cui è stata trasformata l’antica locanda Alle Tre Marie.[2]

 

Un altro particolare che m’è rimasto impresso fu che nella carrozzina del sidecar, infagottata in una spelacchiata pelliccia sintetica, sedeva la madre della suddetta centaura, ovvero madame Iolanda Salvioni Salvietti. Che da quando era rimasta vedova, e senza altri mezzi di sostentamento, abitualmente seguiva (e assisteva) la figlia nell’esercizio del meretricio professionale.

E fu dunque lei, quella vecchia megera, a supplicarci di lasciarle andare: «Su, bei giovanotti» ci implorò, «fate passare la mia bambina che non ve ne pentirete!»

 

Storia di una Derringer

 

Una coppia di stagionati e stizzosi amanti clandestini, che di clandestino hanno ben poco visto che da più di vent’anni s’incontrano regolarmente in un albergo a ore per rinfacciarsi a vicenda di aver mancato le «gioie del matrimonio», ebbene, il mese scorso questi due rincoglioniti si sono lamentati con la direzione dell’Hotel Paradiso in quanto un loro vicino di stanza (un tizio che strillava con una vocetta da eunuco: «Ti ammazzo, Patrizia, adesso ti ammazzo!») si è affacciato alla finestra travestito da donna e, impugnando una pistola, ha iniziato a sparacchiare per aria senza alcun preavviso. Col rischio di provocare l’intervento delle forze dell’ordine e di rendere così di pubblico dominio la loro pluridecennale relazione adulterina.

Ora, quel pistolero dalla vocina delicatamente effeminata, io lo conosco. So benissimo chi è, non per niente in paese gli è stato affibbiato il nomignolo di Evelyn il Delicato.

 

Tutto questo si sa, ripeto. Ma che tale si dimostrasse fino al suo ultimo respiro, ossia irriducibilmente snob e schifiltoso, questo nessuno l’avrebbe mai messo in conto.

Mai io mi sarei infatti aspettato che quel frivolo dandy di provincia, l’Evelino Pucciasky (per gli amici: Pucci la Pedalina), inopinatamente si mettesse a strofinare il cane di una pistola da signora con un pezzo di cioccolato; e per di più una domenica mattina, sul sagrato della chiesa, giusto all’ora della messa grande!

E mai e poi mai avrei sospettato, lo giuro, che al termine di quel curioso strofinamento dolciario e mentre i fedeli uscivano dal duomo, di punto in bianco il Pucci si ficcasse in bocca la predetta pistola (una Derringer calibro 6) quasi per gustarne il sapore, salvo poi spararsi un colpo che gli aveva trapassato il cranio.

Perché l’ha fatto? si sono chiesti in tanti. Forse per ragioni finanziarie o problemi di salute. Io però non ci credo, Evelino era sano come un pesce e di famiglia più che benestante. Suo padre, il vecchio Pucciasky, prima di ritirarsi dalla professione aveva messo da parte soldi, terre e case in abbondanza.

 

L’ha compiuto allora per amore, quel gesto così sconsiderato? Chissà, magari la pista passionale è quella giusta. Ne ho avuto conferma dal nostro curato.

Accorso sul sagrato del duomo, in cui aveva appena terminato di dire messa, don Stefano aveva impartito la benedizione al corpo senza vita di Evelino. Dopo di che gli aveva preso le mani per congiungerle sul petto, come si fa per i defunti, solo che la mano sinistra era talmente chiusa a pugno da non volersi aprire.

«E sa cosa serrava tra le dita, quello sventurato?»

«No» ho risposto. «Non ne ho la minima idea».

E lui, facendosi rosso in viso: «Teneva in mano una foto scandalosa… Era quella della signorina Patrizia in costume adamitico, capisce cosa intendo? E la stringeva a sé così fortemente, quell’immagine discinta, quasi a non volersi staccare – neanche da morto – da quella pubblica peccatrice».

 

A tale rivelazione, sono rimasto di sasso. Certo, sapevo che Evelino era un cliente abituale di Patrizia, lei stessa me ne aveva accennato, tra l’altro era uno dei clienti più innocui e stravaganti.

Innocuo in quanto apertamente gay, cosicché con lui tutto sommato Patrizia se la sbrigava abbastanza in fretta, limitandosi a incularlo con un grosso dildo di metallo cromato. Come d’altronde faceva normalmente con le lesbiche.

Estroso e bizzarro per istinto naturale, il Pucci sfiorava invece il grottesco quando si travestiva da donna con gli abiti di sua madre o di sua zia Emerenziana.

Memorabili le passeggiate in pieno centro di Milano sottobraccio a Patrizia: lui abbigliato da femme fatale, alla Greta Garbo, lei da amazzone guerriera con tanto di scarponi militari. Leggendarie le loro sortite tra una boutique e l’altra di via Montenapoleone, in una fame da shopping compulsivo che si concludeva immancabilmente ai tavoli della pasticceria Cova.

 

E potrei star qui a raccontare, per ore e ore, le loro mirabolanti imprese ai limiti dell’incredibile. E dell’umana decenza…

Come quella sera d’estate in cui Patrizia salvò il culo – nel vero senso della parola – all’incauto e ingenuo Evelino, che si era fatto impalare da due giovani pescatori gardesani.

I quali dopo averlo attirato in un tranello amoroso dietro promessa di immediate «nozze druidiche», sempre di moda sul lago, gli avevano rotto lo sfintere sodomizzandolo col remo di una barca. Salvo poi abbandonarlo, semisvenuto e sanguinante, su una piccola spiaggia sotto la Rocca di Manerba.

Dove, a sirene spiegate, era accorsa Patrizia per caricarlo sul sidecar e trasportarlo d’urgenza non all’ospedale di Desenzano o di Gavardo, come sarebbe stato più logico, bensì in un salottino segreto dell’Hotel Paradiso.

 

Che, detto tra noi, era uno speciale, anzi, specialissimo e privatissimo poliambulatorio denominato la sartoria, dato che tra quelle quattro mura, oltre a praticarsi degli aborti clandestini, si rammendavano e rattoppavano altresì le ferite degli incidenti sul lavoro.

Le più frequenti delle quali erano le escoriazioni cutanee conseguenti a furiose colluttazioni erotiche (piuttosto ricorrenti, mi dicono, nei rapporti sadomaso più brutali ed estremi), seguite a ruota da sistematiche lesioni vulvari di svariata entità e gravità.

E il tutto – tutto questo continuo «taglia e cuci» sulla carne viva delle pudenda umane – avveniva quotidianamente in quel luogo di piacere. Che tempo addietro, lo ripeto, era stata una locanda per pescatori mentre oggi, dopo una pacchiana ristrutturazione in stile Dubai, può a buon diritto fregiarsi del titolo di Hotel Paradiso.

Ma tutto questo, si dirà, non ha granché importanza, meglio lasciar perdere e andare avanti! Sarà anche così, io però non posso dimenticare che il proiettile che aveva trapassato il cranio del Pucci era partito da una Derringer, vale a dire da quell’arma che un dì Patrizia non aveva esitato ad impugnare per difendermi. Sfoderandola a tutela della mia dignità, vilmente oltraggiata e derisa da una masnada di stagisti e collaboratori editoriali.

 

Il fatto o fattaccio, vedete voi, accadde sulla strada per Segrate, subito dopo il San Raffaele. Lo riassumo sinteticamente, anche perché non c’è nulla di cui menar vanto.

Quel giorno, appena usciti da Milano, procedevamo dunque io e Patrizia a bordo del suo sidecar. Come sempre, la strada era intasata di macchine e lei già si pentiva di essere venuta a prendermi, quando, dopo una curva, ci trovammo davanti il pulmino della casa editrice presso cui allora lavoravo.

Era pieno di ragazzi e ragazze che frequentavano un corso di editing alla Fondazione Mondadori e che venivano da noi, nella nostra redazione, a fare un tot numero di ore di praticantato.

Erano tutti stagisti e, va da sé, tutti aspiranti e sedicenti romanzieri: attraverso i vetri del pullman ne riconobbi infatti più di qualcuno, dato che ero un loro tutor.

Sennonché mentre Patrizia tentava una spericolata manovra di sorpasso, quei deficienti abbassarono i finestrini e, vuoi per scherzo o per chissà cosa, presero a inondarci di sputi e pernacchie.

 

Trovandomi in una posizione palesemente svantaggiata – loro in alto, io nel carrozzino del sidecar col culo quasi per terra – quei malandrini non avevano alcuna difficoltà a offendermi e sputacchiarmi e, al limite, perfino a pisciarmi in testa…

Era insomma un tiro al bersaglio, a cui io rispondevo facendo delle orrende boccacce e il gesto dell’ombrello. Nonché replicando a gran voce: «Non mi fate paura, brutte piattole amorfe, tanto lo so che siete più bravi a sputare che a scrivere!»

Nel medesimo tempo Patrizia sbuffava e sacramentava contro il conducente del pullman che, invece di lasciarla passare, la ostacolava cercando di spingerla fuori strada.

Dapprima le faceva cenno di venire avanti ma poi, quando il sidecar era già in fase di sorpasso, di colpo sterzava al centro della carreggiata impedendoci di proseguire. E così per due o tre volte di seguito, mettendo seriamente a repentaglio la nostra incolumità.

 

Fu in quel frangente, al terzo tentativo di sorpasso andato a vuoto, se non sbaglio, che da Patrizia partì un ordine. Secco, perentorio.

«Passami la Derringer, porco zio!» m’ingiunse. «Che adesso li sistemo io quegli stronzi».

Temendo guai peggiori – ci mancava solo il ferimento o l’omicidio di qualche aspirante scrittore, roba da farne un giovane martire delle italiche lettere –, temendo siffatta tragedia, dicevo, io me ne stavo quatto quatto al mio posto. E, nei limiti del possibile, tentavo di aprire un dialogo con quegli scalmanati. Per farli ragionare. Perché non ci rompessimo tutti l’osso del collo.

Ma avevo appena estratto dalla borsa la mia solita bottiglia di liquore Strega brandendola in aria come uno scudo protettivo («Voglio proprio vedere» pensavo «se hanno l’ardire di sputare sullo Strega!»), allorché, con la coda dell’occhio, vidi Patrizia con la pistola in pugno che mirava alle ruote del pullman.

E dio volle che sparasse soltanto alle ruote anziché alle zucche di quegli stupidelli, che finirono ingloriosamente la loro corsa dentro un fosso.

Superfluo aggiungere che dopo quella sparatoria, con relativo scambio di insulti al vetriolo, venni licenziato su due piedi. E che a partire da quel momento iniziò una dura campagna denigratoria nei miei confronti fatta di telefonate anonime e di lettere minatorie. Con inequivocabili avvertimenti del tipo: «Lo sappiamo dove stai, preparati: presto, molto presto, ti veniamo a prendere!»

 

Più infastidito che preoccupato, una sera mi confidai con Patrizia. Che, a modo suo, mi rassicurò.

«Se quei ragazzotti ti rompono il cazzo» mi disse, «io li faccio strigliare da una squadra di camerati… Con quattro manganellate e un po’ di olio di ricino si sistema ogni cosa! E quanto alle loro amiche, invitale tutte – quelle stagiste di carta e di penna – a venire a fare un sano e sacrosanto ‘stage del pene’ all’Hotel Paradiso in modo che, da inutili maestre di scrittura, possano ragionevolmente trasformarsi in utili maestre dell’uccello».

 

Note

 

[1] A beneficio dei lettori e di comune accordo con l’Editore, si è scelto di riportare il testo integrale della succitata lettera di Artaud, così è chiaro che io non conto balle.

 

Al signor Pierre Laval, presidente del Consiglio,

Vichy

Rodez, 15 ottobre 1943

 

Mio carissimo amico,

per quanto lei sia in questo momento oberato di preoccupazioni e impegni, non può non ricordarsi dell’amicizia che ci ha uniti dal 1930 al 1937 quando nell’agosto di quell’anno sono andato a riportare il Bastone di san Patrizio agli irlandesi.

Quest’amicizia era tutta basata su ragioni extraletterarie che nelle circostanze presenti deve avere specialmente a cuore perché sono diventate di assoluta attualità. Le ho fatto spedire prima della mia partenza per l’Irlanda una copia del mio ultimo libro: Les nouvelles révélations de l’être. E sa quello che mi è accaduto in Irlanda e che dopo aver mostrato il Bastone di san Patrizio agli irlandesi che è stato da tutti riconosciuto come tale, e averlo lasciato in mani irlandesi, sono stato arrestato per ordine della polizia inglese e deportato in Francia con il pretesto che mi trovavo senza denaro.

 

[2] Rinomata trattoria, sita al pianterreno di un vecchio palazzo, dalla fama alquanto equivoca pur traendo la sua denominazione dal vicino e omonimo santuario delle Tre Marie già cantato da illustri cronisti e poeti. Tra cui Andrea Zanzotto, che in una nota autografa del 2005 così evocava le circostanze di una sua lirica giovanile datata febbraio 1938: «In quegli anni leggevo molti poeti antologizzati nell’enciclopedia del Prampolini e la suggestione félibristica forse è arrivata di là, e precisamente da un’esaltazione del Santuario delle Tre Marie». Cfr. Andrea Zanzotto, In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto, 1938-2009, nota introduttiva di Giorgio Agamben, prefazione di Stefano Dal Bianco, Quodlibet, Macerata 2019, p. 271.

4 thoughts on “Giorni di collera e di annientamento

  1. 1883 più 136 fa 2019, ammettiamo che la ex ausiliaria della RSI nel 1944 avesse anche solo 15 anni, se ha partorito la signorina Patrizia diciamo anche a 40 anni quella gran gnocca della signorina Patrizia al momento dei fatti narrati avrebbe 50 anni.. Non trovo credibile definire signorina una gran gnocca di 50 anni.

  2. forse lei, caro Mauro, è ancora un valente e impavido giovanotto e in tal caso: buon per lei!
    Sappia però che ci sono donne di 50 anni (signore o signorine, suvvia, non formalizziamoci!)
    che danno la birra a tante sbarbine attualmente in circolazione.
    Glielo assicuro.
    O quantomeno così van le cose qua sul Garda,
    sulle sponde pettegole di questo grande campiello lacustre.
    Mi stia bene
    francesco Permunian

  3. Non dubito di questo ( della gnoccaggine delle 50enni) pensavo solo se una signorina che canta “Giovinezza Giovinezza” con i capelli al vento nell’intenzione dell’autore corrisponde davvero a una donna di 50 anni, oppure a una di 25 per cui invece di “figlia” si sarebbe dovuto dire meglio “nipote” di una ausiliaria della rsi. La cosa non mi pare irrilevante ma non mi formalizzo nemmeno su questo, la mia non era una critica, più una curiosità. Grazie della risposta e buona fortuna al suo libro che mi pare la meriti.
    Mauro Parrini

  4. Ps Chiarisco che la curiosità consisteva nel sapere se definire signorina una cinquantenne che canta Giovinezza ecc è tratto essenziale voluto dall’autore per definire il personaggio ( e mi pare di aver capito che sia così) oppure se non fosse una semplice e piccola svista di calcolo anagrafico, diciamo così. Saluti grazie.

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