di Adelelmo Ruggieri

 

Nel 1970 la multinazionale Bonifica sta progettando di realizzare una strada lungo la costa orientale africana, da Dar es Salaam – una città abitata da uomini dell’interno che ora per la prima volta scoprono la dimensione cittadina – al Cairo, mediterranea come Atene e come Napoli. Bonifica incarica Giorgio Manganelli [Milano. 15 novembre 1922 – Roma, 28 maggio 1990], che accetta con una qualche iniziale riluttanza, di un sopralluogo di due mesi nei luoghi interessati e di darne poi resoconto. La strada non sarà mai realizzata e la relazione di Manganelli restò lì, in un qualche cassetto, ma diventerà, nel 2018, un libro della Biblioteca Minima Adelphi, Viaggio in Africa, e così questo libro-relazione inizia: «L’europeo che, dopo un viaggio africano – non, o non solo la policroma e affollata Africa mediterranea, ma le terre più aspre e solitarie dell’Africa oltre il Sahara –, ritorni ad osservare e meditare le immagini della sua terra di origine, si accorgerà di interpretarle in modo profondamente mutato. Ha lasciato un continente, e ritrova una sterminata città di dimensioni continentali, divisa in quartieri di nazioni, appena consolata dagli esigui e condizionati «spazi verdi» che già considerava «campagna»; una città stordita dai propri frastuoni, asfissiata dalle deiezioni industriali, percorsa da mezzi sempre più impaludati in una trama anelastica; affollata da popolazioni eterogenee e irrequiete.” Era mezzo secolo fa, non si può avere la benché minima idea di come questa frase sarebbe, se scritta da lui ancora in vita, adesso. Quella di Manganelli è un’Africa sempiternamente costretta a trattare “la propria sopravvivenza con l’indifferenza del mondo”; di capanne, di città “rare e lontanissime”; di parchi e riserve che il viaggiatore europeo – per il quale le distanze sono quelle “da un albergo all’altro” – attraversa come scenari cinematografici; perché il viaggiatore europeo percorre l’Africa portandosi dietro un sistema di immagini europee, ricordi elaborati culturalmente, schegge di idee; ancor più, si porta seco una quantità di esigenze, di allusioni europee. L’Africa che ci mostra Manganelli non è quella “da un albergo a un altro”, ma una terra di acque furibonde e effimere, di luoghi inaccessibili che ancora odorano di creazione, di rare strade – gli africani oltre il deserto non viaggiano, la vita è localizzata quando non è immobile – e piste ostinatamente labili. Un’Africa senza paesaggio, perché il paesaggio è stato inventato per l’uomo inurbato: troppo esile è il tessuto cittadino, troppo dispersa la ragna dei villaggi. Il libro ha termine con l’arrivo al Cairo, la massima città africana, ma i suoi rapporti con lo spazio africano sono ora faticosi e imperfetti. L’Africa reale è quella che comincia oltre il Sahara; ma questo è un altro mondo.

 

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La frontiera, di Alessandro Leogrande [Taranto, 20 maggio 1977 – Roma, 26 novembre 2017], venne pubblicato da Feltrinelli nel 2015. Fra le sue pagine è narrata la vicenda di Hamid, un giovane somalo che da alcuni mesi frequenta la scuola di italiano per richiedenti asilo ospitata in via Ostiense, a Roma. E’ in Italia da quattro anni, e nei tre precedenti al suo arrivo – dal 2008 al 2011 – è stato in Libia. È uno dei pochissimi sopravvissuti a uno dei più gravi naufragi del Mediterraneo, avvenuto il 6 maggio 2011 davanti alle coste della Libia, mentre infuriava la guerra. Ha l’espressione di un bambino, in testa tiene sempre un berretto con su scritto BOY, lo calca fin sopra agli occhi. Quando i due si incontrano Hamid inizia a raccontargli del naufragio: Eravamo 750; stavamo a bordo di una grande nave; sono morti in 650. Nei mesi precedenti avevo lavorato come magazziniere in una azienda alle porte di Tripoli, pagavano uno stipendio buono. E Hamid ci sarebbe rimasto in Libia, ma la guerra cambia i suoi piani. La grande paura è che i ribelli e la folla inferocita, che vuole la caduta di Gheddafi, lo scambino per un mercenario proveniente dal Sud, dai paesi al di là del deserto. Con i suoi compagni somali si chiude in casa per un mese. Poi prende a spargersi la voce che i soldati libici vogliono spingere tutti i migranti presenti in città a raggiungere l’Italia; di colpo il mare si è aperto. Quando li imbarcano, i somali li mettono sul ponte, nelle stive vengono ammassati i bangladesi, gli arabi, gli africani di altri paesi. Partono da Tripoli alle cinque del mattino. Dopo venti minuti la nave si capovolge. Hamid sa nuotare, resta a galla. Capisce subito che deve allontanarsi per evitare il gorgo dell’affondamento. Raggiunge stremato la spiaggia. Intanto arrivano uomini in divisa che chiedono ai pochi superstiti di aiutarli. Per ore Hamid fa avanti e indietro tra la spiaggia e il luogo del disastro. Poi torna a casa. Erano in otto. Sono rimasti in tre. I corpi dei cinque amici non verranno recuperati. Ma Hamid decide di tentare ancora la sorte. Ci riesce. Arriva a Lampedusa, è arrivato in Europa, il Vecchio Continente. Da lì a Taranto, poi in corriera fin su ad Aprilia dove trova alloggio in un Centro di accoglienza. E lì resta un anno e mezzo. Arriva il documento di rifugiato. Deve lasciare il centro. Trova casa ad Aprilia, poi a Tor Vergata e ora abita lì. Leogrande gli chiede se gli capita mai di sognare il naufragio. Me lo ricordo, più che sognarlo, risponde. Me lo ricordo ogni volta che sento le notizie al telegiornale di altri naufragi, di tanti morti. Intrecciata a questa storia c’è una seconda storia, e Hamid di questa tace. Ora Leogrande gli chiede a che età è partito per il Grande Viaggio, è così che viene chiamato dai migranti. È partito a tredici anni. Con chi eri? Hamid non risponde subito, poi gli dice che è partito con il fratello di tre anni più grande, ma lui è morto durante il viaggio. Io mi trovavo in prigione in Libia. Leogrande ricostruisce quanto di terribile è accaduto, ma quel silenzio profondo di Hamid tale resta. E non dirà il nome del fratello. È una piaga ancora aperta.

 

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