di Francesco Brancati

 

[E’ appena uscito per Carocci Ideale reale. Sulla poesia di Amelia Rosselli, di Francesco Brancati. Ne proponiamo alcuni estratti].

 

Leggeva, e nel leggere saliva su in cima, proprio in vetta. Che soddisfazione! Che riposo! Tutte le inezie della giornata, come attratte da una calamita, le sgombrarono la mente, lasciandola chiara, pulita. Ed ecco d’un tratto, in mano sua, integro, bello, logico, chiaro e compiuto, l’essenza della vita risucchiata e trattenuta nella forma – ecco il sonetto.

Virginia Woolf, To the Lighthouse

 

La sua solitudine è popolata di spettri, e gli spettri la popolano di solitudine.

Amelia Rosselli, La Libellula

 

Gately capì che era la stessa soffocata incapacità di parlare che si ha nei sogni, negli incubi. Questo era sia terrificante sia rassicurante, in qualche modo. Era una prova per l’elemento-sogno e via e via e via. Lo spettro lo guardava dall’alto e annuiva comprensivo. Lo spettro poteva empatizzare totalmente, aveva detto. Lo spettro diceva che Anche uno spettro-da-giardino poteva spostarsi alla velocità dei quanta ed essere ovunque in ogni momento a sentire i pensieri degli uomini animati, ma non poteva influire su nessuno e niente che fosse solido, e non poteva parlare normalmente con nessuno, uno spettro non ha una sua voce propria udibile e deve usare la voce interna mentale di qualcun altro se vuole cercare di comunicare qualcosa, ed è per questo che i pensieri e le intuizioni di uno spettro ti sembra che siano tuoi, che vengano da dentro la tua testa, se uno spettro cerca di interfacciarsi con te. Lo spettro dice Per esempio pensa ai fenomeni come Le intuizioni o le ispirazioni o le sensazioni, o quando qualcuno dice che ha sentito una «vocina dentro» che gli ha detto di fare questo-e-quello.

David Foster Wallace, Infinite Jest

 

dall’Introduzione. I versi e la colpa

 

Amelia Rosselli esordisce in una delle fasi di più intenso rinnovamento della poesia italiana. Nella prima metà degli anni Sessanta alcuni fenomeni che riguardano la composizione del testo poetico sono attraversati da un processo di cambiamento e alterazione che se da un lato contribuisce in maniera netta allo svecchiamento del campo lirico postbellico, dall’altro rende il generale panorama letterario complesso e di non immediata decifrazione sotto il versante delle singole poetiche.

La causa principale del cambiamento e della rottura viene tradizionalmente individuata nell’azione portata avanti dai Novissimi e dal Gruppo 63. La pubblicazione dell’antologia I Novissimi a cura di Alfredo Giuliani segna l’avvio di un vero e proprio movimento tellurico che oltre a rinnovare stilemi e consuetudini ereditati dalle stagioni dell’ermetismo e dal neorealismo, imporrà una serie di prescrizioni riguardo il rapporto formale con la tradizione e le modalità di costruzione del soggetto. Il presupposto strutturale che riconosce nel libro di rime l’ideale contenitore della storia di un io sembra essere un’opzione non praticabile nella sua interezza, quantomeno bisognosa di un ripensamento in grado di problematizzare le forme dell’«autobiografismo trascendentale» che secondo la nota definizione di Gianfranco Contini[1] costituivano la principale modalità di autorappresentazione del soggetto nei Rerum vulgarium fragmenta[2]. Naturalmente, la questione non riguarda soltanto Petrarca, ma coinvolge tutta la tradizione, problematizzata secondo parametri che non sono quelli consueti al dialogo intertestuale: lo stile e la disposizione allegorica del vissuto nei versi non bastano, da soli, a conferire il carattere di esemplarità a una vicenda umana quando questa non «riscatta la propria contingenza»[3]. Tale processo ha determinato un andamento sussultorio nella recente storia della poesia, caratterizzata da tentativi di liberazione e di fondazione di un nuovo codice lirico e al contempo da operazioni di rifunzionalizzazione, tanto da un punto di vista delle modalità di costruzione del soggetto, quanto da quello più propriamente stilistico e metrico-formale.

 

Se ancora verso la fine degli anni Quaranta a un poeta come Umberto Saba sembrava lecito organizzare a posteriori il racconto del Canzoniere sulla base di un percorso lineare e progressivo come quello delineato in Storia e cronistoria del Canzoniere[4], durante gli anni Sessanta – in coincidenza con il traumatico crollo di «una civiltà contadina e arcaica e la crescita industriale del boom neocapitalistico» (Testa, 2005, p. V) – ritenere che la poesia possa figurare uno spazio autonomo di definizione del sé appare a molti poeti un’opzione ingenua, bisognosa di una serie di accorgimenti teorici che giustifichino e argomentino la stessa scelta di scrivere versi. La discussione intorno ai paradigmi economico-politici coinvolge anche gli istituti della soggettività e della biografia, instillando in chi decide di utilizzare la lirica come strumento di rappresentazione della realtà «un potente senso di colpa che ne preforma la possibilità stessa, la postura» (Giovannuzzi, 2016, p. 27)[5]. Le posizioni espresse dalle scritture di avanguardia e dal neorealismo agli inizi degli anni Sessanta sulle modalità di impiego del linguaggio impongono una rivisitazione delle forme della tradizione secondo coordinate ideologiche extraletterarie. Il clima culturale che ne deriva sollecita una riflessione sul significato della poesia in quanto esperienza testuale assoluta, il cui valore per alcuni precede qualsiasi rivendicazione sociale.

 

Su tale versante è possibile collocare temi e stili diversi, spesso uniti da un comune idolo polemico, sintetizzabile appunto con le posizioni della neoavanguardia e del neorealismo, ritenuti entrambi responsabili di prescrivere una sorta di ipoteca sul senso di continuità (ideale, prima ancora che stilistica) delle scritture contemporanee con il passato. Si tratta di un panorama assai vasto e che meriterebbe un’indagine apposita; qui basterà evocare un paio di punti di vista, utili a descrivere il contesto in cui collocare l’avvio della carriera letteraria di Rosselli. Nello stesso 1964 di Variazioni Belliche Franco Fortini pubblica il Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo[6]: la «poesia-valore» assume una posizione di primato rispetto alle altre forme di comunicazione poetica. La presa di distanza rispetto all’avanguardia emerge netta anche dalle Nuove questioni linguistiche di Pier Paolo Pasolini.

 

Nel saggio-manifesto che rinnoverà il dibattito sulla lingua si legge[7]:

 

Insieme a tale devitalizzazione delle più recenti esperienze letterarie, va collocata la vitalità almeno apparente delle avanguardie, che sono poi per un linguista il sintomo più clamoroso della crisi culturale, priva fino a questo momento di spiegazioni non generiche. Le linee sopra e sotto l’italiano medio su cui si è svolta la storia letteraria recente come storia dei rapporti degli scrittori con la loro lingua di classe – sono comunque linee di lingua letteraria, di letteratura. In questi primi anni del Sessanta si è visto invece un tipo di rapporto nuovo, almeno teoricamente: un rapporto che non si colloca nell’ambito della letteratura, ma anzi parte da una base d’operazione dichiaratamente non letteraria. Io credo che le avanguardie non siano quello che si è sempre detto, con banalità inaccettabile, ossia delle ripetizioni delle avanguardie novecentesche. Per le due seguenti ragioni: 1) Le avanguardie classiche ponevano le loro istanze anarchiche e sovvertitrici in rapporto con la situazione a loro presente; avevano della società un’idea stabile e statica, e vi si ponevano come alternativa altrettanto stabile e statica. Le avanguardie del Sessanta pongono invece le loro istanze dissacratorie contro una situazione, per così dire, pre-futura: sono messianici, demandano al futuro – scimmiottandolo – la situazione dissacrata e rovesciata per definizione (ecco perché si possono anche «integrare» nel presente, e non presentare come dinamitardi). 2) Le avanguardie classiche continuavano a fare la letteratura, e conducevano la loro azione anti-linguistica con strumenti letterari: il loro non era che un innovazionismo fine a sé stesso e portato alle estreme, e perciò scandalose, conseguenze. Invece le avanguardie di oggi conducono la loro azione anti-linguistica da una base non più letteraria, ma linguistica: non usano gli strumenti sovvertitori della letteratura per sconvolgere e demistificare la lingua: ma si pongono in un punto linguistico zero per ridurre a zero la lingua, e quindi i valori.

La loro non è una protesta contro la tradizione ma contro il Significato: i luoghi da distruggere non sono gli stilemi, ma i semantemi.

Tale posizione delle avanguardie si è mostrata finora inattaccabile, e coloro che hanno tentato di attaccarla sono caduti nella banalità, sono sempre risultati misteriosamente sconfitti. Probabilmente perché mentre il luogo zero delle avanguardie corrisponde a un reale momento zero della cultura e della storia, i luoghi da dove la letteratura si difende non hanno più nessuna corrispondenza con la realtà che si sta modificando. Dico subito, tuttavia, che il momento zero scelto dalle avanguardie è solo apparentemente una scelta spavaldamente libera: esso è in effetti una accettazione passiva. Essi suppongono di trovarsi per libera scelta in un luogo dove si trovano invece per coazione (Pasolini, 1999 pp. 1245-964: 1256-57).

 

Al di là dell’importanza che queste parole rivestono per una migliore comprensione di una serie di scelte effettuate da Pasolini in opere più o meno coeve (Poesia in forma di rosa sarà pubblicato da Garzanti in quello stesso anno), sono almeno due gli aspetti della decisa invettiva che colpiscono e meritano qualche osservazione[8]. Ponendo le avanguardie contemporanee in aperto contrasto con gli istituti tradizionali della letteratura, Pasolini ribadisce che il carattere extraletterario della proposta del Gruppo 63 deriva dalla sua origine linguistica e non letteraria: il «rapporto non si colloca nell’ambito della letteratura ma anzi parte da una base d’operazione dichiaratamente non letteraria». L’aspirazione a demistificare e sovvertire le regole del linguaggio presuppone l’interruzione del rapporto di continuità con le opere del passato. La contrapposizione tra le avanguardie storiche e quelle coeve si sovrappone all’altra distinzione, quella tra «linguistico» e «letterario», ed è significativo che per Pasolini il vero discrimine tra le due avanguardie consista nel carattere letterario delle prime, oltre che nella volontà di svolgere la loro azione sovvertitrice nel presente (il «messianesimo» delle seconde suona come un’accusa di intellettualizzazione dell’azione rivoluzionaria, a discapito dell’hic et hunc). Inoltre, lo spostamento sull’asse della lingua di un discorso che ha invece un’origine e una natura letteraria comporta la perdita dei «valori» di cui la tradizione è stata storicamente mediatrice: «non usano gli strumenti sovvertitori della letteratura per sconvolgere e demistificare la lingua: ma si pongono in un punto linguistico zero per ridurre a zero la lingua, e quindi i valori». Attaccare gli «stilemi» vuol dire rinnovare la forma di un discorso ininterrotto, qualcosa di non troppo distante da quanto dirà Rosselli in Spazi Metrici. I «semantemi» della «tradizione» sono invece i bersagli dell’avanguardia, gli stessi che Pasolini sembra implicitamente intenzionato a difendere, per continuare a mantenere operativo il dialogo con il passato.

 

Siamo di fronte a un atteggiamento che sintetizza i motivi per cui la posizione dell’avanguardia appariva contraria ai pronunciamenti di chi nella prima metà del decennio concepiva la poesia come uno spazio adatto per condurre un’azione di rinnovamento e di sperimentazione. Per Pasolini la lingua letteraria dispone ancora di un potenziale «sovvertitore» che la contraddistingue rispetto agli altri linguaggi e che autorizza un suo diverso trattamento. Il problema diventa allora ripristinare la «corrispondenza» tra la letteratura e «la realtà che si sta modificando», in modo tale da rendere effettivo il contenuto di verità (i «semantemi» aggrediti dall’avanguardia) insito nel linguaggio letterario. Il passo citato evidenzia inoltre la sensazione di assedio percepita in quegli anni dai sostenitori della poesia: la letteratura si trova a doversi «difendere» dagli attacchi dell’avanguardia, ponendosi dunque in una posizione di retroguardia che condizionerà in maniera indelebile le poetiche nel decennio. Chi scrive deve prima di tutto giustificare a sé stesso le ragioni che lo autorizzano a prendere la parola. Se filtrata attraverso questa lente, l’esperienza di Rosselli appare ancora più eccezionale, vista l’assoluta assenza di qualsivoglia sentimento di colpa nei confronti della scrittura e della tradizione. Si tratta di un posizionamento diverso da quelli di Pasolini e Fortini e ancora lontano dalla lucida constatazione espressa da Vittorio Sereni nei Versi, risalente al 1960 e poi pubblicata negli Strumenti umani (1965):

 

I versi

Se ne scrivono ancora.

Si pensa a essi mentendo

ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri

l’ultima sera dell’anno.

Se ne scrivono solo in negativo

dentro un nero di anni

come pagando un fastidioso debito

che era vecchio di anni.

No, non è più felice l’esercizio.

Ridono alcuni: tu scrivevi per l’Arte.

Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.

Si fanno versi per scrollare un peso

e passare al seguente. Ma c’è sempre

qualche peso di troppo, non c’è mai

alcun verso che basti

se domani tu stesso te ne scordi (Sereni, 2023, p. 194)[9].

La poesia è accostabile a una dichiarazione di poetica in minore, insidiata, cioè, dalla consapevolezza di essere pronunciata in un orizzonte temporale dove la lirica appare postuma a sé stessa. Una disposizione che si nota già alla fine del verso 1, proteso verso l’irrevocabilità temporale della sentenza («ancora») e amplificata nel verso 9 con cui si apre la seconda parte del componimento, dove si afferma che «l’esercizio» della scrittura «non è più» – non può più essere? – «felice». La poesia intesa come genere letterario appare falsa se confrontata con il piano dell’esperienza, o meglio: chi «pensa» ai versi tradisce il presente, la sua quotidianità di «trepidi occhi che […] fanno gli auguri». Così i versi restituiscono soltanto l’immagine «in negativo» della storia, «il nero degli anni», alla cui limitatezza corrisponde una sensazione di colpa, mediata da una malcelata trasandatezza («un fastidioso debito / […] scrollare un peso / e passare al seguente»). Soprattutto l’idea che la poesia possa trovare un significato e una legittimazione in sé stessa viene derisa – ma da chi? – al verso 10 e successivamente negata dallo stesso io che al verso 11 dichiara una diversa e più fondata aspirazione. Anche questa possibilità, tuttavia, appare quantomeno fallace, se si considerano la sgrammaticatura e l’ironica allusione a un non altrimenti specificato «ben altro». L’ironia che caratterizza gli enunciati del componimento determina anche il tono della sentenza finale: «non c’è mai / alcun verso che basti» poiché la facoltà memoriale – e con essa il rapporto di filiazione che lega la lirica contemporanea alla tradizione – è interrotta, il presente coincide con uno spazio di significazione limitato al suo stesso orizzonte, già «domani» i versi saranno dimenticati.

 

Ho sostenuto che I versi descrive una poetica in negativo nonostante Sereni, durante l’incontro avvenuto il 12 aprile 1960 presso l’Università di Milano, sollecitato da Giansiro Ferrata, abbia negato al testo la funzione di dichiarazione programmatica:

«Il lavoro attuale dei giovani che vanno più o meno in direzioni pavesiane o post-pavesiane ti sembra ancora sperimentale o no? Che cosa ne dici? Come la pensi?» replica: «Posso rispondere […] leggendo dei versi: è la sola poesia semiseria – oggi sono di moda le poesie semiserie (e dicendo semiserie io dico forse meno della moda) –, la sola poesia semiseria con una certa vena poetica che io abbia mai scritto, che non penso di mettere in un libro, che forse non pubblicherò nemmeno in rivista, […] ma in questo caso vale la pena di leggerla perché in qualche modo è una risposta indiretta alla domanda che mi fa Ferrata. Dico subito però […] che non va presa in assoluto questa risposta: è la stizza polemica di uno che a un certo punto si sente frastornato dal chiasso delle succursali ideologiche […] e che in qualche modo, nel suo modo, reagisce, naturalmente, senza farsene una ragione e una ragione assoluta, senza farsene soprattutto, diciamola l’altra brutta parola, una poetica. La poesia si intitola ‘I Versi’» (Sereni, 1995, pp. 583-6)[10].

 

Leggendo la dichiarazione col senno di poi sorprende osservare come i due propositi dichiarati da Sereni saranno entrambi disattesi: la poesia sarà pubblicata prima in rivista e successivamente in volume. La versione letta durante l’incontro milanese, tuttavia, conteneva dei versi soppressi nelle successive redazioni, che meglio chiariscono l’occasione «semiseria» e la «stizza polemica» del testo. Dopo il verso 9, «No, non è più felice l’esercizio», Sereni aveva scritto:

 

Populisti e Poundiani

hanno guastato l’arte,

i parolieri hanno fatto il resto,

i superanapestici i primi

della classe i vitalisti, tu

stesso che volta a volta non sai farti

paroliere poundiano populista,

esser l’orazio di tanti curiazi (ivi, p. 583).

I due bersagli polemici, il neorealismo e l’avanguardia, sono colpevoli di aver guastato l’arte con la “a” minuscola, identificabile con una concezione della poesia che alle questioni di ordine teorico antepone la pratica della scrittura, la dimensione artigianale del lavoro poetico posta in aperto contrasto con la magniloquenza dell’«Arte» con la “a” maiuscola, con il grande stile che «Populisti e Poundiani» rimproverano al poeta: «Ridono alcuni: tu scrivevi per l’Arte». Anche per Sereni, dunque, l’atteggiamento difensivo della lirica nasce in seguito a una serie di rilievi provenienti dall’esterno, dal neorealismo e dall’avanguardia, non è una caratteristica intrinseca all’evoluzione del genere.

 

[…]

 

Se sul versante delle poetiche la distanza tra autrici e autori come Fortini, Pasolini e Rosselli e la neoavanguardia appare incolmabile, sul piano della testualità, e per quanto concerne il rapporto formale con la tradizione, il panorama della prima metà degli anni Sessanta rivela invece zone di fusione, punti di commistione e scambi. Con riguardo ai rapporti di continuità con gli istituti metrici, basta pensare ai variegati impieghi ironici del metro sviluppati da autori come Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Antonio Porta e Edoardo Sanguineti che, come nel caso della sestina e di Tape Mark i di Balestrini[11], danno vita a fenomeni stranianti di «allusività parodica» (Giovannetti, Lavezzi, 2010, p. 125). O ancora alla definizione proposta col senno di poi da Giuliani riguardo la metrica dei Novissimi. Nella prefazione all’antologia del 2003, contraddicendo la sua stessa lettura atonale e informale del verso, accolta da Sanguineti ed espressa nel saggio del 1960 La forma del verso, Giuliani sostiene che la peculiarità formale del verso dei Novissimi consista nella «texture metrica svincolata dalla misura sillabica e fondata sull’intonazione dei gruppi e nuclei semantici (un’altra misura, non un verso libero)» (Giuliani, 2003, p. VIII).

 

In effetti, leggendo un testo come Grigie radure s’accendono non sembrerebbe difficile riscontrare una serie di espedienti volti a configurare un minimo di ricorsività ritmica unita a una sorta di partitura dove i tempi forti coincidono con le parole più rilevanti dal punto di vista semantico, al netto della divisione in quattro strofe:

 

Grigie radure s’accendono

Una banda di ragazzi preda le cavallette

nei terreni da vendere e pianta fazzoletti

in cima a pertiche, tra i cardi.

Il lavoro è già dietro lo steccato, avanza

col tonfo delle betoniere, cola con gli asfalti,

spela il cielo con la sega elettrica;

al suolo è rasa la muta torre.

Dal mio guscio di rovine saltano note di colomba.

Lascia un sentore felice la banda in fuga.

Laggiù sulle ville tramonta e grigie radure

s’accendono, il fiume rabbuia, soffia

un vento che non devasta né punge.

I lumi rossi vegliano ai cantoni del castello (ivi, p. 7).

 

I versi finali delle prime due stanze, il verso 3 («in cima a pertiche, tra i cardi») e il verso 7 («al suolo è rasa la muta torre», con inversione dell’aggettivo che contribuisce all’andamento lirico) hanno la stessa struttura ritmica: sono novenari con ictus di 4a, un verso non esattamente canonico, ma non senza precedenti nella tradizione (molto comune in Giudici, nell’Eugenio Onieghin di Puškin nei versi italiani) e potrebbero essere anche letti come attacchi di endecasillabo (in presenza di un campione più ampio). A partire dal titolo, del resto, si avverte la presenza di un pattern dattilico che si impone sensibilmente nell’ultima stanza: detta la cadenza il primo verso, «Láscia un sentóre felíce la bánda» e si continua con «grígie radúre s’accéndono, il fiúme rabbúia». I periodi dattilici disegnano un notturno dal passo disteso che emerge quasi a sorpresa dal «guscio di rovine» dell’io, annunciato però da quelle «note di colomba» del verso lungo collocato a mo’ di spartiacque tra i due tempi della lirica. L’accurata tessitura dei suoni registra la preminenza della vocale scura (fUga, laggiÙ, fiUme, rabbUia, pUnge, lUmi) e produce effetti di fonosimbolismo (un VEnto che non deVAsta, prima dei lumi che VEgliano) tipici di un notturno. Un altro istituto rilevante è quello dell’enjambement realizzato tra i versi 1 e 2 («preda le cavallette / nei terreni»), 2 e 3 («pianta fazzoletti / in cima»), 4 e 5 («avanza / col tonfo delle betoniere»), 10 e 11 («grigie radure / s’accendono»), 11 e 12 («soffia / un vento che non devasta»). La frequenza degli enjambements autorizza una lettura di endecasillabi interversali, come per esempio «preda le cavallette nei terreni» o «grigie radure s’accendono, il fiume». L’aspetto più significativo investe i rapporti tra metro e sintassi e riguarda il posizionamento del verbo quasi sempre in posizione preminente rispetto agli altri elementi della frase: «preda le cavallette / nei terreni», «pianta fazzoletti / in cima», «avanza / col tonfo delle betoniere», «soffia / un vento che non devasta» ecc. La significativa eccezione si incontra nei punti di svolta: all’avvio della seconda terzina («il lavoro è già dietro lo steccato»), ai versi 10-11 («grigie radure / s’accendono», non a caso titolo del componimento) e durante le scene del primo e dell’ultimo verso: «una banda di ragazzi» che «preda le cavallette» e «i lumi rossi» che kafkianamente «vegliano ai cantoni del castello». Questo trattamento dell’azione contribuisce alla resa cinematica e visiva dello scenario, un aspetto importante del testo e caro agli autori della neoavanguardia, riscontrabile anche in altri componimenti.

 

Il montaggio cinematografico della poesia ci traghetta dunque al secondo punto (nella prefazione compare come primo) della questione individuato da Giuliani come tratto peculiare della poetica novissima, la «riduzione dell’io» percepito come «soggetto critico, utente e antagonista di condizioni storiche determinate». I versi possono ricordare perfino, e di certo non intenzionalmente, alcuni icastici bozzetti primonovecenteschi, nonostante l’aggiornamento ambientale-lessicale delle «betoniere» e degli «asfalti». L’elemento di rottura che invece con più evidenza balza agli occhi riguarda il trattamento del soggetto. L’io compare sibillino e isolato nella sola terza strofa: «dal mio guscio di rovine saltano note di colomba», una strofa-verso posta non per caso al verso 8, e cioè in posizione centrale nel componimento che consta di 13 versi. Il depotenziamento del soggetto si realizza mediante la dislocazione dello stato d’animo nel paesaggio e negli oggetti a lui intorno, oltre che nel suo trovarsi in «un guscio di rovine», un luogo che corrisponde allo stato di cose del presente, dal quale tuttavia emergono «note di colomba», una metafora, neppure infrequente nella tradizione, con cui identificare la poesia.

 

Il differente modo di concepire l’io a livello ideologico produce dunque conseguenze importanti sullo stile. Ed è proprio sotto questo punto di vista che la distanza tra Rosselli e la neoavanguardia (ma anche tra quest’ultima e le poetiche di Fortini, Pasolini, Sereni e altri) appare incolmabile. Per il Giuliani dell’Introduzione del 1961 (ivi, p. 22) la «riduzione dell’io» in quanto «produttore di significati» rappresenta l’«ultima possibilità storica» che il soggetto ha «di esprimersi soggettivamente», cioè di livellare il portato dell’esperienza a quello della valenza sociale e politica del linguaggio. Il poeta si pone il compito di demistificare le arbitrarietà introdotte da una coscienza individuale, riallacciando per questa via il rapporto con la tradizione e facendo passare «dalla parte dell’oggetto» «una proporzione tra l’io il mondo e la società, tra il non-convenuto disordine a noi semanticamente necessario e lo sfondo storico con le sue forme altamente pregiudicate» (ibid.).

 

Tra questo modo di intendere la sperimentazione e la personalissima accezione di Rosselli non si crea nessun tipo di dialogo. L’io rosselliano esibisce spesso modi esorbitanti, reclama il suo diritto all’esistenza e a una comprensione piena anche quando i connettivi razionali della lingua tendono ad allentarsi e la semantica si fa estrema. Rosselli rivendica l’eccezionalità dell’esperienza, il valore tragico della sua biografia non le consente di comprendere fino in fondo le implicazioni sociali connesse a un’operazione di ridimensionamento del soggetto. Il suo io è e rimane elefantiaco perché «il primum della Rosselli è in fondo l’affermazione di un bisogno di esistenza che afferri la realtà in quanto certezza» (Casadei, 2011, pp. 69-118: 113) anche quando questa consiste in elementi del vissuto o in dati sensoriali del tutto personali. La poesia rende oggettivo ciò che altrimenti rischia di rimanere nelle soglie dell’indicibile, la «semantica tradizionale […] viene portata a una sostanziale incoerenza per instabilità di significato, da riacquisire su un piano non esclusivamente linguistico» (ivi, p. 91). In questo orizzonte la personalissima concezione della metrica e il processo di rifunzionalizzazione della tradizione giocano un ruolo fondamentale poiché rappresentano i canali di mediazione tra interno ed esterno. L’ideale della poesia coincide allora con la creazione di uno spazio protetto e insieme oggettivo, un luogo in cui il reale del trauma e dell’esperienza trova significazione e diritto all’esistenza. La tensione dialettica tra il polo dell’ideale e quello del reale genera la sperimentazione di Rosselli, un tipo di ricerca indissolubile dalla biografia nonostante i rischi di ripiegamento romantico che una simile prospettiva comporta (dei quali l’autrice era consapevole, specie durante la stagione di Documento). Nella contesa tra ideale e reale consiste anche il fascino e la bellezza della poesia di Rosselli, i suoi versi realizzano una modalità di conoscenza del mondo e dell’essere umano che è propria della grande letteratura.

 

dal Cap. 1 Ritentare l’equilibrio

 

1.1 Sperimentazione e tradizione

 

I concetti di sperimentazione e tradizione si trovano spesso impiegati per descrivere una disposizione antitetica nei confronti del testo poetico. Prima ancora dell’effettiva pratica testuale, i due termini designano un’attitudine del poeta e una pragmatica di posizionamento nel campo letterario realizzata tramite le dichiarazioni di poetica, l’appartenenza a gruppi, le pubblicazioni in determinate sedi, l’esplicitazione di una militanza politica. Chi sperimenta, di solito, vuole rompere i ponti con i precedenti autori, specie se canonizzati. Chi si professa alfiere della tradizione, al contrario, rivendica un legame più o meno esplicito con opere e autori del passato, spesso polemicamente evocati come un esempio da seguire per rimediare alle storture del proprio tempo.

Ogni periodo della storia letteraria ha conosciuto autrici e autori di entrambi i tipi.

 

Una delle prime impressioni ricavate dalla lettura di Variazioni Belliche, Serie Ospedaliera, Documento e Sleep riguarda proprio la loro irriducibilità a questo genere di categorizzazioni. Nella poesia di Amelia Rosselli la vocazione fortemente sperimentale (oggi si direbbe “di ricerca”) non presuppone il rifiuto della tradizione, anzi la necessità di rifunzionalizzare esperienze del passato è una costante nelle dichiarazioni dell’autrice e finisce per associarsi alle altre fonti che concorrono alla formazione della poetica, come la musica e l’I Ching. La sua ricerca appare coerente con un’impostazione soggettiva della voce nel testo, nonostante il suo sviluppo avvenga in una stagione che prescrive la negazione del soggetto, concepita come un’operazione etica in grado di demistificare le falsità del linguaggio poetico. Ma, pur se ricollegata a un’idea tradizionale di lirica, con Rosselli la semantica viene rinnovata attraverso una costante erosione dei significati. A dispetto di ciò che l’autrice ha più volte dichiarato, il processo non si verifica sempre sulla base di modi razionali e programmatici, bensì partendo da una serie di urgenti istanze legate al proprio vissuto. In questo senso, ogni scelta operata nel contesto del campo non è mai soltanto una rivendicazione culturale, quanto piuttosto un tentativo di avvicinare l’esperienza biografica alla concezione letteraria, un modo di procedere complessivamente distante da quello delle avanguardie e semmai accostabile a un’idea consueta di lirica. Varie affermazioni dell’autrice hanno inoltre concorso a rendere controversa l’interpretazione della sua poesia, generando spesso dei veri e propri depistaggi. Sia dal punto di vista metrico, sia sul versante ideologico-poetico, quanto Rosselli sostiene con studiata disinvoltura in occasione di interviste o negli scritti in prosa fatica a trovare un’univoca chiave di lettura, riferibile senza dubbi alla concretezza delle poesie.

 

Questo stato di cose ha dato vita a una serie di ambivalenze, nonché a una copiosa bibliografia sul versante della ricezione critica e del collocamento di Rosselli all’interno del panorama poetico coevo. Da un lato c’è chi ribadisce la sua assoluta eccentricità rispetto ai contemporanei, dall’altro, la comunque innegabile prossimità di Rosselli alla neoavanguardia (almeno ad alcuni esponenti di questa) ha favorito tentativi di ascrizione tout court nell’alveo del Gruppo 63 (Loreto, 2014). I contorni sono in realtà più sfumati e naturalmente mutevoli attraverso le diverse stagioni della poetica […]. Mentre nella Libellula è presente l’allusione tematizzata alla tradizione (attraverso il recupero delle voci di Campana e Montale), in Serie Ospedaliera e in Documento la dialettica innovazione-conservazione appare più percepibile e deriva dall’intenso periodo sperimentale di Variazioni Belliche.

 

dalla Premessa

 

I capitoli di questo libro sono stati scritti tra il 2022 e il 2024, la riflessione da cui partono e che li sostanzia risale invece al 2012. L’interpretazione dei testi di Amelia Rosselli, siano essi poesie, interventi di poetica o scritti dal taglio critico-saggistico, costituisce il nucleo di fondo di ciascun capitolo, al quale, dal punto di vista operativo, hanno corrisposto vari approcci metodologici e prospettive d’indagine (analisi stilistico-formale, ricostruzione storico-filologica, interpretazione ermeneutica). La questione esegetica riveste un ruolo centrale per la ricezione dell’opera di Rosselli poiché, attraverso la loro imprendibilità, i testi dell’autrice estremizzano il tema fondamentale a qualsiasi indagine letteraria: il problema del senso. Rosselli sfida il lettore a trovare un significato, là dove questo sembra non esserci o per lo meno appare imperscrutabile, sprofondato negli abissi psichici dell’autrice. Ma, mentre il significato letterale si ritrae, la forma e il modo con cui i testi sono strutturati sembrano invece amplificare la sensazione di essere in presenza di un significato chiaro, oggettivo, rigoroso. La forma e i fantasmi coesistono, i fantasmi abitano la forma.

 

Approfondire la dialettica tra soggettivismo estremo e aspirazione all’oggettività, senza avvalorare ipotesi di letture univoche ma problematizzando la complessità della sua polisemia, mi è parso un modo stimolante per comprendere il valore di questa poesia.

 

Note

 

 

[1] Contini (1978, p. 178). Sull’«autobiografismo trascendentale» come modello di autobiografismo in poesia, cfr. Mazzoni (2005, pp. 107-14).

[2] Assai vasta è la bibliografia sulla ricezione petrarchesca nella poesia italiana del Novecento. Per un quadro d’insieme si rimanda ai volumi di Cortellessa (2005) e di Savoca (2005). Per il primo Novecento può essere utile la panoramica di Bonifacino (2016, pp. 407-15). Sulla funzione Petrarca e la macrostruttura del libro di poesia sono fondamentali le analisi di Testa (1983; 2003), Scaffai (2005), Ghidinelli (2013, in particolare le pp. 59-83).

[3] Mazzoni (2005, p. 109).

[4] Si veda in proposito Scaffai (2004, pp. 43-65).

[5] Analizzando la lirica della seconda metà del Novecento lo studioso parla a ragione di una condizione di «persistenza» (Giovannuzzi, 2012).

[6] Cfr. Fortini (1965, ora in Id., 2003, pp. 169-86), ai cui apparati si rimanda per le ulteriori notizie sulla storia del saggio. I saggi sull’avanguardia, rispettivamente risalenti al 1966 e al 1968 (VI Due avanguardie, VII Avanguardia e mediazione), si leggono ancora in Fortini (2003, pp. 77-93 e 93-106).

[7] A riguardo si vedano i saggi sulla nuova questione della lingua raccolti da Oronzo Parlangeli (1971).

[8] Tali considerazioni esulano naturalmente dal proposito di offrire anche soltanto un abbozzo del complesso rapporto tra Pasolini e i diversi esponenti del Gruppo 63; per un primo approccio all’argomento si vedano Bertoni (1997, pp. 470-80) e Giovannuzzi (2013, pp. 123-40), con alcune indicazioni importanti anche per la triangolazione del rapporto Pasolini-avanguardia-Rosselli, per il quale cfr. Giovannuzzi (2012, pp. 179-98).

[9] Per alcune notizie sul rapporto tra Sereni e l’avanguardia cfr. Grignani (2014, pp. 83-92:88).

[10] La trascrizione dell’incontro è stata pubblicata in Danovi (1961, pp. 58-9). Nel testo una nota del redattore segnala che «la stessa poesia, rielaborata e sfrondata degli spunti più occasionali, è invece apparsa successivamente nel n. 126, 1960, della rivista “Paragone” e sarà con certezza ripresa in un prossimo libro». Su “Paragone” il testo dei Versi è pubblicato insieme a Un sogno e a Saba; per queste e per altre notizie si veda l’Apparato critico di Isella in Sereni (1995, pp. 583-6).

[11] Sulla ricezione di Tape Mark I è sintomatico il giudizio di Giovanni Raboni (2006, pp. 347-8: 348) che nel procedimento compositivo riscontrava «una nozione irrealistica e assolutistica del linguaggio della poesia».

 

[Immagine: Foto di Dino Ignani (particolare)].

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